mercoledì 26 gennaio 2011

And the winner is...

Alla fine ce l’hanno fatta i migliori: i nominati agli Oscar come film d’animazione sono Dragon Trainer (Dreamworks) , L’illusionista e Toy Story 3 (Pixar). Considerando la candidatura di Toy Story 3 anche a miglior film, va da sé che Pixar si porterà a casa la statuetta anche quest’anno. Nel rincoglionimento ormai galoppante ed inarrestabile, ho cercato il post sui quindici pre-selezionati dall’Academy e i miei pronostici, solo per trovarlo tra le bozze non pubblicate. In sintesi, i quindici in corsa erano: • Alpha And Omega Cani e gatti: la vendetta di Kitty GaloreCattivissimo me The Dreams Of JinshaDragon TrainerIdiots And Angels L’illusionista Il regno di Ga’Hoole: la leggenda dei guardiani Megamind My Dog Tulip Shrek e vissero felici e contenti Summer Wars Rapunzel Tinker Bell And The Great FairyToy Story 3 Ovviamente erano da escludere a priori Tinker Bell, Alpha and Omega, Cani e Gatti e Ga’Hoole (poco apprezzato da critica e pubblico), e anche Shrek perché la DreamWorks non poteva non spingere su uno dei maggiori incassi, ovvero Megamind o Dragon Trainer (avevo puntato sul primo, sono contento di essere stato smentito). Scontata la candidatura (e quasi la vittoria) per Toy Story, sicuramente un altro posto se lo giocavano i DreamWorks. Sono molto contento che il terzo ruolo, l’outsider, sia andato al capolavoro di Sylvain Chomet L’Illusionista, piuttosto che a Rapunzel. Se non fosse per la candidatura anche tra i migliori film, io non sarei stato certissimo dell’ennesimo premio a Pixar, e se si potesse, darei l’ex-aequo. Gli altri non li ho visti, ma li ho cercati: The Dreams of Jinsha è un film cinese, non sembra granchè dal punto di vista tecnico. Summer Wars è un film giapponese, ma dal trailer si capisce poco. Comunque non brilla per originalità. Molto più interessanti sembrano soprattutto My Dog Tulip, storia di un'amicizia tra un vecchio inglese ed un cane, che nella tecnica di animazione ricorda Yellow Submarine, e Idiots and Angels, onirico fumetto animato che solo per la musica di Tom Waits meriterebbe la visione. Non avevano speranze di candidatura e neanche di arrivare in Italia, ma credo siano entrambi esperimenti molto interessanti. Ecco i trailer:

