domenica 2 ottobre 2011

Not In Not In Kansas anymore (again)


Fedeli ed infedeli lettori di questo blog,
il progresso tecnologico incalza e Not In Kansas cerca di stare al passo.
Ci trasferiamo ad un altro indirizzo, con tutti i nostri pregi e difetti e - stavolta -con tutti i contenuti pubblicati finora.

Il nuovo indirizzo è : notinkansasblog.wordpress.com

C'è un motivo: grazie a Wordpress, Not In Kansas può essere letto su iPhone e iPad in maniera ottimale, con due visualizzazioni pensate ad hoc per i dispositivi mobili e le loro caratteristiche.

In pratica, connettendovi all'indirizzo qui sopra da uno dei due dispositivi, verrà caricata una visualizzazione esclusiva, diversa da quella che si vede da pc fisso.  
Non solo, Not In Kansas può diventare a tutti gli effetti una app del vostro melafonino o tablet: è sufficiente cliccare sul tasto dei preferiti e selezionare "Aggiungi a Home", per avere un'icona di Not In Kansas accanto a quella di Angry Birds...

Ecco un'idea di come si vede il blog su iPad...


Bello eh???

Ci vediamo su Wordpress!!!

venerdì 30 settembre 2011

Blood Story


A volte ritornano. Il remake dello splendido Let The Right One In (Lasciami entrare) era stato presentato in pompa magna al festival di Roma dell'anno scorso : Let Me In, a parte mettere in mostra una Chloe Moretz spettacolare come sempre, confermava soltanto che Matt Reeves, già responsabile del pessimo Cloverfield, non è proprio sulla strada per scrivere la storia del cinema. Insulso, banale, svuotato: Let Me In...scusate, BLOOD STORY (complimenti vivissimi per questo cambio di titolo) non ha niente del suo predecessore svedese. Matt Reeves l'anno scorso ci teneva a sottolineare che il film non è un remake, perchè il materiale di partenza è stato il libro. A me riprendere scena per scena un film europeo e metterci dentro attori americani pare o un plagio o, se vogliamo essere buoni, un remake. Fate voi. Purtroppo, neanche la ricostruzione pedissequa della messa in scen del film di Tomas Alfredson consente alla versione americana di non scadere nel noioso e di scivolare nel discutibile trend vampiresco che ci sta tritando le palle da qualche anno. Lasciate perdere le dichiarazioni di Stephen King, che pure quelle gliele scrive qualcun altro, se volete vedere un bel film, andate ad affittare Lasciami Entrare e godetevelo in casa. Blood Story non vale niente, soprattutto con quel titolo. Così scrivevo nel 2009 di Lasciami Entrare, su una pagina ormai perduta :

Il 2008 è stato l’anno del vampiro. Prima sono arrivati i vampiri più stupidi e insopportabili della storia (dov’è Fracchia col suo ombrello di frassino quando serve?) a rinverdire il mito del succhiasangue, in Twilight e purtroppo ce li sorbiremo almeno per altri due film. Faceva più paura Aldo in quel corto del Conte Dracula terrone. Poi, ma in maniera credo casuale, questo film. E’ vero, ormai non è più tempo per Transilvanie e mantelli, vergini con ampie finestre (aperte) da cui entrare e trasformazioni in pipistrello, così dalla Svezia arrivano i vampiri del ventunesimo secolo, nelle forme innocenti di una bambina di dodici anni (“ho dodici anni, ma li ho da tanto tempo”) costretta ad uccidere per sopravvivere.



Nessuna spettacolarizzazione, nessuna concessione ai facili spargimenti di sangue. “Lasciami Entrare” non è un horror, non ci piove, nonostante la campagna pubblicitaria. E’ uno di quei film difficilmente incasellabili in un unico genere. In una svezia senza tempo (anni settanta?), senza colori, senza orizzonti, Oskar vive l’infanzia del futuro serial killer: vive solo con la madre in un posto sperduto e isolato, è vessato dai suoi compagni di scuola che sogna di accoltellare, ritaglia articoli di giornale su crimini efferati. Destino segnato. Finchè non conosce Eli, una bambina altrettanto sola che si trasferisce nell’appartamento accanto al suo con un strano individuo che la aiuta a procacciarsi sangue umano.


L’incontro tra due mondi di solitudine da cui non si può scappare genera sempre un legame molto forte, e questo è il tema del film, o almeno quello che mi ha lasciato. Gli sviluppi della trama sono abbastanza prevedibili, come il destino di Oskar quando si capisce il rapporto tra Eli e il suo accompagnatore. Non si sfugge al destino, nè all’amore, soprattutto a quello innocente di due bambini di dodici anni. Le altre coppie che si vedono nel film sono i genitori separati di Oskar e due compaesani piuttosto tristi. La forza dell’amore è un pò debole, in mezzo a tutta quella neve, il gelo regna anche tra i rapporti umani. Per questo l’attrazione tra Oskar e Eli è fatale, anche se la prima parte del film ci rivela quale destino aspetta i due: come per Oskar sembra impossibile fuggire da uno spazio sempre uguale a se stesso, per Eli è il tempo ad essere fermo e circolare, la storia deve ripetersi.


Insomma, Lasciami Entrare tutto sembra tranne che un film horror convenzionale o l’ennesima variazione sul tema. L’orrore c’è, ma è nella solitudine e nell’ineluttabilità, dei rapporti che comunque si fondano sulla reciproca necessità e che si consumano, metaforicamente, come quello di Eli e dell’uomo con cui arriva. Il mostro è costretto ad uccidere ma non è quello il suo lato mostruoso, alla fine prevale il bisogno della sopravvivenza, e non c’è bisogno di essere vampiri perchè sia vero.




P.S. A volte ritornano, infatti il 14 ottobre esce I Want To Be A Soldier, prodotto da Valeria Marini ed anch'esso nel limbo dal festival di Roma dell'anno scorso. In confronto Blood Story è Il Settimo Sigillo. Io vi ho avvisato.

martedì 27 settembre 2011

La Pelle Che Abito





La prova del fatto (se ce ne fosse ancora bisogno) che Almodovar sia un maestro assoluto  dell'arte cinematografica è il trailer de La Pelle che Abito, uno dei più brutti mai visti nella Via Lattea. Dal font utilizzato alla fotografia, alla colonna sonora, alle immagini, se non fosse per la presenza di Antonio Banderas tutto sembrerebbe un brutto scherzo dilettantesco. La visione del film rimette a posto ciascuno degli elementi mischiati in maniera indegna per la pubblicità: melodramma, horror, fantascienza, romanticismo, violenza, un mix di ingredienti pronti a deflagrare nelle mani di chiunque, eccezion fatta per Almodovar, che trova un equilibrio perfetto per una storia sulla follia che fa paura per la freddezza che emanano i personaggi nel compiere le loro azioni. L'eleganza usata in passato dal regista spagnolo per dare dignità ai carrozzoni di personaggi allegramente grotteschi diventa distanza difficilmente colmabile con l'universo grottesco sì, ma in senso deteriore, in cui si muovono i vari personaggi di questo film, negativi ma irresistibilmente affascinanti.

La passionalità, l'ambiguità sessuale, la famiglia, temi certamente tra i più cari ad Almodovar sono distorti dalle atmosfere nere della storia di Robert (Antonio Banderas), chirurgo plastico dedito ad una ricerca sulla pelle che travalica, per scopi e mezzi, i limiti della bioetica. Mentre si scoprono i dettagli del passato di Robert, con una efficace narrazione non lineare, tutta la sua lucida follia emerge fino alle drammatiche conseguenze.
Se conoscessi bene il cinema di Pedro Almodovar, potrei scrivere di questo film facendo colti rimandi alla filmografia del regista spagnolo. Invece, nonostante i pochi film che ho visto mi siano piaciuti tutti moltissimo, ancora non ho approfondito a dovere.  Non serve l'esegesi della filmografia di Almodovar per affermare comunque che La pelle che abito è un film originale e disturbante, una favola nerissima con un lieto fine al contrario, che spiazza lo spettatore sovvertendo più volte i ruoli della vittima e del carnefice, fino a non saper bene dalla parte di chi stare...il comune denominatore dei personaggi principali sembra essere l'ambiguità morale, oltre alla tragicità del destino.

Invece di raccontare un mondo ai confini delle convenzioni sociali - come tante volte in passato - ed esplorarne situazioni e personalità, Almodovar sceglie una sorta di universo parallelo, in cui a sfumare sono invece i limiti etici della coscienza dei personaggi, che non trovano salvezza nemmeno nel momentaneo sollievo che le canzoni popolari riuscivano a dare in altre occasioni: anzi, stavolta l'unico momento musicale è utilizzato come mezzo per risvegliare un trauma nel momento decisivo della storia.

La Pelle che Abito segna anche la riunione per una coppia, Almodovar/Banderas, che si prometteva un ultimo ballo da tanti anni. La sinergia tra i due è notevole, pari a quelle delle storiche coppie americane tipo Scorsese / De Niro o Hitchcock / Cary Grant. Banderas - senza dimenticare le meravigliose Blanca Suarez, Marisa Paredes e Elena Anaya, affascina tramite il terrore che incute: controllato e distante, ha negli occhi la scintilla della follia omicida ed incarna la tensione tra luce ed ombra che il film racconta.

Si esce provati, contenti, impauriti. Non sollevati.

lunedì 26 settembre 2011

Carnage

"Polanski, e fatti arrestare" (mio fratello, settimana scorsa)

Era necessario l'ennesimo film sull'ipocrisia borghese che viene smascherata non appena una situazione fuori dall'ordinario ne incrina la sfavillante patina, ad esempio con una bella vomitata in casa altrui?


