giovedì 29 luglio 2010

Multisala Import: Frequently Asked Questions about Time Travel e Primer

Sala 1: Frequently Asked Questions about Time Travel è un film inglese del 2009 non distribuito in Italia. Frequently Asked Questions about Time Travel è girato praticamente tutto in un pub, per evidenti esigenze di budget. Frequently Asked Questions about Time Travel può vantare al massimo star del calibro di Anna Faris e Chris O’Dowd, non proprio Angelina Jolie e Will Smith. Come i più acculturati di voi avranno capito, Frequently Asked ecc. ecc. è un film sui viaggi nel tempo, e, se oltre che acculturati siete anche avvezzi alle figure retoriche, avrete già capito che l’anafora stà lì a dar forza ad un concetto: che anche se non sei Spielberg, non hai Will Smith nè centinaia di milioni di budget, puoi fare un film di fantascienza. Anzi, puoi fare di meglio: puoi contestualizzarlo all’interno del cinema tipico del paese in cui sei. Così FAQ about Time Travel è una commedia ricca di british humor ed allo stesso tempo un omaggio -sin dalla locandina - ai film di fantascienza che con ironia ed affetto riprende un po’ tutti i luoghi comuni tipici della letteratura dei viaggi nel tempo: paradossi, incontri con se stessi, dimensioni parallele…riusciremo mai in Italia ad avere qualcosa di simile? a staccarci dai temi della commedia all’italiana per integrarne la forma in altri generi? Chissà. Altrove, lo fanno. L’importante è avere una buona idea: che il viaggio nel tempo, ad esempio, sia colpa del bagno del pub che da un momento all’altro comincia a trasportare tre amici avanti ed indietro nel tempo in maniera completamente casuale: da un lontano, apocalittico, futuro a pochi minuti prima con conseguente rischio di incontrare se stessi e generare paradossi. Meno male per loro che due di essi siano sufficientemente nerd da saper gestire un'emergenza quadrimensionale. Il terzo non distingue Star Trek da Star Wars (una scena geniale) e si ritrova ben presto a pagare le conseguenze della sua ignoranza fantascientifica. Anni e anni di discussioni sulla logica di Ritorno al Futuro tornano sempre utili, prima o poi, si sa. Ben presto il film comincia a prendersi fin troppo poco sul serio e diventa quasi una parodia del genere, ma senza mai perdere di vista la coerenza logica e l’umorismo. La trama è davvero esile, ma il punto forte di FAQ about Time Travel sono i dialoghi ed il cast. Non credo lo vedremo mai tradotto, ma esiste in rete la versione sottotitolata. Io non vi ho detto niente :)
Sala 2: Stessa triste sorte di distribuzione ha subito un altro film sui viaggi nel tempo: Primer. Al contrario di FAQ, Primer – anch’esso girato con un budget ridottissimo nel 2004 – si dicosta da qualunque altro film sui viaggi nel tempo, costruendo un intricatissimo labirinto di versioni alternative delle stesse due persone presenti nello stesso istante. La macchina del tempo di Primer funziona in maniera diversa da qualunque altra: può portare solo indietro nel tempo e solo di un periodo pari al tempo che ci si passa dentro (esempio: ci entro alle 15:00, ci sto dentro 6 ore, esco alle 9:00). Primer dura poco più di un’ora e venti: il problema sta proprio in quei venti minuti finali in cui il film si complica talmente tanto da diventare - volutamente- incomprensibile. E per questo, fantastico. In questo caso aver ragionato per anni sulla logica di Ritorno al Futuro aiuta solo a capire che qualcosa, anzi parecchie cose, sono successe off screen e molte di esse riguardano viaggi temporali. Senza tali informazioni è praticamente impossibile ricostruire la timeline di Primer...qualcuno ci ha provato, se ci capite qualcosa, fatemi un fischio.
P.S. www.play.com ha in catalogo entrambi i film.