lunedì 24 gennaio 2011

Vallanzasca

Alla Lega Nord non è piaciuto Vallanzasca. Quel terrone comunista di Michele Placido potrebbe pensare ai criminali delle sue parti, invece di infangare il buon nome della gente della Padania. Non è campanilismo, però: polemiche similmente inutili ci furono - sempre dalla Lega - per Romanzo Criminale e per le fiction sui mafiosi trasmesse da Mediaset (che però che ci doveva fare? Aveva fatto Borsellino, doveva fare pure Riina, sennò gli amici siciliani ci restano male), opere che potevano avere una cattiva influenza sui giovani per il modo edulcorato e romantico con cui rappresentavano dei criminali. Vai a spiegare alla Lega che non si accettano lezioni di etica da chi spruzza disinfettante sulle persone. Vai a spiegare alla Lega la differenza tra fiction e politica, tra arte e propaganda, tra qualità del film e qualità morale del protagonista, tra raccontare una storia e veicolare dei messaggi. Vai a spiegare alla Lega il verbo veicolare.
Il punto è che anche a Vallanzasca (Renato) non è andato giù del tutto Vallanzasca (film). No, non è vero: se il punto fosse questo, Vallanzasca (Renato) sarebbe l’ennesima sponda per rilanciare la mia personale crociata contro i biopic e questa recensione finirebbe qui, ma Vallanzasca (il film) mi è piaciuto parecchio proprio perché ci ho visto tutto tranne che un film biografico. La struttura del film è la stessa di Romanzo Criminale, Michele Placido ha capito la lezione e si affida a tutta la sua esperienza: ne esce un film solido, potente, accattivante. Kim Rossi Stuart buca lo schermo con un personaggio sopra le righe e riuscitissimo, che importa quanto simile al vero Renato Vallanzasca. La follia lucida di Vallanzasca è tutta negli occhi finalmente accesi dell’ex Freddo: se fosse un film americano, Rossi Stuart sarebbe candidato ai maggiori riconoscimenti, da noi un altro po’ e gli danno un paio di ergastoli anche a lui. Romanzo Criminale era un film corale e resterà forse più piacevole da rivedere. In Vallanzasca i personaggi ruotano attorno al protagonista apparendo e scomparendo in continuazione senza molta logica (penso al personaggio della Solarino, ma anche a quello di Filippo Timi), segno di una sceneggiatura scritta diversamente (troppe mani all’opera?) e in cui pesa anche la mancanza della struttura epica e romanzesca dell’opera di De Cataldo. A parte l’inevitabile confronto con Romanzo Criminale, Vallanzasca mi ha ricordato soprattutto Nemico Pubblico di Micheal Mann, in cui Johnny Depp interpreta John Dillinger, Vallanzasca americano ante litteram, anche lui amato dall’opinione pubblica e dalle donne e incline a deridere lo stato oltre che a derubarlo. Come Dillinger, Vallanzasca ha sfidato lo stato, ne ha messo in dubbio l’autorità e ne ha svelato i punti deboli, in qualche modo costringendolo a fare i conti con i propri limiti e a trovare il modo di superarli o aggirarli.
Senza stare a fare le pulci alle inesatezze storiche, sospetto che l’intento di Placido – vecchio comunista incallito - in fondo sia proprio questo: denunciare l’inefficacia e le contraddizioni di un paese che lascia figure criminali come Vallanzasca prima crescano e poi facciano il bello e cattivo tempo, ma anche (sotto sotto) ricordare che la scelta consapevole di porsi al di fuori della legge ed accettare le conseguenze di tale scelta è più rispettabile (per quanto non condivisibile) che porsi al di sopra della legge e distruggere lo stato dall’interno per farsi i comodi propri. Paradossi dei tempi che corrono. Ecco quindi che nel film Vallanzasca viene accusato e condannato per crimini non commessi da lui (nella realtà non è proprio così), ma di cui sceglie di prendersi la responsabilità per quell’etica criminale che sembra sempre così strana ed affascinante e anche per senso di superiorità nei confronti dello stato che lo accusa e lo condanna a centinaia di anni di reclusione. Lo stesso stato che – oggi – sforna indulti ad personam ed impedisce alla magistratura di lavorare. A parte la lettura politica, non esplicita, Vallanzasca è un film che potrà essere apprezzato anche all’estero per la qualità della regia e della recitazione, che mettono per una volta il nostro cinema al pari di quello americano ed europeo. Non accade spesso, ma vallo a spiegare alla Lega.

