mercoledì 26 maggio 2010

La Nostra Vita

"I tacchi sono come i parenti: sono scomodi ma aiutano"
Perplesso. E’ la mia risposta definitiva. Al positivo giudizio a caldo, si sono sostituiti nella mia testa parecchi dubbi: la prima parte del film è emozionante – la scena all’ospedale è bellissima – e ha condizionato la mia prima impressione. Esaurito l’effetto emotivo, più ci penso e meno mi tornano i conti. Daniele Luchetti racconta un’Italia che dovrebbe essere dietro l’angolo (ho visto per la prima volta un film nel luogo in cui è girato, visto che ero nel multisala del centro commerciale che si vede all’inizio…), lontano dagli yacht dei cuccioli di Briatore che si sturbano se scendono, lontana dalla alta borghesia che tutti i registi quarantenni oggi scelgono per raccontare le loro storie, lontana dagli sgorbi sociali dei film di Moccia, Veronesi e Brizzi. Eppure questo neo-neorealismo non mi ha convinto. Sembra essere più vero dei sopracitati prodotti per l’ambientazione, ma risulta ugualmente finto nelle intenzioni: piove, governo ladro, italiani brava gente ma un po’ egoisti e razzisti, un po’ anche no, a seconda del momento. Luoghi comuni non meno dei loft a cinque stelle in cui abita Luca Argentero in tutti i film che fa. Poi, ma è un discorso a parte e non vorrei sembrare superficiale, ma possibile che in Italia o si fa un film “socialmente utile” o una commedia all’italiana? Non riusciamo a sganciarci in nessun modo (a parte Salvatores con alterni risultati) da questo ping pong? C’è l’horror, il western, la fantascienza, il musical, il thriller, lo splatter, il free jazz, punk inglese e anche la nera africana. Boh, vabbè. La notizia reale è che Raoul Bova recita. Luchetti si diverte a metterlo nei panni dell’impacciato con le donne e nella divisa da poliziotto (ma decisamente meno eroico dei suoi standard da fiction) e lui, magicamente, per la prima volta nella sua vita, non fa l’effetto del gesso sulla lavagna ogni volta che apre bocca. Elio Germano ha vinto meritatamente a Cannes per la sua interpretazione ed effettivamente non c’è che dire: è bravo. Però meglio nei registri forti che in quelli moderati – in cui – da sempre – sembra un po’ forzato (come nella parte di Quattroformaggi in Come Dio Comanda). E’ un limite notevole secondo me, perché se non si stanca lui di fare il borgataro, prima o poi si stancherà la gente di andarlo a vedere (o comunque io di sicuro, visto che mi sono stufato anche di Al Pacino, dopo un po’). Non so se questo film davvero documenti e denunci in maniera realistica una certa realtà. Mi pare difficile, da una storia così piccola e personale, astrarre e sintetizzare un messaggio sociale utile o critico. Le istituzioni latitano? Ognuno si arrangia come può? Vasco spopola se il livello culturale è basso? C’è la crisi dei valori? L’integrazione sociale è inarrestabile ma frenata dai pregiudizi? Gli italiani peggiorano? Sì, tutto vero, ma poi? Che si fa? Che cosa dovrei capire io - a parte che Elio Germano è bravo – da questo film, che non faccio parte di questa realtà? e uno che ne fa parte invece, che di certo non lo va a vedere, cosa ne può trarre di utile? Troppe domande e nessuna risposta. Forse è un errore di prospettiva, ma mi pare che la commedia all’italiana fosse essa stessa una risposta alla miseria che rappresentava. Ridere per non piangere, o ridere anche. Una fioca luce in fondo al tunnel poi, c’era. Arrivò il boom, certo non per tutti, ma per molti sì. Oggi la luce in fondo al tunnel non c’è, e siamo qua a raccontarci quanto siamo miserabili e senza speranze. Luchetti sa fare di meglio, Il Portaborse e Mio fratello è figlio unico sono due grandi film, questi sì, che ci raccontano, dalla giusta distanza, con ironia e intelligenza, appoggiando sulle storie di persone comuni (il grande Silvio Orlando ghost writer, altro che Ewan McGregor, o lo stesso Germano politicamente confuso) la storia del nostro paese. La Nostra Vita ha un titolo troppo ambizioso e infatti manca il bersaglio che si pone, restando un discreto film in cui però il totale mi è parso inferiore nettamente alla somma delle parti.