Mah, secondo me, no.

Sarà che Polanski non mi convince mai del tutto. Sarà che riportare al cinema una piece teatrale molto parlata è sempre un'arma a doppio taglio, anche se poi scegli attori bravissimi.

Sarà che Carnage parte molto bene e costruisce un quadrilatero di tensioni in cui gli attori, finchè devono mordere il freno, riescono magnificamente a coinvolgere lo spettatore nella loro farsa borghese, ma quando si arriva al dunque (o meglio, quando si dovrebbe) la tensione si sgretola, il film si allunga oltremodo in dialoghi pretestuosi e che girano a vuoto, e l'espediente dell'alcool toglie definitivamente forza all'ultimo, inconcludente, atto. Inoltre,Kate Winslet e, soprattutto, Jodie Foster (non aiutate affatto dal doppiaggio) nell'ultima parte del film mostrano evidenti limiti nel cambiare registro e restare credibili.

Un discorso a parte va fatto per Christoph Waltz, ma ormai la sua bravura non è più una sorpresa, mentre John C.Reilly sembra un po' fuori ruolo e la chimica con gli altri tre attori non sembra ottima.

Il problema è che Polanski, di suo, non ci mette niente: piazza la macchina da presa in faccia a chi deve recitare la battuta e via. Un po' poco per un film ambientato in una stanza, altrimenti qual è il valore aggiunto rispetto all'opera teatrale? Restano alcuni momenti divertenti (le situazioni imbarazzanti si sprecano e si gode delle disgrazie altrui, fondamentalmente), ma quando le cose si fanno serie prevale la noia perchè si percepisce la finzione (mi ripeto, il doppiaggio non aiuta) a causa dei voli pindarici che portano una discussione sui figli fino al Darfur e a condividere con due perfetti estranei, anche piuttosto ostili, la propria frustazione coniugale: se la cornice del palcoscenico limita il luogo della scena in maniera diversa e favorisce l'illusione della necessità di tali interazioni, in un film, non può bastare essere chiusi in un luminoso salotto per giustificare questa evoluzione nei rapporti tra i protagonisti.

Provaci ancora Roman, solo che a me non me freghi più (ancora non ti ho perdonato Ghost Writer).

mercoledì 21 settembre 2011

L'Alba Del Pianeta Delle Scimmie



Ingredienti della Caesar Salad: insalata, olio, sale, aglio, pepe, parmigiano, crostini fritti, salsa Worchestershire. Pollo opzionale, ma gradito. E’ la cosa più sana che si possa mangiare ad ovest di New York. Anche al cinema.

Che c’entra col Pianeta delle Scimmie? C’entra. Primo perché lo scimpanzé protagonista si chiama proprio Caesar, secondo perché ho visto il film seduto in mezzo a dei messicani ruminanti che si sono alzati quattro volte per fare il refill di coca e che –giuro – si sono presentati in sala con l’insalata di pollo (la Caesar, appunto): ho realmente sperato che un gorilla irrompesse in sala e li strangolasse nella loro stessa cena da asporto, il mio livello di tolleranza già messo alla prova da una giornata a Disney World passata ad essere rallentato ed infastidito da brigate di portoricani e messicani, i primi organizzati secondo una struttura matriarcale ( nonna, almeno tre figlie e almeno tre nipoti per figlia, età media della nonna: 40 anni, mariti assenti o in prigione, chi lo sa, capacità rara di farsi le foto nei posti più assurdi zoomando all’inverosimile così da escludere qualunque dettaglio al di fuori del primo piano…e che te la fai a fare la foto in posa allora?) i secondi in famiglie numerose di almeno quindici individui tutti obesi e sempre con qualcosa in mano da masticare. E nessuno capace di percepire l’utilità del Fast Pass, ovvero l’equivalente del pollice opponibile in un parco a tema. E tu, ragazzina obesa e pelosa con le braccia corte, falla finita di cercare di toccare le cose in 3D sbracciandoti ed urlando come un’indemoniata. SONO FINTE. Non è che non ci arrivi per le braccia corte, non ci arrivi perché E’ UN’ ILLUSIONE OTTICA, perdiana. Quante volte lo devi fare prima di capirlo? ma torniamo alle scimmie. Digitali.


Il riavvio, vecchio trucco d’emergenza degli informatici, per stavolta, ha funzionato. Dimenticando il capolavoro del 1968 con Charlton Heston (nonostante alcuni dovuti omaggi ed un “gancio” pressoché ininfluente), questo è il primo capitolo di una nuova storia e come tale va giudicato.
 
Contrariamente alle mie pessimistiche previsioni, infatti, L’Alba del Pianeta delle Scimmie di Rupert Wyatt è praticamente autoconsistente ed estremamente godibile. La storia è quella di Caesar (Andy Serkis), scimpanzé orfano super intelligente cresciuto in casa da Will Rodman (James Franco), scienziato spericolato che testa sugli scimpanzé una cura per l’Alzheimer per salvare suo padre (John Lithgow), con un virus che ha come effetto collaterale l’accrescimento dell’intelligenza dei primati sottoposti agli esperimenti – di una dei quali Caesar è appunto la progenie.
Dopo un incidente con un vicino molesto, Will deve rinchiudere Caesar, spaventato e sofferente nel capire di essere visto nel migliore dei casi come un animale domestico e nel peggiore come un mostro, in uno zoo prigione, dove, novello Clint Eastwood, architetta la fuga e guida la rivolta delle scimmie recluse contro i guardiani bastardi (Brian Cox e Tom Felton), e la razza umana. Senza aver conosciuto neanche un messicano in vita sua.

(Idea per un sequel, prendete nota: i rapporti tra scimmie e uomini degenerano fino alle armi nucleari quando Caesar, al bar, chiede un tramezzo prosciutto e formaggio – fuori menu - al cameriere messicano. …C’avete mai provato voi?)

Scherzi a parte, la rischiosa scommessa - per me, vinta - dell’autore è quella di incentrare un intero film sul dramma interiore di un personaggio digitale, non umano e che con gli umani si scontrerà duramente, mettendo al centro del film la sua condizione di escluso da due mondi ed il suo percorso di liberazione. Storia trita e ritrita, ma qui l’empatia coglie di sorpresa: la performance di Andy Serkis in motion capture è il cuore del film ed il dolore di Caesar è la cosa più reale e toccante, nonostante l’evidente e non sempre fluida manipolazione digitale. Se nel breve ma intenso climax finale vi ritroverete a parteggiare per le scimmie invece che per gli uomini il merito è tutto della prova dell’attore inglese che già ci aveva regalato un sontuoso Gollum.

A James Franco va riconosciuta la capacità di dare profondità ad un personaggio secondario e monodimensionale  in maniera eccezionale (in teoria il suo ruolo è quello del protagonista umano, ma ben presto la figura di Caesar diviene predominante), come già dimostrato nella saga di Spider-Man, mentre Freida Pinto è una triste decorazione non necessaria, palesemente inserita a forza per conquistare qualche copertina di magazine rosa. Tutti i personaggi umani sono, a conti fatti, stereotipi da film di fantascienza di serie B, salvati solo da decorose interpretazioni: lo scienziato con il complesso di Dio che la fa grossa (due volte), il capo senza scrupoli, la bella utile come una suppellettile, il cattivo ottuso che scatena il conflitto. C’è anche Draco Malfoy che fa la fine che Harry Potter gli doveva far fare fin dalla prima elementare. Non mancano neppure i luoghi comuni dei film a tema carcerario tipo Sorvegliato Speciale: il protagonista innocente che si deve far furbo sennò gli fanno lo scherzo della saponetta, il capo della prigione che sembra buono ma è una merda, il capo delle guardie cattivissimo e con la faccia da cazzo, il prigioniero amichevole, quello grosso ma buono, quello che mena tutti e che va rimesso in riga.

Il titolo del film e, in parte, il trailer potrebbero trarre in inganno: questa non è la storia della guerra tra scimmie e uomini (nonostante tutto il casino che riescono a fare, le scimmie coinvolte alla fine sono circa una trentina, un po’ poche per sottomettere il genere umano –a parte il Messico - o anche solo per suggerire che sarà una conseguenza logica di quanto avviene nel film). Va bene così: quella storia già la conosciamo, era giusto raccontare qualcos’altro invece di aggiornare solo gli effetti speciali ( cosa che peraltro aveva già fatto Tim Burton col suo remake inguardabile). Manca – perché la ramanzina sul delirio di onnipotenza non la considero proprio – una riflessione sul rapporto dell’uomo con se stesso, che è il vero nocciolo di tutte le grandi storie di fantascienza, ma tale mancanza è compensata sul piano emotivo e narrativo, con un paio di scene davvero toccanti, e per stavolta alla FOX gliela passiamo. Fino al sequel che affonderà la saga di nuovo.

In conclusione: Ogni epoca ha la fantascienza che si merita, a noi tocca quella dei concept riciclati, della computer graphic, delle storie senza significato, dei brand. I binari su cui gli studio fanno correre oggi queste baracconate che chiamano film sono tali che il risultato risulti quasi sempre scoraggiante ed irritante, perciò un film come L’Alba del Pianeta delle Scimmie è il famoso uomo con un occhio solo nel regno dei ciechi (che giustamente non sa che farsene degli occhiali 3D), se non altro per esser riuscito dove aveva fallito Avatar, ovvero dare umanità ad una creatura mo-cap al punto da suscitare empatia.   

