giovedì 30 dicembre 2010

Remake

Remake: la piaga cinematografica del decennio, insieme ai non meno pericolosi ceppi mortali "reboot", "sequel" e "versione cinematografica della serie tv", sta lasciando il posto alla nuova e più potente piaga della stereoscopia.
Pianeta delle Scimmie, La Fabbrica di Cioccolato, The Tourist, Solaris, NIghtmare e altri mille horror, Scontro tra Titani, Ultimatum alla Terra, Wolfman, La casa sul lago del tempo, Benvenuti al Sud, La Guerra dei Mondi, Ladykillers, Karate Kid, The Departed, Let Me in, La cena dei cretini, Saranno Famosi, Hairspray, King Kong, Ocean's Eleven, La donna perfetta, The Departed, Vanilla Sky, Welcome to Collinwood.
E tanti e tanti altri.
A tutti loro, alla loro media qualità ed alla scarsa creatività degli americani, dedico questa (trovata su facebook):

Not In Kansas Awards 2010: IL MEGLIO

E passiamo alle cose belle, che è meglio...
Senza dubbio questo è stato l'anno di Avatar, definito "game-changing", ovvero una pietra miliare destinata a cambiare l'approccio al fare e fruire i film: il risultato immediato e tangibile è stato un pessimo film (Avatar, appunto) e una serie di filmacci raffazzonati con 3D più o meno posticci ma sempre inutili. E' stato anche l'anno di Inception: forse solo Nolan oggi in America può essere un vero game-changer, e Nolan del 3D non sa che farsene. Un po' come Apple contro Google, e il Blu-ray contro l'HD-DVD, vedremo chi la spunta. Ovviamente tifo per il Cavaliere Oscuro. Più che in altri anni, quest'anno sono venuti meno sia il cinema americano mainstream che quello italiano, così i migliori film hanno una provenienza più eterogenea. Francia e Spagna ci stanno distanziando di molto, prova ne sia il fatto che il miglior incasso italiano dell'anno (e di sempre, dopo La Vita è Bella) è Benvenuti al Sud, copia conforme di un film francese. A parte questioni di orgoglio nazionale, andare a cercare in piccole sale nascoste delle perle come Adam, Scott Pilgrim vs. The World e Departures si rivela sempre un'ottimo modo per riaccendere la passione per il cinema (ed evitare, in molti casi, gli orchi romani che affollano le sale più gettonate).
CATEGORIA SORPRESA DELL'ANNO
1) Il piccolo Nicolas e i suoi genitori di Laurent Tirard Più ci penso e più mi piace, davvero davvero carino. La leggerezza fatta film. 2) The Town di Ben Affleck Hai capito Ben Affleck, quando ci si mette. Epica criminale vecchio stile, trent'anni fa il protagonista sarebbe stato Al Pacino. Il ragazzo si farà. 3) Cella 211 di Daniel Monzon Che film, che finale, un nodo allo stomaco che non si scioglie facilmente. E' in questa categoria, ma starebbe benissimo anche in quella per miglior film. 4) Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek Uno stile nuovo, finalmente più leggero, un equilibrio che gli altri film di Ozpetek non avevano. E Scamarcio recita. 5) Dragon Trainer di Chris Sanders Sorprendente perchè diverso dalla solita formula DreamWorks merchandise + citazioni + umorisimo demenziale. In più è originale e divertente. CATEGORIA MIGLIOR FILM Dieci non bastano e l'ordine della top 5 è assolutamente sparso. Sì. lo ammetto, alcuni di questi non li ho recensiti a tempo debito, ma trovo quasi sempre più difficoltà a fare una recensione positiva, anche perchè è meno divertente...in alcuni casi quindi, perso l'attimo fuggente, persa la recensione. Propositi per il 2011: lavorare su quest'aspetto. Nota: Esclusi dalla classifica per ragioni "anagrafiche", ma decisamente tra i più bei film proiettati quest'anno: Ritorno al Futuro, Porco Rosso, Nausicaa, The Rocky Horror Picture Show, Hair, Tra le Nuvole.