mercoledì 14 luglio 2010

Toy Story 3

Premessa: sono di parte. Penso che la Pixar sia un covo di maledetti geni, talmente avanti a tutti gli altri da mettere in imbarazzo qualunque tentativo di imitazione. Sono gli X-Men del cinema, l’evoluzione della specie. Sono alieni mascherati da uomini, come in Cocoon. Prendete “Quando il giorno incontra la notte”, il corto abbinato a Toy Story 3. La combinazione di animazione CG e , di 2D e 3D è un modo non rivoluzionario, forse, perché non si può imitare, ma certamente spiazzante e stimolante di usare tutte le tecniche a disposizione per raccontare una storia, anche semplice, ma che diventa una perla se trattata nella giusta maniera. Proprio l’inimitabilità è quello che mette la Pixar al riparo dagli assalti della concorrenza, che pure sta affilando le armi: gli ultimi Dreamworks non sono male, e anche L’era Glaciale 3 era notevole, ma è la stessa differenza che c’è tra i Beatles e i Rolling Stones: nella giusta prospettiva, non c’è e non ci sarà mai partita, per quanto si dimeni Mick Jagger. Toy Story 3 riprende le fila di una storia interrotta quindici anni fa. Nel mondo reale, per la Pixar, sono cambiate molte cose in questo lasso di tempo. Da semplice divisione “sperimentale” si è trasformata nello studio infallibile, il punto di riferimento per la cinematografia americana, i rapporti di forza con la Disney si sono invertiti, il metodo – vincente - si è consolidato, sono arrivati piogge di premi e riconoscimenti. Anche per le statistiche, un fallimento doveva essere dietro l’angolo. E invece… E’ ovvio che Toy Story 3 non poteva non essere influenzato da tutto ciò. Non so se la Pixar avsse in programma di realizzare un altro Toy Story. La storia è questa: la Disney – nel breve periodo in cui interruppe i rapporti con Pixar – mise in cantiere il terzo capitolo di Toy Story, di cui detiene i diritti, in maniera autonoma. Quando Lasseter prese il posto di direttore creativo della Disney, la sua prima azione fu quella di restituire il controllo del destino di Woody e Buzz ai legittimi proprietari. A quel punto, bisognava trovare la miglior storia possibile e da questo punto di vista, la missione può dirsi compiuta.
E’ difficile – senza dubbio- tornare all’ingenuità di Toy Story dopo UP. E' difficile stupire un pubblico che si aspetta, ormai quasi pretende di essere stupito, presentando per la terza volta lo stesso concept, soprattutto quando questo è non solo il più vecchio, ma senza dubbio il più semplice tra i tanti creati dalle brillanti menti di Pixar. Tornare ai giocattoli parlanti, con tutto l'affetto ed il rispetto possibile, dopo essere stati nel mondo dei mostri, nello spazio e in volo in una casa appesa a dei palloncini non deve essere stato facile per chi non ama ripetersi. Per questo Toy Story 3 è così sorprendentemente diverso dai suoi due predecessori.
Se in Wall-E e UP la strategia era quella di creare – nei primi venti/trenta minuti – un “blocco” emotivo su cui poggiare l’intreccio, con Toy Story questo non è necessario. Siete stati nella stanza di Syd, attaccati a quel razzo, a rincorrere quel camion, chiusi in quella teca, nel negozio di giocattoli, su e giù per i nastri trasportatori, non c’è bisogno di altro, i primi due film bastano ed avanzano allo scopo, si può cominciare in quarta. Se non ci siete stati…cavolo, che vita grama. Anche nel mondo di Toy Story sono passati quindici anni, e per i giocattoli sono un’eternità. Buzz, Woody e tutti (beh…non tutti) gli altri sono in un baule, Andy sta per andare al college, il loro destino è segnato: soffitta, o pattumiera. Per una serie di coincidenze, invece, tutta la banda si ritrova in un asilo, il Sunnyside. L’iniziale entusiasmo per la prospettiva di avere nuovamente bambini con cui giocare si spegne molto presto, quando il Sunnyside si rivela una vera e propria prigione governata dall’orso di pezza Lotso. L’unica alternativa alla prigionia è la fuga. A grandi linee, questa è la trama. Ciò che colpisce di Toy Story 3 però è la profondità della storia. Non c’entra niente il 3D, c’è un senso di malinconia inedito per la saga che permea tutto il film: il momento tanto temuto è arrivato, Andy non gioca più. Andare in soffitta, abbandonare Andy, separarsi dai propri compagni per sempre, finire in una discarica. Gran parte di questi incubi si avvera. La storia di Toy Story forse si è conclusa qui, con il capitolo più maturo. L’obiettivo della fuga è il ritorno a casa, ma stavolta per andare in soffitta, in una busta di plastica, per sempre. In più, Woody andrà al college con Andy, separandosi da Buzz e gli altri. C’è spazio per la commozione, nel finale, così come c’è spazio per momenti assolutamente divertenti – dai siparietti tra Ken e Barbie alle varie gag di Hamm e Mr Potato alle innumerevoli citazioni, per non parlare spettacolare della sequenza iniziale. Quello che colpisce è però la dose di momenti ad alta tensione, in particolare la lunga sequenza nella discarica ed alcuni momenti in cui sembra che qualcuno non ce l’abbia fatta. L’apparato tecnico è superbo, ed è inutile stare a sottolineare l’ovvio. Commuoversi per dei giocattoli di pezza animati è un po’ meno ovvio, ed è l’ennesima magia: laddove non si è potuto stupire creando nuovi personaggi e situazioni, limitati tecnicamente da un look complessivo datato quindici anni che non poteva essere stravolto, gli sforzi si sono concentrati nel dare un'anima nuova e più vera al mondo di Toy Story. L'appuntamento con il flop è rimandato ancora...