P.S: Non voglio passare per razzista: il Fast Pass era sconosciuto anche a molti biondi ed atletici (si fa per dire) WASP americani. E per la cronaca, gli unici italiani incontrati hanno saltato la fila e progettavano di fregarsi gli occhialetti 3D, e mi hanno dato fastidio più di tutto il centroamerica messo insieme. Ah, erano del nord. Poi sono i romani e i napoletani...








lunedì 19 settembre 2011

Crazy Stupid Love




Eppur si muove. Un’ impercettibile variazione nella struttura – che il titolo proprio non suggerisce – ed una commedia romantica americana cerca –con discreto successo - di ammodernare un genere che ci ha ripetuto la solfa di Harry ti presento Sally troppe volte. Tra l’altro, vedendo Insonnia d’Amore l’altra sera, ho notato che Meg Ryan è un’attrice mediocre tanto quanto Jennifer Aniston. Non sarà che sono gli interpreti maschili a rovinare le commedie dei giorni nostri? I vari Adam Sandler e Matthew McComeCazzoSiScrive? Mah.

Insomma, nessuna scena di rincorsa all’aeroporto, nessuna dichiarazione d’amore sperticata e disperata di quelle che poi la tua ragazza ti guarda schifato perchè tu neanche un biglietto d’auguri, nessun lieto fine scontato. Crazy Stupid Love, finalmente, porta la commedia romantica nel ventunesimo secolo, vedremo quanto questo esperimento avrà un seguito. La storia che Steve Carell (anche produttore) si ritaglia addosso parla, con misurata leggerezza, di una crisi matrimoniale crudele e forse insanabile, tra due persone (Carell e Julianne Moore) che stanno insieme dai tempi del liceo.

Alla vicenda principale si aggiungono la vicenda più “classica” che contribuisce al lancio in serie A di Emma Stone e Ryan Gosling –e che cede a qualche luogo comune tipo l’amica saccente e etnicamente politically (un)correct, mai che sia la wasp quella che non tromba – ed il drammone adolescenziale del tredicenne (figlio della coppia in crisi) innamorato senza speranza della baby sitter diciassettenne della sorellina.

Le tre vicende, strettamente interconnesse, servono a descrivere i tormenti dell’amore in tre fasi diverse della vita (illusione, decisione, disillusione), senza mai il tono consolatorio che ci si attende da questi film: in più di un’occasione infatti, il personaggio di Steve Carell indentifica nella moglie che lo ha cornificato la propria anima gemella, suggerendo quasi che questo non basti poi nella vita a restare insieme. Almeno, a vederla così il film offre qualche spunto intelligente. Certo, non è Woody Allen, ma è superiore alla media, soprattutto grazie al livello del cast ( ci sono anche Kevin Bacon e Marisa Tomei in piccoli, decisivi ruoli).

Il lato comico è offerto dalla bravura straordinaria di Carell nel trovare, talvolta solo con lo sguardo, un taglio ironico ad una vicenda che di divertente non ha nulla (un uomo di mezza età lasciato dall’amore della sua vita che cerca di ricominciare rimorchiando nei bar al seguito di un playboy più giovane) e dagli incroci narrativi – in verità a volte un po’ forzati : se il film ha un difetto è infatti l'eccessiva insistenza nel legare a doppio filo tutti i personaggi coinvolti per esasperare l'effetto comico derivante dallo svelamento (funziona la prima volta, la seconda no), a scapito del realismo e della fluidità. Un esempio: la lunga, bella, scena tra Ryan Gosling ed Emma Stone (perfettamente lecita alla luce del colpo di scena di qualche minuto dopo) ha l'effetto di infastidire leggermente lo spettatore fino a quel momento concentrato sulla vicenda principale del personaggio di Carell, che viene accantonato sul più bello. La semplice rinuncia al colpo di scena, tra l'altro prevedibile, avrebbe sicuramente aiutato la coerenza del film, senza impatti sulla trama. D'altro canto, evitare la struttura ad episodi legando i personaggi consente anche di ammorbidire il lato pretenziosamente didascalico di molti film del genere.

Non sto neanche a cercare il nome del regista su wikipedia: non ci sono grandi spunti  ed il ritmo, appunto, non è dei migliori (anche una durata inferiore avrebbe aiutato). I presupposti però ci sono e si vede che non c'è mai la tendenza a prendere la scorciatoia verso l'happy ending. Ca Suffit (?).

venerdì 16 settembre 2011

I Puffi (3D)


Noi film di adesso siamo così, due palle e poco più


Cose strane dei Puffi: non invecchiano (allora Grande Puffo?), non si riproducono, hanno caratteri basati prevalentemente su difetti ma vivono in armonia, sono tutti single e tutti contenti (ma questo mi sa che deriva dal fatto che non si riproducono), non ce ne sono due con lo stesso carattere (e sono oltre cento, secondo il censimento ufficiale), tutti quelli nati naturalmente sono maschi (Puffetta è stata creata in laboratorio da Gargamella per seminare zizzania, usando la costola di un Puffo maschio…mi ricorda qualcosa…), sono blu.

Il punto di blu è uno dei problemi di questi Puffi tridimensionali. La terza dimensione (non quella del 3D, quella di qualunque cosa che non sia un cartone animato) è un altro. Insomma, questi Puffi cinematografici, così, a prima vista, sono un po’ più inquietanti di quelli che guardavamo – chissà perché - inebetiti vent’anni fa in televisione, forse ipnotizzati dalla cantilena intollerabile che accompagna tutte le loro attività. Però, fatta l’abitudine a questa loro nuova incarnazione, risultano comunque simpatici.

Trama: alcuni Puffi finiscono a New York, inseguiti da Gargamella e Birba. Sì, è tutto qui.

Il film dei Puffi non è un brutto film, intendiamoci. Solo mi chiedo a chi sia realmente indirizzato: a dei bambini, certamente, e allora che senso ha tutta la storia costruita su una coppia di New York in attesa del primogenito che si trova coinvolta nel tentativo dei Puffi di tornare al villaggio dei Puffi e aiutando tali Puffi ritrovano la perduta armonia che per colpa dello stress li stava eccetera eccetera? Ma che gliene frega ai seienni di Sofia Vergara che dirige una ditta di cosmetici e vessa i suoi poveri dipendenti tra cui il sopracitato futuro padre? Di contro, ma che gliene frega ai non seienni di Sofia Vergara accollatissima perché è pur sempre un film dei Puffi? Che sia un film da femmine?

Non era meglio un film ambientato nella dimensione dei Puffi, al villaggio dei Puffi? O che prevedesse dei bambini newyorkesi invece che degli adulti con problemi da adulti? Le cose sono due: sono previsti seguiti, dunque il pargolo in arrivo potrebbe essere un futuro amico dei Puffi che magari va in visita al villaggio dei Puffi. Oppure, la storia a contorno serve da contentino per le mamme che possono almeno vedere una storia di adulti con problemi da adulti, più alcuni, inevitabili, Puffi. Per gli sventurati papà al seguito, quel che resta (scoperto) della Vergara, che comunque è un gran pezzo di Puffa pure vestita.

Alla fine, le scene migliori sono quelle iniziali, completamente in CG, al Villaggio dei Puffi, dove si intravedono tutti i Puffi “storici”, prima che la storia si sposti a NY e si concentri – intelligentemente - sul  manipolo di Puffi in vacanza nella Grande Mela (Grande Puffo, Quattrocchi, Puffetta, un puffo Scozzese chiamato “Gutsy” fatto apposta per il film, il puffo che si lamenta di tutto e Clumsy, il puffo maldestro che non ricordo come si chiama in italiano). Hank Azaria, da grande caratterista, è un Gargamella perfetto, ma funziona proprio poco fuori dalla sua ambientazione classica. A salvare la baracca ci pensa un ottimo Neal Patrick Harris, a suo agio anche in un ruolo completamente diverso da quello che gli ha dato il successo in How I Met Your Mother e a recitare evidentemente di fronte a due mele e poco più sostituite poi in postproduzione dai Puffi digitali.

Il film dei Puffi non è un capolavoro ma neanche brutto. Solo: è proprio possibile che persino i Puffi, icone pop del ventesimo secolo, universalmente famosi perché semplicemente bidimensionali e bicromatici, per avere un posto al sole nel ventunesimo secolo, debbano aggiungersi dimensioni, iridi, ombre, sostanza e una vecchia e trita storia con la morale all’americana? Le favole non interessano proprio più a nessuno?

P.S. la costante ripetizione della parola "Puffi " in questo post non è dovuta alla fretta. E' un tentativo di simulare la sensazione di fastidio latente che un'esposizione prolungata ai Puffi, a come parlano e a quanto cantano, provoca negli adulti normali...fatemi sapere se ci sono riuscito....

mercoledì 14 settembre 2011

Contagion


Un virus letale si diffonde incontrollato nella sala cinematografica. Le gole si bloccano, non si sentono più commenti fuori luogo. Il sistema nervoso va in tilt, e i calci alla schiena sono un lontano ricordo. Le lingue si gonfiano, e finiscono quei rumori di cannuccia che aspira in un bicchiere vuoto prima ancora dei trailer. Il virus letale si fa strada fino al cervello, suo obiettivo finale: ma arrivato nel cranio, non trova nulla. Niente materia grigia, niente neuroni, niente. Eco, vuoto, spazio esterno. Il virus muore e l’umanità è salva anche questa volta, nonostante le migliaia di larve umane decerebrate incapaci di intendere e volere (ma qui il virus c’entra poco) e ora anche di offendere (grazie virus). Cazzo, che film sarebbe stato questo.