Ed ecco il listone degli imperdibili 2010: 12. People vs. George Lucas di Alexandre O. Philippe Per nerd e fan, decisamente. Ma non solo: lo strano destino di George Lucas è lo spunto per una riflessione sul rapporto tra l'artista, l'opera, la cultura ed il pubblico. Che la Forza sia con voi. 11. Scott Pilgrim vs. The World di Edgar Wright Condannato ad una programmazione infausta a Roma, ma apprezzatissimo dalla critica internazionale, è l'apologia del nerd, il Matrix degli otto bit. E che musica. 10. American Life di Sam Mendes Tutta la grandezza di un cinema autentico, esattamente quello che l'Italia fatica tantissimo a produrre, persa dietro a macchiette e stereotipi sociali e culturali. Mendes ci sbatte in faccia una realtà durissima, ma che fa anche ridere. 9. Draquila di Sabina Guzzanti Messa da parte la satira per cause di forza maggiore, Sabina Guzzanti fotografa la reale situazione dei terremotati abruzzesi. Trasmette una rabbia rara. 8. Departures di Yojiro Takita Il film più delicato dell'anno arriva dal Giappone, terra fertile che sa rielaborare tutti i generi assorbendoli nel proprio humus e facendoli rifiorire. Departures però poteva essere concepito solo laggiù, dove la ritualità di certe usanze ed il rapporto con la morte sono così distanti da quelli a cui siamo abituati. Forse per questo motivo è facile sentirsi profondamente toccati da questo film. 7. Il concerto di Radu Mihaileanu Una commedia gitana con un finale da fermare il cuore, sulla musica di Tchaikovskij. Bello per tutto: per la musica classica che non si sente spesso, per l'accozzaglia di personaggi bislacchi dell'orchestra, per la sintesi perfetta tra autenticità e fiction. 6. Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson Wes Anderson riadatta alla sua maniera la storia del Signor Volpe di Roald Dahl, con la complicità di George Clooney e Meryl Streep. In stop motion, nell'era della CG. Da applausi. 5. L'illusionista di Sylvain Chomet Un film di animazione praticamente muto su un anziano illusionista che incontra una ragazza. Il tramonto di un'epoca visto dal basso e dal punto di vista dei perdenti. Geniale e commovente, ma per Chomet sarebbe stato strano il contrario. 4. Toy Story 3 di Lee Unkrich Mi sento di spararla grossa: si gioca la palma di miglior sequel della storia con Il Padrino parte II e L'Impero Colpisce Ancora. Se i sequel fossero tutti così giusti, non ci sarebbe bisogno di idee nuove. La Pixar è un mondo a parte, non c'è che dire. 3. Las Buenas Hierbas di Maria Novaro Il film più commovente dell'anno non è ancora uscito in sala, ma chi come me l'ha visto al Festival di Roma non può non esserne rimasto colpito. Una storia tragica e commovente, una riflessione sul rapporto tra coscienza, memoria e morte che sfida qualunque credenza senza metterne in ridicolo nessuna. Bellissimo. 2. Inception di Christopher Nolan Primo: è un blockbuster ma ha un soggetto originale (no sequel, no remake, no franchising, no ganci per seguiti vari). Secondo: Christopher Nolan, che non è secondo a nessuno. Terzo: non basta vederlo una volta, forse neanche due, e tanto basta. Questo è il film che ha alzato il livello di aspettattiva, altro che i puffi dopati di Cameron. 1. Shutter Island di Martin Scorsese Grandissimo Martin Scorsese, in piena forma, altrettanto Leo Di Caprio e Mark Ruffalo. Il film dell'anno per potenza registica e tensione, pari a Inception, per alcuni versi simile, per altri diversissimo. Così tanto coinvolgente grazie alla regia che i colpi di scena della trama passano quasi in secondo piano. Anche questo, da vedere e rivedere. Neanche un film italiano nel meglio di quest'anno, a parte Draquila. Forse, La Prima Cosa Bella di Paolo Virzì è il film italiano migliore che ho visto quest'anno, insieme a Mine Vaganti. Ma è comunque roba vecchia, commedie ben riuscite, un paio di gradini sopra a Benvenuti al Sud e Basilicata Coast to Coast. Poi? Fanno storia a sè La Pecora Nera di Ascanio Celestini (interessante e commovente, anche se inferiore al monologo omonimo) e Draquila di Sabina Guzzanti, instant movie sulla tragedia del terremoto. Se i lavori più originali vengono da artisti più legati ad altre forme di spettacolo, mentre gli altri navigano a vista cercando solo un buon soggetto per l'ennesima commedia o puntando tutto sull'interpretazione dell'attore principale (Gorbaciof, con Toni Servillo), sarà difficile uscire da questa impasse. Nel 2011 torna Moretti, finalmente. Nanni, ci meritiamo Alberto Sordi, ma abbi pietà almeno tu.
Last, but not least, grazie a:
Mary (67 + tutto il resto) , Daniele (13), Andrea (10) Guido (7), Angelo & Roberta (6), Federica (4) & Francesco (4) Ivano (3), Stefano (2), Cristiana (3), Andrea (2), Vittoria (2), Rowena (2) & Riccardo (1), Flavio (2)& Giordana (2), Laura, Maurizio.