giovedì 20 maggio 2010

Adam

"Hai ventinove anni, ORMAI"
ORMAI??? ma come ORMAI??? io ho ANCORA ventinove anni...o no?? vabbè, non divaghiamo che è meglio...uno va a vedersi un film e si ritrova pugnalato alle spalle da battute come queste...

Adam (Hugh Dancy) è un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger che si innamora della sua nuova vicina di casa Beth (Rose Byrne) (non esistono vicine di casa così, belle single e disponibili, nel mondo reale, ma vabbè, è un film). Nonostante le difficoltà dovute alla malattia, una forma di autismo che, tra le varie cose, limita pesantemente l’interazione sociale, la storia sboccia, ma viene messa subito a dura prova dal processo del padre di lei che rischia di comprometterne l’idillio familiare borghese americano. Niente di che, eh? Invece no. La trama non è né più né meno di quella di un mediocre tv movie da mattina di canale 5, è vero, ma la differenza la fanno – oltre alle interpretazioni - le intenzioni e quello che si riesce a leggere tra le righe. Se pensassi che questo film vuole sensibilizzare le persone sull’autismo o strappare facili lacrime (ed altrettanto facili risate) non scriverei neanche il post. Ci sono invece due poli di attrazione in questo film: uno è un’analisi di quanto conti nei rapporti quello che riusciamo a dire e quello che lasciamo capire (o così crediamo). Che accadrebbe se non potessimo usare quest’arma – così importante – e fossimo costretti a dire esplicitamente ogni cosa? Mancherebbe molta poesia, certamente, ma non ci sarebbero neanche margini di errore e fraintendimenti. La sindrome di Asperger illustra cinematograficamente questa linea di confine che ognuno pone un po’ dove crede, convinto che gli altri la vedano. L’altro tema portante è la distanza. La distanza dalle stelle e in generale da tutto ciò che sta oltre il nostro microcosmo personale: Adam osserva le stelle col telescopio, ma anche gli animali del parco di notte…Beth sembra scoprire tutto per la prima volta con lui; la distanza dalle altre persone: Adam la percepisce e la soffre, Beth, come tutti, la calcola e la definisce secondo convenienza. Mentre Adam gioca a carte scoperte, permettendo a noi di verificare facilmente quanto due persone possano stare insieme senza effettivamente essere l'uno parte dell'altra, Beth vive una storia d'amore particolare solo perchè Adam è "interessante", in un momento della sua vita segnato dal crollo delle certezze legate alla famiglia (altra opposizione con Adam, che invece ha perso entrambi i genitori). Quando Adam scopre una piccola bugia di Beth va su tutte le furie, perché non distingue tra bugie piccole e grandi, ma anche perché non sapendo mentire, non può difendersi. Senza spoilerare, questa rottura porta Adam dove non avrebbe mai pensato di arrivare. Beth, invece, non va molto più in là di dove era prima di conoscere Adam.

C'era anni fa un odioso telefilm su Canale 5 con il bambino affetto dalla sindrome di down che in ogni puntata lottava per la sua integrazione ed insegnava qualcosa a qualche americano razzista. Ecco, Adam va in direzione opposta, ma lontano anche da Forrest Gump: perfettamente consapevole dei propri limiti e padrone della sua vita, Adam cerca la felicità come tutti e il proprio posto nel mondo, libero da convenzioni sociali che non afferra ("volete vedere il video della bambina?" "No, ti ringrazio", fantastico) , involontariamente comico e straordinariamente sensibile. Beth non è da meno, ma sembra una che non si è mai posta una domanda in vita sua, troppo presa a passare da una lezione di piano a Brooklyn un aperitivo nell'East Village (sto inventando, ma il senso è questo). Non ci fa una gran figura, tutto sommato. Forse ho divagato io: Adam è un buon film che ha colpito il Sundance; pur rientrando nei canoni del cinema indie americano un po’ troppo autocompiaciuto, riesce a fuggirne gli schemi e a non indulgere nella melassa neanche quando potrebbe, trovando spesso soluzioni originali. Non male.