Invece no: Steven Soderbergh si cimenta nel film sull’epidemia, altro genere svuotato da anni, per far vedere che –volendo – lui può fare anche questo, e meglio di tutti gli altri. Il problema è lo stesso di Gabriele Salvatores, in fondo: no, non che Abatantuono gli tromba la moglie, ma che questi due, capaci di applicare il proprio genio a qualunque tipo di stile, non abbiano, in fondo in fondo, un cavolo da dire.
Contagion è un film freddo e bello, sembra una modella che sfila, algida e distante, perfetta e -per questo- molto poco affascinante. Un cast eccezionale ed una trama solida rendono Contagion un ottimo esercizio di stile, ma niente altro: tutto il contenuto è già visto, sentito, ruminato (e le case farmaceutiche, e l’epidemia di paura, e il ruolo di internet, e l’eroica dottoressa, e la Cina onnipresente). Almeno, c'è la soddisfazione della Paltrow (CAGNA) che muore dopo cinque minuti.

Si esce dalla sala con un po’ di timore di respirare la stessa aria di uno sconosciuto che potrebbe aver toccato un pipistrello infetto, ma – vista la gente con cui mi tocca stare al cinema – si dovrebbe preoccupare di più il pipistrello infetto.

P.S. nel ruolo dell'eroico dottore nero, nientepopodimeno che Lawrence Fishburne, in arte Morpheus, che evidentemente s'è magnato tutta Matrix ma ancora non ha fatto il ruttino.

mercoledì 7 settembre 2011

Cose dell'altro mondo


Cose dell’altro mondo: salito agli onori della cronaca per la polemica tutta leghista (contro un film MEDUSA? Ma mi faccia il piacere....) innescata dalla rappresentazione di un Veneto razzista, intollerante e ignorante. Amici veneti, state tranquilli. Il razzismo e l’ignoranza ormai, per non parlare dell’intolleranza, non sono più una vostra prerogativa. A Roma, per esempio, vi stiamo quasi per surclassare, e partiamo avvantaggiati visto che già ci schifiamo da un quartiere all’altro.

Il film di Francesco Patierno lascia un po’ perplessi, nella sua ingenuità: forse arriva un po’ fuori tempo massimo per ricordarci che gli immigrati sono una forza lavoro indispensabile al paese e che l’inciviltà che imputiamo loro serve solo a nascondere la nostra. Nostra di chi poi, io sono civilissimo. Il Veneto stesso è più un luogo comune che un luogo reale ed è esattamente il posto in cui uno s’immagina ambientata una storia sulla mancanza di integrazione - è una scelta di comodo che toglie forza al film. Ambientiamolo a Napoli un film così, cavolo.

Insomma il concept del film è: che succederebbe se tutti gli immigrati scomparissero dalla notte al giorno senza lasciare tracce? Carino, no? Però il film si perde dietro ai suoi personaggi o forse dietro agli attori, o forse dietro ai capezzoli della Lodovini che escono dal maglione di flanella. Stesso problema di altri film basati su un’idea interessante che serve solo per il trailer (vedi Immaturi, ad esempio).

Così Diego Abatantuono si diverte a fare la versione razzista e ipocrita di se stesso mentre Valerio Mastandrea è ancora l’indolente quarantenne incazzato col mondo (e stavolta armato). Ah, resta la Lodovini che grattuggia le battute inarcando la schiena sperando che uno sposti l’attenzione dal petto all’assenza delle sue proverbiali borse (lifting?) senza curarsi della recitazione.

Tra siparietti simpatici e sottotrame irrisolte o inutili, per tacer di colpi di scena senza senso rispetto ai rapporti tra i personaggi, l’autoindulgenza del film dichiara una resa incondizionata alla vecchia massima “italiani brava gente”. Ho l'impressione che non fosse questa l'intenzione originaria, ma che il livello si sia abbassato strada facendo per sopravvenuta paura di spingere sull'acceleratore.

L’impressione però è che molto di meglio non si potesse comunque fare, neanche osando: gli italiani – la maggior parte, io NO, ripeto – sono così: un po’ Mastandrea, un po’ Abatantuono, l’italia è questa –ahimè – e che sia un film Medusa a ricordarcelo ci fa solo girare ulteriormente le palle, visto che alla fine – e qui sta il limite del film – i personaggi restano uguali a se stessi e tutto cambia ma tutto resta uguale, nessuno impara niente tanto una soluzione si trova anche senza immigrati, come giustamente dice Abatantuono a un certo punto. La regia di Patierno però sembra appoggiarsi sulla mediocrità che racconta e procede senza guizzi, affastellando sottotrame per caricare i personaggi, ma senza un disegno preciso di dove andare a parare.  E’ il limite palese di un’idea che sulla carta pareva buona, ma che effettivamente non ha modo di svilupparsi se non per strade già battute, anzi sconfitte, come lasciar campo agli attori e sperare di portare a casa un sei politico.

martedì 6 settembre 2011

Super 8


Ci sono tanti film in Super 8: ci sono i film del passato, a cui chiaramente J.J. Abrams (Lost, Star Trek) si ispira: film anni ottanta per ragazzi, soprattutto, ma anche i recenti disaster movie. C’è il film che i suoi protagonisti girano, persino durante il panico che si scatena in città dopo il misterioso incidente ferroviario che apre il film. C’è il film che racconta la storia di quell’incidente e di come le vite dei protagonisti vengono cambiate. Infine, ci sono i film che spero Super 8 ispirerà, nel breve e medio periodo, se porterà all’inversione di tendenza che auspico da tanto tempo per i film americani.

Speravo da tempo di vedere un un grande film – nel senso di costoso e commerciale, oltre che riuscito – che non fosse costruito intorno alla possibilità di serializzazione, senza 3D e senza grandi nomi infilati dentro a forza solo per aumentare l’età media del pubblico. Il vuoto lasciato da Spielberg quando ha cominciato a fare film impegnati, seriosi e poco fantasiosi (persino ispirati a fatti reali!) è stato riempito male da film sempre più costosi e spettacolari ma sempre meno capaci di emozionare ed ispirare, spesso al centro di operazioni multimediali e commerciali che toglievano di fatto potenza all’esperienza cinematografica.

Pur non rinunciando ad alcuni dei suoi marchi di fabbrica, J.J. Abrams  ha realizzato un film teoricamente ancora più anacronistico del meraviglioso Star Trek di due anni fa, citando palesemente lo Spielberg di E.T.: biciclette, alieni, problemi familiari, persino il protagonista Joe è identico ad Elliot. Non credo che Steven se la prenderà a male, visto che è il produttore del film. Non a caso poi il film è ambientato, direi quasi che vi è “dedicato”, negli anni settanta (il walkman è il massimo della tecnologia) e nella provincia americana: coordinate spaziotemporali ideali per un film di misteri e dolori della crescita (vedi I Goonies, Explorers, Navigator…). La passione per un certo tipo di cinema è anche un elemento centrale della trama, è ciò che lega i ragazzi protagonisti, intenti a realizzare un film horror amatoriale, ed in qualche modo li protegge dalle cattiverie della vita (la metafora del mostro misterioso è fin troppo evidente). Super8 è un invito a non avere paura (neanche di scadere nel banale con tali messaggi), a non essere passivi, a tendere sempre la mano, a resistere nei momenti bui, a non perdere mai la speranza.

Anche nei momenti più spettacolari, il punto di vista resta quello dei ragazzi, che non sono mai lontani dal cuore dell’azione e non sono mai trascurati in favore dello spettacolo o per una dimostrazione di effetti speciali: la storia d’amore che nasce timidamente tra i due protagonisti è la più bella e vera che si sia vista in questi anni, in cui un singolo abbraccio vale più di mille baci appassionati, perchè messo nel punto giusto e non strumentalizzato per aumentare l’effetto lacrimogeno. Questo è un film che punta intelligentemente ai cuori e alle menti degli spettatori giovani, ai quali viene offerto tutto il pacchetto: una storia di amicizia, di dolori della crescita, un inno alla creatività, lo spettacolo, le astronavi, i buoni e i cattivi, finalmente personaggi a cui si tiene davvero. Merito anche di un gruppo di attori giovani bravissimi, tra i quali spicca sicuramente Elle Fanning (vista in Somewhere), davvero impressionante, guardatela quando si “trasforma” in zombie, che rappresenta il cuore del film. Gli adulti sono un mondo a parte, non meno spaventosi ed incomprensibili dei fenomeni paranormali e anche questa tematica è un marchio di fabbrica spielberghiano riadattato: mancano le madri, invece dei padri, non è un dettaglio: la mancanza dell’amore materno rende ancora più importanti gli altri legami istintivi, come l’amicizia e l’amore, oltre ad esasperare i conflitti con la figura paterna.

Non sono del tutto soddisfatto, comunque. Ci ho pensato molto e credo che manchino essenzialmente due cose a Super8: una sequenza particolarmente emozionante nel finale, che ci leghi definitivamente al film e che compensi quella del deragliamento all'inizio, e un tema musicale incisivo, tipo il tema di E.T. durante la corsa finale in bicicletta che ti fa venire sempre la pelle d’oca. In più, l’inevitabile confronto tra i bambini e il mostro viene risolto in maniera incerta e le due linee narrative non sono sempre ben amalgamate tra loro. E' come se Abrams si fosse in qualche modo accontentato di aver realizzato un film d'altri tempi, alla ricerca di un effetto nostalgico più che di un rinnovamento nel lessico della cinematografia d'intrattenimento. Considerando tutto quello che c’è, però, non è certo il caso di stare troppo a rompere le palle:  non è certo colpa sua se di questi tempi per fare un passo avanti bisogna farne tre indietro .