martedì 18 gennaio 2011

La versione di Barney

Non avendo letto il libro, sono nell’invidiabile posizione di non avere opinioni preconcette, sempre deleterie in questi casi. Il film racconta la vita di Barney Panovsky (Paul Giamatti) attraverso una doppia linea narrativa che alterna flashback dei momenti significativi del passato di Barney (la sua “versione”, cioè i suoi ricordi) a momenti della vecchiaia di Barney, fino alla sua morte. La tensione narrativa è sostenuta da due eventi: il mistero riguardo la morte dell’amico Boogie, di cui Barney è stato l’unico presunto omicida e dalla storia d’amore con Miriam (Rosamunde Pike), che scopriamo presto essere finita in un divorzio che Barney non ha accettato e che guida l’interesse dello spettatore attraverso i flashback, visto l’inizio così inusuale ed il trasporto iniziale di Barney. Prima di sapere quasi tutto, già sappiamo che Barney è un vecchio rancoroso, uomo solo, forse omicida, che ha rovinato il proprio matrimonio. La sfida del film è quella dell’empatia nei confronti di un personaggio tutto sommato negativo (o non cinematograficamente positivo) che fa sempre di tutto per risultare riprovevole. Sfida vinta? In parte. Difficile fare qualche riflessione senza spoilerare, perché Barney Panovsky è l’ennesimo ebreo letterario cinico, ironico, talentuoso e autodistruttivo, finchè il destino, dopo averlo condannato ad una vita di rimorsi e ricordi dolorosi, lo beffa crudelmente, o forse lo grazia, chissà (ma non vado oltre): solo allora il senso della vita di Barney può diventare significativo anche per chi guarda. Quello che accade a Barney (nel presente) potrebbe far dubitare dell’autenticità dei ricordi ed aprire qualche scenario interessante, ma questo aspetto non viene preso in considerazione nel film, almeno non esplicitamente. Barney Panovsky ha le fattezze di un Paul Giamatti che finalmente trova il ruolo della vita, supportato anche da un cast all-star, da Dustin Hoffman a Bruce Greenwood. Il livello delle interpretazioni è il punto forte del film, che offre anche molti spunti di riflessione, non risolvendo mai tra commedia e dramma (e per questo molto realistico), ma forse in cui pesa troppo la componente giudaica che, in generale, è un luogo comune di cui potremmo fare a meno.
E’ come se ogni personaggio ebreo della letteratura dovesse necessariamente essere estremo nel bene come nel male, contenere per forza sia il meglio che il peggio del genere umano per il fatto stesso di essere ebreo, vista l’insistenza della trama sugli elementi culturali ebraici. In America, è forse scontato il peso specifico della cultura ebraica nella visione, nella critica, e nel racconto della vita in questo genere di opere ambiziose e tragicomiche, per cui è solo il fatto di essere un osservatore esterno che me lo fa sembrare innaturale. Fatto sta che fino al momento in cui la vita di Barney svolta drammaticamente, non ho provato alcun trasporto nei confronti della storia e di un personaggio fin troppo umano per essere amato incondizionatamente come un Forrest Gump, nonostante il film sia comunque ineccepibile dal punto di vista tecnico ed artistico. La versione di Barney è il massimo che il cinema americano mainstream può permettersi, mettendo insieme un libro di successo, attori a caccia di premi e calcoli di guadagno sicuro. American Life di Sam Mendes è dieci volte più vero e profondo, per esempio. Certo il fatto che ci siano voluti più di dieci anni per trovare lo script giusto e che il regista non sia di certo un nome di richiamo (Richard J. Lewis ha diretto molto in tv, nulla al cinema) pesano sul risultato complessivo, forse si poteva fare qualcosa in più, visto il soggetto.
Ogni anno esce un film che – in un modo o nell’altro – abbia questo respiro esistenziale e la pretesa di raccontare il senso della vita agli Americani. Magari con loro funziona, con noi ci vuole anche qualcos’altro che non sono sicuro che questo film abbia.