lunedì 10 maggio 2010

Draquila

"Qui una volta era tutta campagna"
Il valente ministro Sandro Bondi ha detto che Draquila farà fare all’Italia una brutta figura. Potrei chiudere qui il post, in effetti. La forte tentazione è di trasformare questa recensione in un atto di accusa. Vediamo se riesco a resistere. La parola chiave per capire Draquila, secondo me, è ricostruzione. Sabina Guzzanti documenta le fasi della ricostruzione: quella delle case, da un lato, quella delle coscienze, dall’altro. La ricostruzione dei fatti non procede per ipotesi o per assiomi. E’ evidente il cambio di registro della Guzzanti che sparisce progressivamente dal video, insieme al tono satirico con cui si era baldanzosamente presentata in Abruzzo: davanti ad un meccanismo ad orologeria che fa della Protezione Civile la corsia di sorpasso del Governo sulla Costituzione (con tanto di pernacchione alla Sordi) e delle forze armate il bastone fascista per chiudere la bocca alla democrazia (di fatto ottenendo anche il risultato collaterale di inimicare definitivamente le persone e le forze dell’ordine), non c’è tesi da dimostrare, non c’è bisogno di usare la satira – anche perché non c’è niente da ridere. Più o meno tutti gli elementi del puzzle sono noti, per chi vuole sapere. Qualche dettaglio macabro però sfugge forse ai più: nelle tendopoli viene impedito con la forza il diritto di assemblea (sancito dalla Costituzione), le case ricostruite costano il triplo che case normali e un piano per riparare le case solo danneggiate dal sisma (o riaprire quelle agibili) non viene preso mai in considerazione, per evidenti motivi di speculazione e propaganda.
Leggere sui giornali qualche notizia è un conto, vedere il quadro completo è tutt’altra cosa. Che vuol dire mettere in pochi mesi un tetto sopra la testa di centinaia di famiglie? Che vuol dire opporsi a questo piano? Come ha fatto la tv a diventare più convincente dell'istinto primordiale di scappare quando si sente la prima scossa? Draquila dà voce a tutti, offrendo il quadro completo. Sabina dà una vera lezione di senso civico in questo e pazienza se le televisioni sono tutte sintonizzate, ad arte, su Gerry Scotti: il risultato non cambia per questo. La creazione di consensi attraverso la soddisfazione di bisogni di prima necessità è un meccanismo agghiacciante, è il male definitivo travestito da bene, ma che oggettivamente contiene il bene (la casa): quindi come criticarlo, come disprezzare chi loda il proprio benefattore (sempre più scambiato per lo Stato) solo perché, dal caldo e dalla poltrona del cinema, si ha la calma ed il privilegio di osservare gli effetti a lungo termine di questa catastrofe civile?
Il ruolo della Protezione Civile - che dissuase gli abitanti dall'abbandonare le case - è quello più inquietante. Dopo aver mancato di proteggerli dalla tragedia, ne devasta la dignità ed il ruolo anche nella tragedia, estromettendoli dalle decisioni e sradicandoli per sempre dalla loro vita.
La sensazione è che, come per il centro de L’Aquila, anche per il resto del paese la ricostruzione sia impossibile e forse sarebbe meglio trasferirsi altrove, lontani dai luoghi che abbiamo amato e che ci fa male vedere in rovina (fisica, sociale, culturale). E’ evidente che c’è da rifondare un paese in macerie, in cui il re ha dato scacco matto a tutti ma in realtà senza avere avversari all’altezza: l’opposizione è una tenda vuota e disastrata, che metafora tristemente geniale. Draquila, per farla breve, è il nostro Fahreneit 9/11, un documento storico di capitale importanza, una lucida analisi che fa del caso Abruzzo la sineddoche del caso Italia.
(oh, ci sono riuscito, non l'ho mai neanche nominato...)