STAR WARS HD Count Down - 7: Ma(r)y The Force

Una settimana e ci siamo. In rete, già si contestano le ulteriori modifiche apportate da Lucas alla trilogia originale, come da copione. Certo è che George la potrebbe anche piantare ad un certo punto, se prima poteva essere giustificabile, adesso è del tutto incomprensibile e sa anche un po' di provocazione, tipo Luis Enrique che sostituisce Totti e poi perde. Bicchiere mezzo pieno: spendo altri 80 euro, ma almeno non ho esattamente la stessa cosa che ho già in VHS e DVD (due versioni).

Come si intuisce dal titolo, questo post va un po' sul personale. Da bravo maestro Jedi, ho insegnato le vie della Forza alla mia ragazza (Mary), che ha guardato la prima trilogia - versione originale senza neanche gli effetti rifatti, si aspetta il Blu-Ray per l'altra versione - con i seguenti stati d'animo:

Episodio IV: malcelato fastidio e un po' di noia, non ha gradito la semplicità dei dialoghi
Episodio V: rassegnazione iniziale, sollievo finale
Episodio VI: partecipazione modesta, curiosità per il fenomeno Star Wars a livello culturale

Insomma, il minimo sindacale  -anche un po' meno - per passare alla trilogia dei prequel. Con scarse speranze, ho pensato: se non le è piaciuta la prima, figuriamoci l'Episodio I dove me lo tira.

E invece le vie della Forza sono infinite, la trilogia dei prequel ha compiuto il miracolo, ne sarebbe contentissimo Lucas e ne sono contentissimo io, altrimenti mi sarebbe toccato lasciarla (le regole sono le regole, eh). L'effetto è stato notevole, eccolo declinato nel numero di oggetti a tema Star Wars che Mary ha comprato negli ultimi quattro mesi:

1. maglietta con locandina giapponese (per lei)


2. salvadanaio capoccione stormtrooper


3. portachiavi lego R2-D2


4. maglietta vintage locandina (per me)


5. biscottiera Morte Nera





La Forza scorre potente, eh?

giovedì 1 settembre 2011

Si vede dal trailer: Speciale Fab Four

Una storia può essere raccontata in tanti modi diversi. Nella storia dei Beatles c'è posto per le leggende, le agiografie, le meticolose ricostruzioni storico/artistiche, le esagerazioni. La verità, per una volta, non è tanto importante.  La magia della storia dei Beatles è che non si ripete mai uguale a se stessa, perchè ogni volta che qualcuno scopre la loro musica, un altro capitolo si aggiunge, inevitabilmente (guardate il video qui sotto se non siete d'accordo, ma soprattutto se lo siete)...

LIVING IN THE MATERIAL WORLD

A ottobre esce un documentario sulla vita di George Harrison. E io perchè non lo sapevo? Sapevatelo! su Not in Kansas.  Il musicista più sottovalutato della storia della musica finalmente omaggiato come si deve (almeno a vedere il trailer), da Martin Scorsese:




WHY MUSIC MATTERS: The Beatles

Di una semplicità commovente. E' solo un breve filmato, parte del progetto WhyMusicMatters (http://www.whymusicmatters.org/), ma dice tutto quello che c'è da sapere sui Beatles, soprattutto il perchè :)

mercoledì 24 agosto 2011

Harry Potter e i doni della Morte (parte 2)


Riepilogo della parte 1: ammazza che palle. (ma ammazza pure Edvige, Dobby e Malocchio Moody).

Ammettiamolo: non se ne poteva più. OTTO film sulla stessa storia sono decisamente troppi; non è un caso se a otto ci arrivano solo alcune saghe porno di successo, che non si preoccupano affatto dell'originalità delle trame. Star Wars: sei. Indiana Jones: quattro. Pianeta delle scimmie: cinque (più un remake e un reboot). Scuola di Polizia: sei. E tutti hanno almeno un capitolo un po' deboluccio o tirato via.
Insomma, guardarsi questo finale di Harry Potter (sapendo già la fine, tra l'altro), era un puro esercizio di dolore. Infatti avevo rinunciato. Ma a Chicago l'unico IMAX in 3D della città dava solo questo e allora ci siamo andati, perchè volevo che Mary vedesse finalmente lo schermo gigante dell'IMAX. (e in effetti è l'unica cosa che ha visto, dato che si è abbioccata subito dopo i trailer).

Condizioni migliori per vedere questo HP dunque non ce n'erano: schermo IMAX, 3D (americano, che si vede e si apprezza), lingua originale, così David Radcliffe non ha quella odiosa voce nasale e lamentosa del doppiaggio italiano. In effetti, un po' le cose migliorano, ma non abbastanza per non annoiarsi o non pensare che tutte le scene più emozionanti del libro siano state tirate via per fare spazio a un po' di effetti speciali inutili. Si salvano la scena nella Gringott e - un pochino - la storia di Piton. Tutto il resto fa volume e rumore.
E Daniel Radcliffe, che era così caruccio e simpatico ai tempi del primo film, è diventato un nano antipatico e anche abbastanza cane a recitare, incapace di suscitare empatia (alzi la mano chi non ha tifato per Voldemort). Errore dovuto alla scelta di far crescere l'attore insieme al personaggio e puntare quindi su un undicenne sperando che non diventasse a vent'anni un nano antipatico e anche abbastanza cane a recitare. Otto film sono troppi anche per questo.

La storia dei Doni della Morte è affrettata e complicata già nel libro, figuriamoci nel film: si capisce poco e lo scontro decisivo finisce con il solito colpo di culo con il quale la "quattrocchia volante" (copyright "Lorenzo" Guzzanti) se la scampa da quando è nato. Si poteva far meglio, ma qui la colpa è della Rowling.

In definitiva, Harry Potter è un film che non passa la prova dello spettatore occasionale (a giudicare dal sonno profondo di Mary) e non passa neanche la prova di chi ha avidamente divorato i libri (cioè chi scrive). Quindi, cui prodest? (a parte la Warner che nuota nell'oro come zio Paperone grazie agli incassi, certo...)

Kung Fu Panda 2

Inner Peace? Inner Piece of what?”

Neanche per tutto l’oro del mondo, in Italia, sarei andato a vedere il sequel di Kung Fu Panda, che mi lasciò una pessima impressione, impostato com’era su gag banali e personaggi buoni solo per uscire da un Happy Meal. Mi sarei perso un ottimo film. La solitudine di una sera all’estero invece mi ha convinto a rischiare, persino in 3D. Non c’è niente da fare: il 3D in America si vede bene, si vede meglio, ha quasi (QUASI) senso. E costa anche meno, al cambio attuale. Ho sempre criticato duramente la DreamWorks per il loro spudorato approccio commerciale, che portava a film fatti di molta tecnica e pochissimo cuore.

Da Dragon Trainer in poi, però, il vento è cambiato: Kung Fu Panda 2 resta un prodotto essenzialmente destinato ad un target diverso da – ad esempio – Up, ma come film di puro intrattenimento si può solo applaudire ad un tale miglioramento rispetto al primo episodio. Po (Jack Black, bravissimo, altro che quella pippa di Fabio Volo) protegge la Cina in qualità di guerriero Dragone, mentre si allena per cercare la pace interiore e completare il suo addestramento di kung fu. Quando nella città di GongMen il malvagio pavone Shen torna a rivendicare a suon di cannonate il regno da cui era stato esiliato anni prima, Po e i cinque guerrieri devono affrontare un nemico che con la sua letale arma minaccia non solo la Cina, ma anche lo stesso significato del kung fu.
In ogni sequel che si rispetti, il percorso dell’eroe – dopo “la consapevolezza” acquisita nel primo capitolo – deve affrontare una battuta d’arresto, causata spesso dalla conoscenza di eventi del suo passato che mettono pericolosamente in discussione tutte le sue certezze. E’ il teorema Impero Colpisce Ancora: “I Am Your Father”, insomma. La storia di Shen è infatti direttamente collegata al tragico passato che Po deve ricordare ed affrontare (insomma, finalmente si capisce perchè suo padre è una papera).
Sono proprio la profondità della storia e i suoi aspetti più drammatici – la consulenza di Guillermo del Toro ha sicuramente giovato a tal proposito – a conferire una maturità diversa a Kung Fu Panda 2, che pur non rinunciando a gag divertentissime, le dosa meglio nella storia e le affianca ad un’ossatura narrativa più completa e soddisfacente anche per i maggiori di otto anni.

Storia a parte, quello che differenzia, in meglio, Kung Fu Panda 2 dal primo episodio è la regia, affidata a Jennifer Yuh: le scene di combattimento sono orchestrate in maniera intelligente e davvero spettacolare, con tante interessanti trovate visive, come la “visuale Pac-Man”, e creative, come i flashback disegnati a mano. C’è un perfetto equilibrio tra azione ed umorismo, i rapporti tra i personaggi sono approfonditi in maniera non banale, le ambientazioni sono curatissime, la battaglia finale riscatta pienamente l’anticlimax del primo episodio. La sensazione è che la presenza della Yuh abbia evitato che anche questo film sembrasse un enorme luogo comune sull’Asia e che lo spirito del film fosse più autentico, anche dal punto di vista estetico. Un difetto: forse il film si perde un po’ nella parte centrale, che poteva essere ridotta di qualche minuto. Ma forse è solo il fusorario che mi ha fregato.