lunedì 17 gennaio 2011

Skyline

“Ho un ritardo” “Che vuoi dire?”
Se si va a vedere un film come Skyline, la cui tag è “Non guardare in alto” (suggerisco invece “Non guardare il film”), non ci si deve aspettare certo dialoghi tarantiniani o sceneggiature sorprendenti. La locandina, di solito, può sostituire i primi tre quarti del film. Però non è neanche detto che si debba procedere necessariamente per scambi di battute come quello – esemplare – sopra riportato. Se la tua ragazza, visibilmente sconvolta, ti dice “ho un ritardo”, rispondendo “Che vuo dire?” confermi soltanto di averne uno anche tu, ma di altro tipo. E se questa battuta la pronuncia il protagonista dopo cinque minuti, è evidente che raggiungere la sufficienza – per il film - diventa impresa impossibile. Quasi quanto sopravvivere ad un raid alieno armati di macchina fotografica.
Altra cosa evitabile, la scena da western anni Trenta “voi donne state nascoste mentre noi ringo boys – nero con rolex e pistola, bianco con macchina fotografica - in preda al testosterone andiamo a controllare la situazione”. Ovvero andare sul tetto durante un attacco di astronavi armati di una pistoletta da quattro soldi e, appunto, una macchina fotografica di cui dopo aver ammirato il logo ammiriamo anche il potentissimo zoom.
Duro colpo per i nikonisti convinti di essere al sicuro durante la prossima invasione aliena.
Evidentemente decervellati off-screen dagli alieni ma ciononostante vivi (non essendo colpite parti vitali), i due testosteronici idioti decidono quindi che - visto che le astronavi VOLANO e sono arrivate dal CIELO - la via di fuga sia il MARE. Non in sottomarino, beninteso, in motoscafo. L'avranno letto su Focus. Poichè gli alieni hanno bisogno di impiantarsi cervelli umani per vivere, un comportamento così imbecille potrebbe essere anche interpretato come una elaboratissima strategia per essere scartati a priori e avere salva la vita: chi vorrebbe il cervello di due così cretini?
Alieni e disaster movie: due generi cinematografici che – quando sovrapposti – generano inevitabilmente i seguenti luoghi comuni: si comincia presentando i futuri liberatori del genere umano durante la loro (preferibilmente poco desiderabile) routine quotidiana, gli alieni sono brutti, tecnologicamente avanzatissimi, preferiscono atterrare in America (possibilmente grandi città) e non vogliono trattare, una serie di fortuite coincidenze fa di solito in modo che sul più bello vengano sconfitti in modo rapido e definitivo dai suddetti eroi liberatori. Skyline rispetta pedissequamente tutti questi topoi narrativi, eccetto due. Ma non svelerò quali, nel caso qualcuno volesse ancora vederlo dopo aver letto questa recensione. L’altra peculiarità di questo trascurabile filmetto è che i registi, Greg e Lill…pardon, Colin Strause sono stati denunciati dalla Sony per aver “omesso” di menzionare il loro progetto Skyline quando hanno ricevuto l’incarico di realizzare gli effetti speciali per Battle:Los Angeles con la loro compagnia Hydraulx. Battle:Los Angeles ha praticamente la stessa trama di Skyline (e anche la stessa città di ambientazione) ma ovviamente, il budget ed il cast del blockbuster, mentre Skyline si deve accontentare del Dr. Turk di Scrubs e del sosia di Marco Delvecchio (Eric Balfour ed il suo improponibile pizzetto). Questioni deontologiche a parte, Skyline non entrerà comunque negli annali della fantascienza, essendo semplicemente la versione bootleg di un alien disaster movie, più vicina ad un prodotto televisivo che ad uno cinematografico, nonostante gli eccellenti effetti visivi. Creature e integrazione tra reale e finto sono decisamente impressionanti, purtroppo ad essere poco credibili sono proprio gli umani, visto il livello scarsino della recitazione. Soprattutto, gli americani si devono mettere in testa che (oltre che al resto dell’universo) anche al resto della Terra non importa un beneamato ciufolo se vengono vaporizzati, schiavizzati, fatti saltare per aria, annegati, torturati, decervellati. Anzi. Poi Los Angeles è la città meno evocativa del pianeta, vederne la periferia rasa al suolo non genera il benchè minimo sussulto nello spettatore, che piuttosto si schiera con gli alieni, dotati certamente di buon gusto in fatto di architettura civile. Lato positivo: l’impossibilità di coinvolgimento emotivo è funzionale al finale, ma questo film fa per voi solo se siete amanti acritici del genere, che negli ultimi anni ha comunque prodotto film molto più originali come Moon e District 9.

venerdì 14 gennaio 2011

Star Wars HD CountDown -255 : Olly Moss

Provate a cercare Olly Moss nella sezione immagini di Google. L'arte pop minimalista di questo giovane grafico è estremamente interessante, tanto che si è guadagnato uno spazio su Empire, dove ogni mese propone la sua versione di una locandina famosa. Qui c'è il suo sito, qui sotto invece tre locandine che mi sono piaciute particolarmente (e con le quali si apre ufficialmente il countdown per il blu-ray di Star Wars):
Sono o non sono le tre più belle locandine di Star Wars mai prodotte?

