venerdì 5 novembre 2010

Festival di Roma 2010: la BOTTOM FIVE (e altre considerazioni sparse)

Il lato oscuro del Festival, la classifica degli orrori. L’arte imita la vita, si dice, ma ancora di strada ha da farne prima di togliergli il primo posto, soprattutto nelle cose negative… 1. Il pubblico Come sempre, la cosa peggiore di tutte è la gente. Io non capisco, davvero, come sia possibile. Non c’è stata una volta che non ci fosse qualche testa di cazzo che doveva commentare ad alta voce scena per scena. Il top è stato quella che, zittita, ha commentato: “Ma perché? Non stanno parlando”. E certo, perché i momenti di silenzio del film ce li mettono apposta i registi, sono gli spazi adibiti ai commenti del pubblico. Da podio anche il giornalista BBC accreditato con la faccia da maniaco che non voleva liberare il posto per il legittimo proprietario (munito di biglietto) perchè gli avevano detto di sedersi dove gli pareva (per l'organizzazione di merda, vedi punto 4). E poi sono gli italiani... Anche quello che ha dovuto tradurre il film battuta per battuta alla deficiente che aveva accanto non è stato niente male, per non dire delle due che si sono spazientite durante l'incontro con Rockwell, che evidentemente disturbava le loro chiacchiere, dal quale sono uscite solo con la voglia di rivedere FlashDance. Ve lo meritate Alberto Sordi. Ma che ci venite a fare? Biglietti omaggio, senza dubbio: avevano la faccia di quelle che "vanno al cinema" così per rivedersi ed aggiornarsi sulle loro disgrazie sentimentali (perchè solo quelle...), ma non per "vedere un film". Poi cosa vedono lo decidono in cassa tra una chiacchiera e l'altra, tanto chi sta in fila dietro di loro può aspettare. Io vi odio dal profondo del mio cuore e sì, vi giudico senza appello al solo sentirvi parlare tre minuti di cinema. L’unica volta che non avevo nessuno dietro e da un lato, dall’altro lato persone civili, quello davanti PUZZAVA talmente tanto che ad ogni minimo movimento appestava la sala (chissà se leggerà queste parole, ci provo: ciccio, eri seduto in galleria a Kill Me Please, fila 4, posti centrali, stavi con un’amica. LAVATI e LAVA I TUOI VESTITI, anzi buttali e comprati qualcosa di decente). Cazzo, ma è possibile? Invece del caffè HAG, l’anno prossimo facciamo fare da sponsor alla Infasil, almeno distribuiscono un po’ di deodorante. Stesso discorso per i giornalisti: spocchiosi e cafoni, quando non gradiscono te lo devono far sapere in diretta ad alta voce. E spesso, non gradiscono già da prima di vedere il film, mentre fanno la fila. Andate a lavorare. 2. I Want To Be A Soldier Valeria Marini produce e recita in inglese. E questo già basterebbe. Il film fa schifo, ma quando il bambino dice alla Marini: “Non sembri una maestra, sembri una troia” scatta l’applauso. 3. Dylan Dog Venti minuti che lasciano l’amaro in bocca. Se Dylan Dog resterà sul livello dei primi venti minuti, sarà un pessimo film. Vampiri e licantropi per assecondare la moda, niente Groucho, niente Londra, niente atmosfera. Ma perché allora? 4. l’organizzazione Assurde le code per gli accreditati se i posti sono già assegnati, le biglietterie hanno fatto un gran casino, i sottotitoli non erano mai in sincrono, il volume in sala Alitalia variava tra “stordimento” ed “assordante”, ma senza mai passare da “accettabile”. Prezzi assurdi, soprattutto con il rischio di finire in galleria e di avere le sbarre della balaustra davanti agli occhi... 5. Dog Sweat Due parole: che. palle. Se un regista ha l’urgenza di documentare la normalità della vita dei giovani Iran, presumendo che a qualcuno interessi sapere che dopotutto non si sta così male sotto un regime religioso, allora faccia un documentario (e già quello…). Per fare un film ci vuole altro, ci vuole un cavolo di dramma, una struttura narrativa, delle storie da raccontare. Ripeto: che palle. Fuori classifica, in ordine sparso e velocemente: bello The Social Network, di David Fincher, sulla genesi di Facebook e le battaglie legali tra i suoi creatori; ho trovato interessante l’esordio di Jim Loach, figlio d’arte, che ha scelto un episodio di cronaca incredibile per il suo Oranges and Sunshine. Persino la mia idiosincrasia alle storie tratte da una storia vera non ha resistito, stavolta. Pete Smalls is dead di Alexandre Rockwell è un bel film indipendente sconclusionato e fracassone che sembra uscito dagli anni novanta, e che fa vergognare tutto il cinema sedicente indie (ma in realtà fintissimo) degli ultimi anni, da Little Miss Sunshine in poi. Tra l'altro l'incontro con Rockwell è stato complementare a quello di Landis e molto istruttivo, oltre che divertente. Di Animal Kingdom e del suo regista David Michod sentiremo parlare presto: la declinazione australiana del gangster movie è l’alternativa all’asse Scorsese-Tarantino, può non piacere, ma è qualcosa. Al cinema ora. Divertente The Incite Mill, thriller giapponese che unisce il Grande Fratello ad Agatha Christie. Kill Me Please è una black comedy belga d’altri tempi, chissà se lo vedremo al cinema, originale nella sua imperfezione, un diamante grezzo con momenti di grande cinema. Ma possibile che ci mangino in testa proprio tutti, quanto ad originalità? Certo, immagino in Italia un film sull'eutanasia che reazioni susciterebbe... Piuttosto inutili Rabbit Hole e Let Me In (copia verbatim dello svedese Lasciami Entrare), il cinema americano segna decisamente il passo, scadendo nella mediocrità assoluta. Si salva solo The Kids Are All Right, ma solo perché è divertente e con tre attori bravissimi (Julianne Moore, Annette Bening, Mark Ruffalo). Capitolo Italia: Il Padre e lo Straniero di Ricky Tognazzi mette troppa carne al fuoco e fa più fumo che arrosto, ma almeno non è la solita commedia generazionale o stereotipata. Qualche merito ce l’ha e gli va riconosciuto. La scuola è finita è imperfetto ed è stato accusato di banalità, ma d’altra parte meglio questo che Notte prima degli esami, per dare un occhio alla scuola di oggi. Certo i tempi de La Scuola e Auguri Professore sono lontani, ma anche la scuola vera è cambiata. Un grazie a Best Movie e a MS che mi ha supportato e sopportato durante questi giorni convulsi.

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