Ora che c’è anche il cuore, oltre alla tecnica, l’inevitabile terzo capitolo (lanciato da un colpo di scena finale interessante) è più di un atto dovuto alle regole del mercato: è un film che non si vuole perdere.

lunedì 1 agosto 2011

Si vede dal trailer: speciale CHI L'HA VISTO

Poi ci sono quei film che vedi per caso, una volta, magari già iniziati, e ti prendono tantissimo sul momento, ti lasciano qualcosa, anche se non sono granchè. Poi li rimuovi, perchè scompaiono così come sono apparsi, su un canale secondario o anche su Sky, ma solo per qualche giorno e poi nulla. Poi ti ritornano in mente e allora vorresti rivederli. Ma come si chiamava? Ma ci sarà il dvd? E se c'è, dove lo trovo? E se non c'è, provo su eMule, ma se non lo trovo neanche là?

BARBARA di Angelo Orlando

Valerio Mastandrea e Marco Giallini legati ad un letto per tutto il film , in attesa della misteriosa Barbara che non arriva mai. In compenso passa un'umanità varia e surreale che fa di tutto, fuorchè slegarli....geniale. Non è il trailer, ma un breve estratto. Colonna sonora e cameo di Daniele Silvestri.



ORMAI E' FATTA di Enzo Monteleone

Accorsi, per una volta non intollerabile, e Solfrizzi in questa storia vera e bellissima del bandito genitluomo Horst Fantazzini e del suo drammatico tentativo di evasione. Cavolo questo l'avevo registrato però.



AUGURI PROFESSORE di Riccardo Milani

Commovente, acuto, divertente, sottovalutatissimo. Un ritratto perfetto della scuola italiana...questo in dvd c'è pure arrivato, ma per così poco tempo che neanche io sono riuscito a comprarlo e da allora vago per negozi e mercatini come un fantasma....
questo è un dei pezzi più riusciti (Silvio Orlando è un mito come sempre, nato per questo ruolo):



MATINEE di Joe Dante

Questo è così remoto nella mia memoria che nemmeno mi ricordo cosa succede....però era proprio carino.

venerdì 29 luglio 2011

Si vede dal trailer

Torna la mia rubrica preferita del mio stesso blog...che c'è di strano...anche al cinema la cosa che preferisco sono i trailer!


50/50

Potrebbe scadere nel melenso-sentimental-drammatico e già parte fregato in partenza: muore? devi piangere per forza, non muore? ecco il solito lieto fine americano. Però Seth Rogen e soprattutto Joseph Gordon-Levitt possono trovare il giusto modo di portarselo a casa...



Hugo

Riuscirà almeno Martin Scorsere a fare qualcosa con il 3D? Non so, però il film sembra proprio bello. E non c'è neanche Joe Pesci che fa il matto. E Chloe Moretz è sempre più stupenda.



Moneyball

Per la serie "da grande voglio fare Robert Redford", Brad Pitt a caccia di Oscar, credibilità e american dreams



Happythankyoumoreplease

Te farai pure crescere la barbetta, ma sei e rimani TED MOSBY!!! Riuscirà a Josh Radonor lo stesso mini miracolo di Zach Braff con Garden State?

giovedì 28 luglio 2011

STAR WARS HD Count Down: - 46

Si avvicina la data fatidica....e questo video girato per la promozione di Cowboys & Aliens mi fa venire in mente due cose: la prima, che Star Wars è più usato di Topolino e dei Beatles nella cultura popolare, la seconda, che Han Solo, pure da vecchio, è sempre Han Solo e quanto sarebbe bello rivederlo (a parte l'orecchino)...

African Cats



Giusto una segnalazione per questa serie di splendidi documentari prodotti dalla Disney. Dopo Earth, arriva sui nostri schermi anche African Cats (peccato che Born to Be Wild non ce l’abbia ancora fatta, è di gran lunga il più originale). Vero è che –come dice Mary – di documentari sui felini ce ne sono di migliori, ma è anche vero che al cinema la produzione National Geographic non arriva e l’impatto delle riprese in HD (e 3D) su uno schermo cinematografico ha un effetto semplicemente mozzafiato.


L’edizione italiana è impreziosita dalla voce narrante di Claudia Cardinale, riesumata per l’occasione ed evidentemente non più in grado di articolare bene le frasi e accordare le desinenze. Dopo lo scambio James Earl JonesPaolo Bonolis per Earth, al posto di Samuel L. Jackson (nell'edizione americana) un’altra scelta infelice. Comunque, un dettaglio.

Se vi capita, non lasciatevelo sfuggire (tra l’altro African Cats si apre con il trailer del ritorno in sala de Il Re Leone, che è un’ottima notizia).



martedì 26 luglio 2011

Capitan America - Il Primo Vendicatore


"Yo no soy marinero soy capitan soy capitan soy capitan"

Quando leggevo Capitan America & Thor, che in Italia negli anni Novanta venivano pubblicati nello stesso mensile, ci provavo spesso, ma non ci riuscivo mai. Mentre Thor letteralmente mi rapiva, Cap, vestito della bandiera a stelle e strisce, incarnazione dei valori e del sogno americano, insomma, retorica allo stato puro, era di una noia mortale.Utilizzato come strumento di propaganda negli anni quaranta (cosa che viene ripresa nel film in maniera molto efficace ed ironica), il personaggio di Capitan America venne riciclato negli anni sessanta dalla Marvel e messo a capo dei Vendicatori. E' il Topolino del supereroi, è un militare, un capo, è un atleta, è bello e biondo e vince sempre, non ha superpoteri interessanti, non ha superproblemi coinvolgenti, combatte i terroristi nazisti invece – che ne so – del padre del suo migliore amico che gli ha pure ucciso la ragazza oppure Loki il dio dell’Inganno. Ma volete mettere? Insomma tra me e Capitan America non c’è mai stato feeling, in più mi rodeva spendere tremila lire e leggere solo metà fumetto.


 La storia è quella del gracile Steve Rogers (Chris Evans), che da scarto dell'esercito diviene  - complice un doping tipo quello che davano a Del Piero negli anni Novanta - icona e condottiero degli americani contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, prima di ritrovarsi fuori dal suo tempo alla guida dei supereroi più potenti della terra (i Vendicatori, per l'appunto, che poi secondo me proprio i più potenti non sono ma lasciamo perdere). Nel film si narra la storia delle origini di Cap, incorniciata da due brevi sequenze ambientate ai giorni nostri che lanciano (in maniera piuttosto goffa e con ellissi narrative assolutamente incomprensibili) il film de I Vendicatori dell'anno prossimo.  

Accanto a Chris Evans - scelta inizialmente sorprendente, ma convincente una volta vista la storia che si è scelta di raccontare - Hugo Weaving, Stanley Tucci e Tommy Lee Jones allargano il numero di attori eccellenti che hanno accettato palesemente di far parte del progetto Marvel per gli zeri sull'assegno più che per il ruolo, mentre Hayley Atwell può finalmente mostrare al grande pubblico la sua strabordante carrozzeria (che da queste parti era già stata notata ai tempi di The Duchess, in cui risaltava nel confronto con gli spigoli di Scucchiona Knightley). Come recita? Lei non saprei, ma se le sue tette non prendono l'Oscar come attrici protagoniste, è tutto un magna magna.

Fin qui, è evidente che ancora non ho detto un cavolo che non si possa leggere anche su un articolo di Mereghetti ( a parte che non credo leggesse fumetti negli anni Novanta). Il motivo è semplice: tentenno. Il disappunto che mi pervade nel vedere come questa serie di adattamenti cinematografici dei miei fumetti preferiti sia stata progettata a tavolino, ed a discapito anche della qualità del prodotto cinematografico, per fungere da cassa di risonanza per tutto il brand Marvel nei confronti di un pubblico generalista mi fa incazzare e mi spinge a stroncare senza mezzi termini anche Capitan America, che invece è un film godibile e decentemente autoconsistente, nonchè il migliore della serie (ci voleva poco, d'altronde). E' tutto affrettato fastidiosamente e l'impianto estetico -coerente con quello di Iron Man e Thor - continua a non convincermi, aumentando la sensazione generale di pochezza e superficialità, ma almeno il film ha i suoi momenti.

L'anno prossimo, neanche a farlo apposta, I Vendicatori (Thor  + Iron Man + Hulk + Capitan America) se la vedrà nelle sale con Batman 3 di Christopher Nolan. Vedremo se il pubblico darà ragione alla vacua giostra Marvel o alla serie che ha dato dignità al comicmovie con due capolavori assoluti. (ma come disse Morgan, il popolo sceglie sempre Barabba... )




martedì 19 luglio 2011

Not In Kansas su Facebook!


In quest'epoca irrimediabilmente multimediale, non poteva mancare la pagina ufficiale di Not In Kansas su Facebook. Voglio dire, c'è la pagina di Brunetta, possiamo mancare noi (plurale maiestatis), che almeno un servizio tentiamo di darlo? 

Visto che sono convinto che ogni mezzo va sfruttato per quello che può dare e non solo per essere un altro avatar mutimediale collegato a tutti gli altri a generare spam, su Facebook ci saranno contenuti DIVERSI da quelli del blog...ed ecco quelli che sono già online:

  • segnalazioni quotidiane sulle proiezioni delle arene estive romane
  • galleria di foto dei cinema del mondo che visito (è un lavoraccio, ma qualcuno lo deve pur fare)
  • galleria delle locandine dei film recensiti sul blog con link alla recensione   
  • galleria di foto curiose e divertenti legate al cinema
  • LA COSA PIU' IMPORTANTE: LE REGOLE DI BUONA CONDOTTA AL CINEMA! scaricate, diffondete, allegate, condividete!!! Sconfiggiamo la piaga della maleducazione...almeno in sala!