lunedì 10 gennaio 2011

Megamind

Il primo a lanciare la moda di morire e risorgere fu Superman. Oggi, se non sei morto e risorto almeno una volta, nei fumetti di supereroi americani, non sei nessuno. Un po’ come nel Cristianesimo. Da Wolverine a Iron Man, da Batman a Spider-Man, un giro nell’aldilà se lo sono fatto tutti. Persino zia May. Effettivamente, il fatto che intorno all’eroe caduto ci sia comunque una comunità di supereroi ha sempre impedito che la nemesi di turno si approfittasse veramente della situazione. Che farebbe Joker dopo la morte di Batman se questi fosse l’unico supereroe in circolazione? Dreamworks, che sulle parodie ha costruito una sequenza impressionante di successi (spesso di bassa qualità), parte da questo presupposto per Megamind, che mette alla berlina la ripetitività dei fumetti di supereroi facendo trionfare il cattivo (Megamind, appunto) e lasciandolo indisturbato sulla piazza. Megamind, però, dopo aver ucciso il rivale di tutta la vita, l'odiosissimo MetroMan (praticamente Elvis Presley con i poteri di Superman), si ritrova presto senza uno scopo di vita, annoiato dalla mancanza della routine dello scontro bene/male: per riportare equilibrio nella Forza decide dunque di creare un nuovo paladino della giustizia con cui confrontarsi. Come in ogni piano di supercattivo che si rispetti, qualcosa va decisamente storto… Il finale si intuisce nel momento stesso in cui inizia la seconda parte del film, anche perché più o meno il tutto è molto simile a Cattivissimo Me, uscito pochi mesi fa. Non importa, perché effettivamente il ritmo ed il susseguirsi degli eventi sono tali che arrivare alla fine è solo la scusa per godersi il viaggio. Megamind racconta quindi cosa accade quando vince un supercattivo sfigatissimo: se vincessero Lex Luthor, o Joker, col cavolo che si preoccuperebbero di creare un nuovo Superman o Batman per mancanza di stimoli. Diciamo che lo spessore di Megamind, come cattivo, è molto più vicino a quello di Pietro Gambadilegno che a quello di Darth Vader: geniale e complessato, gentile ma frustrato, incattivito dalla sfortuna e dalla gelosia per MetroMan più che per un’indole veramente malvagia, Megamind è uno dei personaggi più completi e sfaccettati mai usciti dai computer della Dreamworks (probabilmente per sbaglio). Peccato per quegli eccessi di stupidità, che ci giurerei, sono da attribuire alla dubbia comicità di Will Ferrell, che doppia Megamind in inglese, che stonano particolarmente all’interno di un film che già è una parodia e per un personaggio che non ne ha alcun bisogno per risultare divertente. Fosse stato doppiato da Woody Allen, sarebbe stato un capolavoro. Da sottolineare una colonna sonora hard rock da urlo e alcune scene veramente riuscite: su tutte l’inizio, che da parodia delle origini di Superman diventa analisi psicologica di Megamind ed un perfetto stratagemma per schierare subito lo spettatore dalla parte del cattivo (lezione mutuata da Pixar?) e il colpo di scena che si ricollega alla morte di MetroMan verso la fine (ret-con in puro stile Marvel). Il risultato è convincente, soprattutto perché lo sfrenato citazionismo tipico dell’animazione DreamWorks è estremamente limitato (ma comunque fastidioso), e lascia spazio ad una narrazione coerente e senza digressioni demenziali. L'intuizione iniziale, stavolta è seguita da uno sviluppo alla sua altezza. Poteva andare peggio, e anche di molto: se sia stato il caso o una più attenta calibrazione dei vari elementi narrativi ad aver prodotto questo risultato non lo sapremo mai. Inoltre, per la versione italiana si è scelto finalmente di NON affidare il doppiaggio a qualche star televisiva per imitare la versione originale (che ha Will Ferrell, Brad Pitt, Jonah Hill e Tina Fey). Megamind è divertente, viene voglia di rivederlo, addirittura di sperare che Dreamworks continui così: nell’anno che ha visto la fine di uno Shrek spremutissimo, sono stati lanciati due nuovi potenziali franchise: Dragon Trainer e, appunto, Megamind. Si parte da ottimi risultati (che verranno sprecati nei sequel, temo…), ma si può avere, per una volta, un cauto ottimismo.