lunedì 3 maggio 2010

Il piccolo Nicolas e i suoi genitori

"Maria Edwige è molto bella, ma è una femmina"
Sarà stata la pioggia. Sarà che lo rincorrevo da un mese. Sarà stato il cinema di pomeriggio e la passeggiata con Mary. Sarà stata la sala gremita di bambini (mamma, il film è in 3D? mamma, cos'è un labrador? e via dicendo...). Sarà che poi 'sti Francesi tanto male non devono essere se riescono a fare questi film. Sarà che l'autore del libro originale è Goscinny, quello di Asterix.
Insomma, queste Simpatiche Canaglie versione camemebert, ovvero Nicolas ed i suoi amici, mi hanno fatto divertire davvero come un bambino. A partire dai titoli di testa che seguono le illustrazioni originali di Sempè in un labirinto di ritagli e pagine, per arrivare ai vari buffi episodi che compongono il film (il furto della macchina, la cena col capufficio, la maestra supplente, la visita medica...), tutto funziona ed è sapientemente calibrato, come in un acquerello, come in una striscia a fumetti dove i romanzi possono durare quattro vignette. Sceneggiatura, fotografia, interpretazioni, costumi, trovate sceniche (quello schiaffone improvviso è un capolavoro....): tutti gli elementi si valorizzano a vicenda in un mondo fittizio, colorato e libresco e sono orchestrati con cura e mestiere.
I singoli episodi sono legati dal fil rouge della trama: Nicolas si convince che i genitori aspettino un altro bambino e che vogliano pertanto sbarazzarsi di lui. Con l'aiuto (...) dei suoi amici tenterà tutto il lecito e, soprattutto, l'illecito per scongiurare questa terribile disgrazia.
In alcuni momenti ho pensato ad una versione junior di Amelie: voce fuori campo, fotografia satura, personaggi surreali ed irresistibili, dal ciccione buono che mangia sempre allo scarafaggio spione secchione che scampa le botte al grido di "Non potete picchiarmi, ho gli occhiali" (guardatelo nella foto, è quello al centro, e ditemi se non è IDENTICO a Guzzanti quando fa Tremonti, anche nell'abbigliamento...)

Ogni personaggio ha la sua peculiarità, e si finisce col volere bene persino allo scarafaggio spione. I "piccoli" ragionano da piccoli, i "grandi" da "grandi", ovvero da adulti visti dai bambini, incomprensibili ma rassicuranti, anche quando i bambini non ci sono. Non mi dilungo, Il Piccolo Nicolas è un film che fa della leggerezza un valore, che trasmette buonumore e voglia di fare qualcosa di bello, riesce persino a non rendere insopportabili dei bambini delle elementari, e per di più transalpini. La solita programmazione italica lo ha confinato presto agli spettacoli pomeridiani e questo post giunge molto tardi, ma segnatevelo per l'home video (o correte al Metropolitan), non vi deluderà.