Vi aspetto!!!

lunedì 4 luglio 2011

Harry Potter e gli Sceneggiatori Babbani



" (...) il guaio è che gli uomini hanno una particolare abilità nello scegliere proprio le cose peggiori per loro" (Albus Silente)

Siamo alla fine di una lunga saga cinematografica, una delle più importanti degli ultimi anni, una delle più lunghe della storia. Il film di Harry Potter e la Pietra Filosofale uscì nel 2001, dopo che già quattro libri erano stati pubblicati. Sarà un caso, ma i libri dal primo al quarto sono uno meglio dell'altro, cosa che non si può dire dei libri successivi, usciti in piena Pottermania, tra cui salvo solo il sesto e in parte il settimo, per l'ecatombe.
Per dare un'idea di cosa è cambiato in questi dieci anni, ricordo perfettamente che si parlava di modificare sostanzialmente l'ambientazione per i film, perchè si temeva non avrebbero avuto successo.

Il 2001 era un anno lontano dal 3D, in cui iniziava un altro fenomeno tratto da libri (Il Signore degli Anelli) e in cui la Pixar e la Dreamworks si affermavano definitivamente con Monsters e Shrek, di supereroi se ne vedevano pochi. Era già tempo di remake e sequel (Il Pianeta delle Scimmie, Hannibal, Jurassic Park 3, La mummia 2) ma non ancora di raschio del barile. Il cinema era diverso, ma anche il resto: le torri gemelle ancora in piedi, ad esempio, fanno pensare ad un'altra epoca.

Mancano dieci giorni all'uscita dell'ottavo film. Il settimo libro è stato diviso in due perchè ora va di moda, non per reale necessità. E' lungo, ma allora perchè ridurre ad un melò Il Principe Mezzosangue o amputare Il Calice di Fuoco, invece di ridurre al minimo la prima parte de I doni della Morte e condensare tutto? La risposta è ovviamente da trovarsi nella volontà di massimizzare i guadagni con il colpo di coda finale (per di più in 3D). I calcoli sono facilissimi.

Ho letto Harry Potter e la Pietra Filosofale d'un fiato, incapace di chiuderlo, molto prima che uscissero i film. Non ho visto al cinema I doni della Morte (e meno male) e, dopo averlo appena recuperato in dvd, non so ancora se andrò a vedere la seconda parte, considerata la mia delusione e la mia pazienza minata eccessivamente dagli ultimi blockbuster (Pirati, Cars, Transformers). In parte ciò è dovuto al fatto che conosco la storia, in parte al fatto che una saga lunga otto film stanca a prescindere, ma credo anche che ci sia dell'altro.

A dieci anni e sette film di distanza su otto, si può iniziare tracciare un bilancio di questo fenomeno. Nonostante l'enorme successo di pubblico, non si può certo dire che la saga di Harry Potter sia stata adattata nella maniera migliore per il grande schermo. Dal punto di vista artistico, si può parlare tranquillamente di occasione persa, visto che l'esperienza cinematografica non è minimamente paragonabile a quella letteraria. Lo è raramente, si sa che "era meglio il libro", però è anche vero che raramente il soggetto di un libro si è prestato così naturalmente ad un adattamento cinematografico ed ecco perchè si poteva e doveva fare meglio. Dopo il primo film, il marchio si è venduto da solo e ancora continua, ma qualcosa è cambiato e di certo non in meglio. La necessità di adattare una trama sempre più complessa ed episodi sempre più lunghi hanno reso il compito degli sceneggiatori molto difficile (va riconosciuto) ma le scelte prese sono state sempre molto discutibili e, nel complesso, hanno reso Harry Potter un'esperienza trascurabile. Invece che la scelta giusta, si è presa quella facile, tanto per citare.
Mi affido ai ricordi, per mancanza di tempo, andando a ritroso. 

Harry Potter e i Doni della Morte parte I: a parte l'ultimissima parte a Villa Malfoy, non si capisce come faccia a durare oltre due ore un film in cui fondamentalmente non accade nulla. E' evidente che tutto accada nella seconda parte, il che rende questo film abbastanza inutile, decisamente noioso e ripetitivo (l'ennesimo litigio tra Ron ed Harry...).

Harry Potter e Il Principe Mezzosangue: il peggior adattamento. Si nota che nel tempo la Rowling ha allentato le pretese di controllo, altrimenti non si spiega come il libro più bello sia stato trasformato volutamente  in un banale episodio di Dawson's Creek. Imperdonabile.

Harry Potter e l'Ordine della Fenice: qui il discorso è complesso. Il libro fu il primo della serie ad uscire dopo l'esplosione mondiale della pottermania e soffre - rispetto ai quattro precedenti - un'eccessiva lunghezza e l'essere costruito intorno all'annuncio che un personaggio cardine sarebbe morto. Insomma, il libro è una palla mortale: evidentemente JK era troppo impegnata a contare le sterline. Il film, ahimè, non è da meno, riuscendo persino a tagliare l'unica cosa veramente bella del libro, ovvero la rivelazione sulla profezia riguardante Neville.

Harry Potter e il Calice di Fuoco: forse il miglior film, nonostante i pesanti tagli. L'equilibrio tra adattamento, fedeltà allo spirito originale e spettacolarità rende Il calice di Fuoco il film più completo e divertente di tutti. Le scene del torneo sono bellissime.

Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban: dopo lo scolastico Columbus, la mano di Alfonso Cuaron rende la saga interessante dal punto di vista estetico, ma la pecca in fase di script con l'omissione dei dettagli sul passato del padre di Harry è un po' eccessiva e non necessaria. Resta al di sotto del libro, ma si lascia guardare.

I primi due film, di Chris Columbus, hanno il merito di una trasposizione fedelissima, soprattutto a livello iconografico, dei libri. E' evidente la supervisione di JK Rowling, ed era sorprendente all'epoca la rispondenza tra quello che si era immaginato leggendo e quello che si vedeva sullo schermo. Essendo i primi due libri relativamente semplici rispetto ai successivi quanto a intreccio, gli elementi sacrificati nella trasposizione sono pochi e superflui (Pix su tutti, nel primo libro). Tutto sommato, sono film assolutamente godibili ed onesti, benchè senza particolari picchi, soprattutto per chi già conosce la storia.

Ho deciso, non vado. Forse.

giovedì 30 giugno 2011

Transformers 3



E anche 'sta trilogia ce la siamo tolta dalle palle.

Durante la promozione di questo terzo capitolo, la frase che ho letto di più è che Transformers 2 era stato un incidente di percorso, come se un film del genere possa uscire per caso, mentre Transformers 3, ah signora mia, questo sì. E invece no, per niente. Se avessi visto prima Transformers di Cars 2, non avrei parlato così male della Pixar. E Cars 2 fa veramente pietà.

Il cinema di Micheal Bay è pieno di gnocca ed esplosioni più, in questo caso, enormi robot alieni parlanti. In termini generali, non sono contrario ad alcuno dei sopracitati elementi, anzi, ma ci vuole metodo e misura anche nel far saltare per aria Chicago. Il vero problema non è sulla scala grande, però, bensì su quella piccola: i personaggi del film sono tutti monodimensionali e senz’anima, umani e robot allo stesso livello. Alla spettacolarità delle scene d’azione – in particolare quella delle persone nel palazzo che crolla – si contrappone una incapacità drammatica di dare sostanza alle sequenze di alleggerimento o a quelle sentimentali, quelle insomma attraverso le quali dovremmo stabilire un contatto con i personaggi e preoccuparci della loro sopravvivenza. La trama è di una inconsistenza scoraggiante (neanche mi spreco a scriverla), i personaggi vengono presentati ed abbandonati rapidamente senza alcun senso: il personaggio di John Malkovich è un esempio lampante, ma anche i genitori di Sam sono delle comparse assolutamente irritanti e inutili, soprattutto per l’umorismo demenziale assolutamente fuori luogo. Invece di creare empatia, tutte queste sequenze non fanno che spezzare il ritmo della narrazione presentando quadretti superflui tra una scena d’azione e l’altra, prolungando inutilmente l'agonia.  E' tutto fuori fuoco, fuori luogo, posticcio: il motivo è che  la sospensione dell'incredulità  va in tilt, perchè vi si deve far ricorso più per le scene con soli umani che per quelle contenenti i robot.  

Dopo pochi minuti, il film è già insostenibile proprio a causa di questo pseudo-umorismo che dovrebbe coinvolgere e per la pretestuosità di certe sequenze. La new entry Rosie Huntington Whiteley, che sostituisce degnamente –in quanto cagna e in quanto gnocca –Megan Fox, si nota per la sua entrata in scena –una prolungata sequenza che forse vale il sovrapprezzo del 3D in cui si seguono le sue notevolissime chiappe seminude in primo piano, - e per il fatto che, dopo essere stata sballottata per una Chicago distrutta ed essere sopravvissuta al crollo di un grattacielo in pieno stile Bay, arrivi alla fine del film senza un graffio, con trucco e parrucco perfetti e con i vestiti (BIANCHI) perfettamente puliti ed integri. Che avesse una clausola nel contratto? Mah.

Shia Leboeuf è un ottimo attore, potrebbe essere il nuovo Harrison Ford, peccato che invece di Star Wars si sia trovato nell’era dei Transformers, saga che fa apparire i dialoghi di Lucas degni di quelli di William Shakespeare. Non basta, come non basta aggiungere peso specifico al cast con Patrick DempseyJohn Malkovich (sprecatissimo) e Frances McDormand (sempre meravigliosa, chissà che penserà il marito di questa deviazione nel blockbuster…).