venerdì 7 gennaio 2011

Hereafter

Clint Eastwood non ci gira mai intorno. Ero curioso di vedere come avrebbe coniugato il suo cinema così laico, terreno, cinico e umano con un tema controverso come quello dell’aldilà, considerando che già dal trailer si intuisce che il film accoglie senza mezzi termini la tesi dell’esistenza di un “hereafter”. Non è questione di essere d’accordo, ci mancherebbe: probabilmente neanche Eastwood lo è. A parte lo stile impeccabile e una sequenza iniziale bellissima, rimangono più ombre che luci su questa escursione nel sovrannaturale dell’ispettore Callaghan. Non è facile individuare un motivo preciso per cui penso che questo Hereafter non sia riuscitissimo, però, se penso agli ultimi film di Eastwood, la prima differenza che salta all’occhio è il numero di personaggi. Tre personaggi principali e tre storie che si intrecciano solo negli ultimi minuti del film e un po’ forzatamente, sono troppe per essere davvero coinvolti o per rendere in maniera efficace il dramma di ciascun personaggio (come accadeva in Gran Torino o Changeling). Il personaggio di Matt Damon, George Lonegan, medium riluttante, è il più debole, perché è il meno realistico, a meno di credere che i medium non siano tutti dei ciarlatani: il suo dramma è la condanna del suo “dono”, ma oltre a non riuscire a portarsi a letto Bryce Dallas Howard più rossa che mai a causa di una seduta spiritica non mi pare che vada. Effettivamente è un brutto colpo, ma era già sovrannaturalmente irreale la catena di eventi che gliel’aveva servita su un piatto d’argento: sfido chiunque a ritrovarsi ad un corso di cucina affiancato alla più gnocca della compagnia invece che al cesso di turno e scoprire anche che la gnocca siderale non desidera altro che compagnia… Le altre due storie vedono Cecile de France (vista e apprezzata in versione lesbo in L'appartamento spagnolo) nei panni di Marie, una giornalista sopravvissuta allo tsunami del 2004 che ha un'esperienza di pre-morte che le cambia la vita e il piccolo Frankie McLaren, vera anima del film, protagonista della vicenda più emozionante e riuscita: quella di Marcus, distrutto dalla perdita del fratello gemello.
Lo stile asciutto e diretto di Eastwood non regala molto alle vicende dei personaggi, riuscendo però a non sovraccaricarle inutilmente, come avrebbe fatto qualunque altro regista americano: ad esempio, l’utilizzo parco della musica non accompagna e non enfatizza le scene più toccanti, che sono rese come sempre con grande umanità e dignità. E’ facile commuoversi, ma – un po’ come in Invictus – è più per il tema in sé che per merito del regista, in questo caso forse anche un po’ incerto su quale aspetto della questione far risaltare.
Il punto di vista è laico, nonostante tutto, e si può optare per una lettura metaforica: le tre storie sono accomunate da una prematura o imprevista esperienza dei personaggi con la morte che – irrisolta – blocca le loro vite. Il cammino da percorrere deve essere finalizzato all’accettazione serena di un mistero, magari alla ricerca, alla fede in qualcosa (purchè sia provata, e infatti non c’è conforto religioso che tenga), ma con il fine di continuare a vivere e di farlo nel miglior modo possibile. Mi risulta comunque difficile pensare che lo scopo di Eastwood fosse quello di impartire questa lezione, e, anche se fosse, Hereafter resta un film riuscito a metà ( la prima metà) e un po’ privo di quadratura. Di questi tempi, mezzo film riuscito è oro colato, ma è una magra consolazione, se anche Eastwood comincia a sparare a salve.