lunedì 5 luglio 2010

Predators

Un brusco risveglio, un’impresa disperata, mostri orribili a cui non puoi sfuggire, compagni di sventura improbabili e fuori controllo, un ambiente ostile. Per questo, pur di non andare al lavoro, sono andato a vedere l'anteprima di Predators.
Adrien Brody si sveglia e, come in un incubo, sta precipitando nel vuoto e il paracadute non si apre. Così, con la scena migliore del film, ha inizio Predators, terzo capitolo della saga horror / fantascientifica iniziata nel 1987. All’epoca a combattere i cacciatori alieni c’era Schwarzenegger, oggi c’è Brody: lo scarto non è minimo, ma la differenza tra i due è proprio questa: che Brody è perfetto anche quando è un miscast, Arnold lo vedrei poco a suo agio – ad esempio – sul treno per il Darjeeling. La trama in due righe (ovvero il doppio di quanto probabilmente è lungo il soggetto originale): un manipolo di assassini provenienti da tutte le organizzazioni criminali e militari peggiori della Terra si ritrova a fare da preda in una riserva di caccia aliena. Anche senza Schwarzy, gli alieni però se la vedono brutta. Ora, potrei sbagliarmi, ma questo Predators sembra proprio una versione splatter di Star Trek: cast multietnico (l’americano, l’israeliano, il giapponese, l’africano, il russo e il colombiano) che – di fronte ad un nemico comune decide di fare gruppo per salvare la pelle. Pertanto anche Predators è un inno alla fratellanza, a mettere da parte le diversità perché facciamo parte della stessa specie, a deporre (in questo caso imbracciare, ma il concetto è quello) le armi per un obiettivo comune. Potrei sbagliarmi, però. La notizia, con Predators, è che non è un filmaccio e di questi tempi non è poco. Non c’è da stupirsi però: dietro quest’ennesimo rilancio di un vecchio brand c’è Robert Rodriguez, uno che il cinema, oltre a farlo, lo ama e lo conosce. Lo script di Predators era stato realizzato anni fa proprio da Rodriguez e messo in un cassetto quando Schwarzy declinò l’offerta. Opportunamente modificato, il progetto è stato rilanciato quando quel cassetto è stato aperto probabilmente da un executive della Fox che cercava le pasticche per l’ansia vista la mancanza di nuove idee. Rodriguez a quel punto si è offerto di fare da “padrino” al progetto, di mettere a disposizione, oltre al suo amore per la saga, la sua casa di produzione, la Troublemakers, e di lasciare la regia a Nimrod Antal: il risultato è uno dei migliori reboot degli ultimi anni. Certo, non si grida al capolavoro e non avrà l’impatto che ebbe il primo (ma d’altra parte erano gli anni ottanta, dai); la trama è semplice e i personaggi sono i classici archetipi da action movie più che persone, la struttura è quella classica: il gruppo iniziale si assottiglia con decessi più o meno violenti fino a che non rimane solo il protagonista ed, eventualmente, la sua bella. Nelle mani sapienti di Rodriguez, queste caratteristiche di per sé non positive diventano i punti di forza del film. Che Rodriguez sappia che non deve prendersi sul serio lo dimostra la geniale scelta del pezzo sui titoli di coda: Long Tall Sally, intuizione mutuata palesemente dal suo amico Tarantino per dare un tocco di ironia ad un genere che raramente sa prendersi in giro davvero. Per dare credibilità ad un concept buono per altre decadi, comunque, era necessario mettere di fronte agli alieni cacciatori un attore che desse spessore a tutta la vicenda. Adrien Brody (ma anche, in parte, Topher Grace), è l’uomo sbagliato al posto giusto. Se il suo duello finale con il Predator è intenso e credibile non è certo per merito dell’alieno. Abbastanza inutile il personaggio di Laurence Fishburne, se non per spiegare (a noi) che i Predator che giocano con gli sventurati protagonisti stanno al Predator di Schwarzy come il lupo sta al cane (sic), anzi, che anche esso è una preda: infatti lo troviamo appeso come un pollo all’accampamento dei Predator del terzo millennio. Da questa rivelazione nasce l’ultimo atto del film, con un plot twist un po’ forzato ma efficace – e risolto in modo da impedire l’innesco di riflessioni su chi sia veramente il mostro e tematiche del genere: Predators è un film d’azione e basta, una guerra tra Alieni spietati e umani duri da uccidere – non ci sono eroi tra “i nostri”: sulla Terra, sono loro i predatori. Insomma, se avete bisogno di dare aria ai neuroni o siete fan della serie, è difficile che questo titolo vi possa deludere. Se siete a caccia dell’ennesimo blockbuster fracassone ed inconcludente, invece, non è aria: Predators riesce anche ad evitare il ricorrente clichè del “più fa rumore mentre esplode, più è bello”, con degli scontri corpo a corpo tra i Predators e gli umani efficaci, originali e brevi, più alcune scene di “caccia” perfettamente calibrate tra tensione e azione. Difficilmente vedrete su questo blog la recensione del (probabilissimo) sequel, ma questo non mi è dispiaciuto affatto.