Dopo tre film si può affermare che l'elemento che funziona peggio  in questa saga patetica sono i robot, a cui proprio non ci si riesce ad affezionare, cosa piuttosto grave, essendo essi l'elemento centrale del film. Gli Autobot sono privi di personalità, poco accattivanti esteticamente, poco interessanti, poco sfruttati come personaggi al di là delle scene d'azione e di quelle comiche (che gli si addicono pochissimo). I Decepticon, invece, sono tutti uguali anche esteticamente e si fa una gran confusione per capire chi sia chi. A parte Isabel Lucas in Transformers 2.

Della battaglia tra il logorroico e antipatico Optimus Prime e Megatron (sì, ancora) ce ne frega poco, anche perché finisce come al solito, con Optimus a togliere le castagne dal fuoco a tutti dopo essersi attardato per chissà quale motivo (probabilmente per tenere uno dei suoi pomposi discorsi moraleggianti che Micheal Bay deve a tutti i costi propinarci in testa e in coda al film).

Transformers 3 è un brutto film (quasi quanto I Guardiani del Destino) e Transformers è una brutta saga che racchiude tutto il peggio del cinema americano moderno: è la deriva finale dei blockbuster anni ottanta, di cui è rimasta la forma ma si è persa la sostanza. Che produca proprio Steven Spielberg è un ironico ed amaro dettaglio. 

Meno male che tra un po’ esce Super 8.

lunedì 27 giugno 2011

Cars 2


Doveva arrivare questo giorno. Sto per stroncare un film della Pixar, il mio studio cinematografico preferito, quello che consideravo infallibile, un esempio, un punto di riferimento. D'altra parte, sono loro che hanno fatto un film di m....

C'era bisogno di Cars 2? Per rispondere, chiediamoci prima di tutto, c'era bisogno di Cars?
Nell'incredibile famiglia Pixar, che ci ha abituati ad un capolavoro all'anno, Cars è il fratellino simpatico ma un po' scemo, figlio prediletto di John Lasseter e dunque - di riflesso - rispettato, ma non amato da nessuno.
Da nessuno sopra gli otto anni: perchè Cars - fratellino scemo - è un mostro in termini di indotto relativo al merchandising. Dalle macchinine all'abbigliamento, virtualmente ogni bambino del mondo occidentale conosce, ama e - soprattutto - colleziona Cars.
Inevitabile dunque mettere altra legna per rivitalizzare il parco personaggi ed opzioni (almeno tre o quattro personaggi di Cars 2 potranno essere venduti in varie "versioni").

Cars 2 (addirittura co-diretto da Lasseter e Brad Lewis) è destinato dunque ad un pubblico diverso da Cars: non a caso stavolta il protagonista -assoluto - è Cricchetto, carro attrezzi idiota che nel primo faceva da spalla (poco) comica, e che in questo secondo episodio si fa coinvolgere in una spy-story che ricalca un Bond movie a suon di luoghi comuni e citazioni. Mentre Cars era una storia banalotta sul valore dell'amicizia e sulla bellezza dell'America on the road, Cars 2 è solo un gran casino di corse e gag che annoiano gli adulti ma intrattengono i bambini, suggerendo qualche scenario un po' più interessante della provincia americana per far correre le proprie macchinine.
Il problema è che - al contrario di altri film Pixar- Cars 2 esclude le altre categorie di pubblico e non fa nulla per coinvolgere chi non ha passato gli ultimi quattro anni a giocare con un modellino di Saetta McQueen.

Un film inconsistente, al di sotto degli standard qualitativi Pixar (persino il corto iniziale è poco ispirato), realizzato palesemente a scopi commerciali, neanche fosse Kung Fu Panda. Al contrario dei due seguiti di Toy Story, Cars 2 non porta la storia da nessuna parte, non approfondisce i legami tra i personaggi (anche perchè praticamente cambiano tutti), non aggiunge nulla che non potesse essere contenuto nei titoli di coda del primo film.
Come se non bastasse, l'auto italiana doppiata da John Turturro è stata affidata ad Alessandro Siani. Ho tifato per un rovinoso schianto dall'inizio alla fine.

Gli ultimi due film Pixar sono stati sequel, l'anno prossimo ci sarà Brave e poi ancora un sequel (Monsters & co.). Pixar si è giocata il credito accumulato con Toy Story 3, che mi aveva fatto sospendere il giudizio preventivo sui sequel Pixar in attesa di verifica. Dopo Cars 2 sono ufficialmente preoccupato, anche se posso concedere le attenuanti del caso. Era difficile raddrizzare un concept evidentemente storto sin dal primissimo trailer. Ma come dice Cricchetto stesso, le macchine nate male non migliorano neanche con i pezzi di ricambio...e Cars era la Multipla del parco auto Pixar. Cars 2 è peggio, è la Duna.

Evitabile, sconclusionato, con buoni spunti nella trama rovinati da una scrittura evidentemente superficiale. Lasciate perdere...e se avete figli, fategli rivedere Toy Story a casa, è meglio. O magari, cogliete l'occasione per tentare un Miyazaki.

Fate un esorcismo a Lasseter, estirpate il demone DreamWorks che è in lui e aridatece Wall-E.

lunedì 20 giugno 2011

I Guardiani del Destino



I Guardiani del Destino. Tratto da Philip K.Dick (bello!). Matt Damon ed Emily Blunt (oh yeah!). Cosa potrebbe andare storto? Ecco cosa: dirige George Nolfi, che fa di tutto per ricordarci il disastro che realizzò con la sceneggiatura di Timeline (quella volta toccò a Micheal Chricton veder distrutta una sua opera).

Evidentemente Nolfi non pensa quadrimensionalmente e non conosce la regola d’oro della fantascienza secondo la quale puoi inventare tutte le regole che vuoi, a patto di non tradirle/aggirarle in nome dello spettacolo.  

Così, mentre i semionnipotenti Guardiani del Destino possono “congelare” il tempo per cambiare le idee delle persone, possono far scontrare macchine e teletrasportarsi grazie ai loro cappelli (mah) tra le strade di New York, ma solo a Sud, a nord meno (mah), non possono fare a meno di rincorrere Matt Damon per tutto il santo film. Ma fermalo e basta, no? Ma teletrasportati davanti a lui e dagli una bastonata in faccia, no? E no, altrimenti dove sta lo spettacolo? Sono stupidaggini come queste che ti impediscono di prendere sul serio un film che avrebbe potuto essere notevolissimo, in mani più capaci.
Che ci sia un problema di manico lo si capisce anche da quanto poco convincenti siano Matt Damon ed Emily Blunt, soprattutto nelle due scene in cui scoprono la realtà dei Guardiani: sopra le righe ai limiti del ridicolo entrambi, come non si erano mai visti (la Blunt che guarda al cielo gridando “cosa mi sta succedeeeendo?” mentre l’inquadratura si alza ad accentuare l’effetto drammatico…roba da carrettieri, direbbe Sordi). In più, ci sono evidenti problemi di montaggio, è come se tutte le parti più interessanti fossero state tagliate. Ci sono rimandi e allusioni a cose che sembrano dover importare ma che poi non vengono mai mostrate o raccontate.

Parliamo della trama, riscritta da Nolfi perché quella di Dick non gli piaceva (e certo, chi cazzo è sto Philip Kappa Dick, io so’ George Nolfi). ATTENZIONE SPOILER: Matt Damon si innamora di Emily Blunt ma i Guardiani del Destino si oppongono non si capisce bene perché. Allora Matt Damon prende il cappello dal guardiano nero un po’ sfigato ed in crisi di coscienza (che evidentemente aveva letto la sceneggiatura) e comincia a teletrasportarsi come un cretino mentre i Guardiani lo inseguono incazzati. Invece di congelarlo/bastonarlo come sopra. Daje e daje, alla fine il capo dei Guardiani manda una lettera che dice vabbè, avete fatto tutto sto casino, facciamo che potete stare insieme. Però aridacce il cappello che ti sei fregato. FINE SPOILER.

Sorvolando sulla tematica "Dio/libero arbitrio/destino", ormai abbastanza sviscerata e di cui comunque non si sentiva il bisogno (ma tanto Nolfi manco ci pensava), ci sono elementi nella trama che rivelano il potenziale inespresso del film. I Guardiani che si interrogano sulla liceità delle loro azioni potevano diventare il centro del film, se non si fosse optato per la storia d’amore più ridicola degli ultimi vent’anni. Matt Damon incontra la Blunt per cinque minuti in un cesso, poi dopo qualche tempo per cinque minuti sull’autobus, poi dopo tre anni. Ma non può fare a meno di lei. I Guardiani ci spiegano che secondo versioni precedenti del “piano del destino” , i due dovevano finire insieme (mentre la versione “attuale” del piano non lo prevede) e per questo si sentono attratti anche se non si vedono mai. A me me pare ‘na cazzata. Cioè: a parte che non si vedono mai , ma anche il loro amore è solo parte del piano. Poi, ma che scherziamo? Il piano del destino CAMBIA ogni dieci anni? E che destino è? Quindi a me che guardo, cosa me ne frega se si realizza un piano o l’altro? Tanto più che il finale svilisce la lotta dei personaggi contro il destino che li vuole separati, con un banale (letterale) deus ex machina. Lo spiegone finale non convince e puzza di fregatura e tutto il film serve solo a dimostrare che anche tra gli essere superumani che controllano il destino, se sei bianco, comandi, se sei nero al massimo fai casini e rovesci il caffè, se sei asiatico o ispanico, manco il caffè ti fanno gestire, se sei indiano non fai un cazzo, se sei Malcolm McDowell, sei il più cazzuto di tutti. Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?

Peccato perchè l'idea dei Guardiani (un po' Cielo sopra Berlino, un po' Matrix) e quella delle porte non sono per niente male...ma usate così diventano solo parte di una buffonata colossale. Nolfi, ma cambiare mestiere?