lunedì 3 gennaio 2011

Tron Legacy

"Io non sono tuo padre"
Gli anni Ottanta, generalmente bistrattati per la moda, la musica, le abitudini, al punto che persino Raf si chiedeva se ne sarebbe restato qualcosa, sono stati invece una miniera di film commerciali basati su idee grandiosamente semplici, di effetti speciali pioneristici ma coraggiosi: date un'occhiata qui, se non ci credete. Ogni anno, un capolavoro: non un film d'autore, ma un pop corn movie assolutamente geniale e -soprattutto - originale: E.T., Indiana Jones, Ghostbusters, Gremlins, Ritorno al Futuro, Blade Runner, Terminator, The Blues Brothers... Accanto ai titoloni, ci sono classici minori, film a cui solo gli anni hanno reso giustizia, magari grazie all'home video o al semplice maturare delle condizioni giuste. Certe idee erano troppo avanti per la tecnologia a disposizione: visti oggi, molti film sembrano limitati, non privi di un certo fascino retro, certo, ma soprattutto sembrano contenere un potenziale che solo l'odierna tecnologia può sfruttare. E' quello che ha pensato Lucas (per primo, come sempre) rimettendo mano alla sua trilogia. E' quello che in sostanza stanno facendo tutti da dieci anni a questa parte: rovistare negli archivi del decennio 1980/1990 in cerca di concept da resuscitare e pompare al computer. Una mano di vernice e via. Se vendeva trent'anni fa, vende anche oggi, e neanche c'è bisogno di marketing, chè il brand si vende da solo. Generalmente ci sono due strade: o ricominciare da zero la storia, non dimenticando di inserire qualche rimando per i fan della vecchia versione del film, o proporre un sequel vero e proprio, andando a recuperare i protagonisti del vecchio film ed affiancandoli a qualche nome di punta o da lanciare (hai visto mai si avviasse un redditizio franchise). Anche la Disney tentò la strada della sperimentazione negli anni Ottanta, ad esempio con Tron. Visto oggi, un capolavoro, originalissimo, visionario, profetico. Ma mio dio, come sa di vecchio, con quelle quelle animazioni poligonali e quegli effetti antidiluviani. E così anche Tron si è sottoposto al lifting digitale, un po' come Jeff Bridges, protagonista del primo episodio ed ora sdoppiato digitalmente in questo Tron Legacy. E tanto Jeff Bridges sembra posticcio nella sua versione ringiovanita (ma dove guarda??), tanto lo sembra tutto il film, che offre l'ennesimo 3D superfluo (nonostante il trucco à là Mago di Oz che il mondo reale è in 2D e quello virtuale in 3D). Garreth Hedlund ed Olivia Wilde (nome e faccia da pornostar) si contendono il premio "Madame Tussaud" per l'espressività, mentre Jeff Bridges (quello vero) ha un personaggio scritto davvero male e non riesce neanche a salvarlo con un po' di mestiere. Quanto alla regia, bah. Non c'è una scena degna di nota, non c'è una scena madre, non c'è niente di veramente sorprendente, a parte le palesi scopiazzature di Star Wars e la noia mortale che prende il sopravvento dopo pochi minuti. La sceneggiatura è assolutamente risibile, con punte di involontaria comicità che ti fanno pensare che i sequel sono una violenza della fantasia dello spettatore ed andrebbero vietati per legge. Io non voglio che Kevin Flynn dica cose tipo "stai interferendo con il mio stato zen". Come farò, la prossima volta che vedo Tron, a non pensare che Flynn invecchierà diventando una specie di monaco zen rincoglionito? Si può fare la damnatio memoriae di un film per preservare la qualità dei precedenti episodi?
La cosa più fastidiosa è che tutto quello che si sia riuscito a fare in termini di invenzioni sia l'upgrade grafico delle celebri motociclette virtuali e l'aggiunta delle macchine e degli aerei. Forse non c'è nulla che si sia sviluppato tanto quanto l'informatica tra gli anni ottanta ed oggi. Ma niente di tutto quello che avrebbe potuto essere inserito ha un minimo riscontro in Tron Legacy, neanche per sbaglio: il mondo virtuale non è che una copia al neon di quello reale. Ogni elemento nel vecchio Tron rappresentava un'entita fisica o logica di un computer: il bit, il programma, l'interfaccia, la memoria, tutto aveva perfettamente senso, anche se la sua genialità era forse poco accessibile ai "profani". Allora, per non sbagliare di nuovo, il mondo virtuale versione 2010 ha il bar, i DJ, l'esercito, la questione razziale, i soprammobili. Mancano solo la piazza con la chiesa e il cane da portare a pisciare. Pochi giorni fa una simpatica famiglia di buzzurri in fila alla cassa del cinema (erano in sei e ognuno voleva vedere un film diverso, per fortuna io ero davanti a loro...) si affidava alla figlia più smart (fronte bassa e occhi vicini) per la seguente descrizione (cito testualmente) di Tron Legacy: "è un film della Disney, quello dello spazzio, 'o volevo vede' ". A regazzi', lassa perde.