Iron Man 2

"Hai mai fatto la modella a Tokyo?"
Non fatevi ingannare dal titolo: Iron Man 2 non è il seguito di Iron Man. Il primo Iron Man, dopo dieci anni di tentativi ha stabilito definitivamente come sarà l’universo Marvel al cinema, nei modi e nei toni. Niente male, ma, purtroppo, niente di speciale e complicato.
Soprattutto, è stato il primo passo in un universo più grande: con Iron Man 2 Marvel lancia definitivamente la filosofia del crossover anche al cinema.
Il crossover, in gergo fumettistico, è l’incrocio tra due o più serie. I personaggi si incontrano, possibilmente si scontrano, i lettori si incrociano e moltiplicano i loro acquisti mensili. La Marvel ne ha fatto un’arte, ora ci riprova col cinema, dopo un decennio di esperimenti buoni (X-Men, Iron Man) e meno buoni (F4, Devil, Ghost), prendendo il diretto controllo dei personaggi dopo aver (s)venduto al miglior offerente i diritti di immagine sui personaggi, di fatto impedendo proprio i crossover. Tony Stark ha lo scudo di Capitan America in laboratorio (Cap è atteso al cinema l’anno prossimo) e dopo i titoli di coda un bel martellone alieno viene ritrovato in New Mexico (arriva Thor, sempre l’anno prossimo). Nick Fury (Samuel L. Jackson) parla del “progetto Vendicatori”, ovvero il gruppo che riunisce nei fumetti, guarda caso, Iron Man, Thor, Cap, la Vedova Nera e altri. Il film dei Vendicatori uscirà nel 2012. Il progetto è articolato e manda in estasi i nerd come me che si sorbiscono dieci minuti di titoli di coda per vedere mezzo secondo di Mjolnir (il martello!!), ma il punto è: ne vale la pena? Non le ho già lette, queste cose e in svariate versioni? Perché non farmi vedere qualcos’altro? Anzi no, il punto non è se ne valga la pena, perché a me Iron Man 2 ha divertito parecchio, nonostante la forzatura degli elementi esterni e un Mickey Rourke veramente fuori ruolo. Tutto sommato quando avevo 15 anni mi piaceva un certo tipo di fumetto e oggi me ne piace un altro. Se avessi 15 anni forse preferirei Iron Man 2 a Watchmen e The Dark Knight, ma non per questo posso dire che Iron Man 2 sia meno riuscito. Iron Man 2 non è il seguito di Iron Man, anche se riprende esattamente dove avevamo lasciato: da “Io sono Iron Man”. Da bravo seguito, poi, scava un po’ nel passato del protagonista, aumenta gli effetti speciali e non è all’altezza del primo episodio, soprattutto perché ne perde quello strano realismo (parliamo sempre di uno che si costruisce un pace maker da solo e ci alimenta un’armatura) condendolo con elementi fantastici e troppo fumettistici. Il guaio di Iron Man è che non gli hanno mai trovato un degno nemico, una nemesi come Goblin per Spider-Man o Joker per Batman. Senza un anti-eroe, l’eroe, di fatto, non ha ragione d’essere. Robert Downey Junior ha catalizzato sul suo Tony Stark il primo film e nessuno si è accorto di quanto palloso fosse Jeff Bridges come nemico. Stavolta, l’accozzaglia di elementi narrativi e la mancanza del fattore sorpresa svelano un po’ il trucco ma Ivan Vanko (Rourke, terribile) è un avversario ridicolo per Iron Man così come Justin Hammer (Sam Rockwell, sprecato) lo è per Tony Stark...Tocca ancora a Downey Junior sobbarcarsi il peso del film e tutto sommato gli riesce bene nonostante il personaggio di Tony non vada da nessuna parte, dal punto di vista narrativo.
La cosa che un po' sorprende, a mente fredda, è che le sequenze di azione in armatura sono veramente poche rispetto al primo film: l'inizio sulla pista, con la versione portatile dell'armatura ed il breve finale con War Machine...altro non ricordo, e comunque siamo lontani da quanto visto nel precedente episodio.
Da amante dei personaggi Marvel, so che nascondono un potenziale drammatico e spettacolare che potrebbe essere sfruttato e mi dispiace vedere un’altra cosa. Come nei fumetti, però, anche per i film conta prima venderli che consegnarli alla storia. Come nei fumetti, ci sono prodotti pessimi, prodotti mediocri e prodotti buoni. Iron Man 2 ricade nell’ultima categoria, anche se è evidente che per apprezzarlo bisogna o spegnere il cervello o appunto, prenderlo come un lunghissimo trailer di quello che vedremo nei prossimi anni. Comunque, va bene così. P.S. Aridatece Gotham City.