“Inner Peace? Inner Piece of what?”
Neanche per tutto l’oro del mondo, in Italia, sarei andato a vedere il sequel di Kung Fu Panda, che mi lasciò una pessima impressione, impostato com’era su gag banali e personaggi buoni solo per uscire da un Happy Meal. Mi sarei perso un ottimo film. La solitudine di una sera all’estero invece mi ha convinto a rischiare, persino in 3D. Non c’è niente da fare: il 3D in America si vede bene, si vede meglio, ha quasi (QUASI) senso. E costa anche meno, al cambio attuale. Ho sempre criticato duramente la DreamWorks per il loro spudorato approccio commerciale, che portava a film fatti di molta tecnica e pochissimo cuore.
Da Dragon Trainer in poi, però, il vento è cambiato: Kung Fu Panda 2 resta un prodotto essenzialmente destinato ad un target diverso da – ad esempio – Up, ma come film di puro intrattenimento si può solo applaudire ad un tale miglioramento rispetto al primo episodio. Po (Jack Black, bravissimo, altro che quella pippa di Fabio Volo) protegge la Cina in qualità di guerriero Dragone, mentre si allena per cercare la pace interiore e completare il suo addestramento di kung fu. Quando nella città di GongMen il malvagio pavone Shen torna a rivendicare a suon di cannonate il regno da cui era stato esiliato anni prima, Po e i cinque guerrieri devono affrontare un nemico che con la sua letale arma minaccia non solo la Cina, ma anche lo stesso significato del kung fu.
In ogni sequel che si rispetti, il percorso dell’eroe – dopo “la consapevolezza” acquisita nel primo capitolo – deve affrontare una battuta d’arresto, causata spesso dalla conoscenza di eventi del suo passato che mettono pericolosamente in discussione tutte le sue certezze. E’ il teorema Impero Colpisce Ancora: “I Am Your Father”, insomma. La storia di Shen è infatti direttamente collegata al tragico passato che Po deve ricordare ed affrontare (insomma, finalmente si capisce perchè suo padre è una papera).
Sono proprio la profondità della storia e i suoi aspetti più drammatici – la consulenza di Guillermo del Toro ha sicuramente giovato a tal proposito – a conferire una maturità diversa a Kung Fu Panda 2, che pur non rinunciando a gag divertentissime, le dosa meglio nella storia e le affianca ad un’ossatura narrativa più completa e soddisfacente anche per i maggiori di otto anni.
Storia a parte, quello che differenzia, in meglio, Kung Fu Panda 2 dal primo episodio è la regia, affidata a Jennifer Yuh: le scene di combattimento sono orchestrate in maniera intelligente e davvero spettacolare, con tante interessanti trovate visive, come la “visuale Pac-Man”, e creative, come i flashback disegnati a mano. C’è un perfetto equilibrio tra azione ed umorismo, i rapporti tra i personaggi sono approfonditi in maniera non banale, le ambientazioni sono curatissime, la battaglia finale riscatta pienamente l’anticlimax del primo episodio. La sensazione è che la presenza della Yuh abbia evitato che anche questo film sembrasse un enorme luogo comune sull’Asia e che lo spirito del film fosse più autentico, anche dal punto di vista estetico. Un difetto: forse il film si perde un po’ nella parte centrale, che poteva essere ridotta di qualche minuto. Ma forse è solo il fusorario che mi ha fregato.
Ora che c’è anche il cuore, oltre alla tecnica, l’inevitabile terzo capitolo (lanciato da un colpo di scena finale interessante) è più di un atto dovuto alle regole del mercato: è un film che non si vuole perdere.
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