mercoledì 29 dicembre 2010

Not In Kansas Awards 2010: IL PEGGIO

Giunti in fondo ad un lungo anno di cinema, tiriamo un po' di somme! Ecco il meglio ma soprattutto il peggio del 2010. I film che ho visto quest'anno sono stati 86 , ma per queste classifiche non considero i film visti in replica (Ritorno al Futuro, Hair, Rocky Horror, Nausicaa della Valle del Vento) e neanche quelli usciti quest'anno ma che ho visto l'anno scorso in anteprima. Su tutti, Tra Le Nuvole di Ivan Reitman con George Clooney, che ritengo uno dei migliori film in assoluto degli ultimi anni (e quindi sicuramente da top 10). CATEGORIA PEGGIOR FILM: In ordine sparso, i peggiori 10 dell'anno, così brutti che persino l'ultimo di Allen e La Bellezza del Somaro non sono riusciti a farne parte (e ce ne vuole...): 10) Il figlio più piccolo di Pupi Avati
Altro che Cary Grant: De Sica non si contiene, Zingaretti gira a vuoto, la Morante è insopportabile. Il Wall Street de noantri non funziona in nessun modo. Pupi Avati meglio quando si lascia andare all'amarcord che alla satira.

9) Fuori Controllo di Martin Campbell

Uno dei peggiori film che ho visto negli ultimi 29 anni. Brutto quasi quanto Un Alibi Perfetto con Michael Douglas dell'anno scorso...va bene che da brutti film nascono recensioni divertenti, però c'è un limite a tutto...

8) Nine di Rob Marshall

Cast stellare e due palle così. Il tipo di musical che proprio non mi va giù, con un sacco di attori italiani a fare particine squallide di contorno.

7) Brotherhood di Nicolo Donato

Quattro barzotti per un danese. Nazisti. Gay.

6) Dog Sweat di Hossein Keshavarz

Di certo non ha sudato lo sceneggiatore, che però è un cane. In Iran i giovani vivono normalmente. A parte che non ci credo, comunque STI GRANDISSIMI CAZZI: se non succede niente, che c'è da raccontare?

5) I want to be a soldier di Christian Molina

Valeria Marini. Recita. In INGLESE. Però il bambino che le dice "non sembri una maestra, sembri una troia" vale lo strazio del film ( o quasi).

4) L'uomo nell'ombra di Roman Polanski

Ammetto che questo forse non l'ho capito io, viste le critiche entusiastiche di mezzo mondo. Però obiettivamente la storia non sta in piedi.

3) Somewhere di Sofia Coppola

Film ad uso e consumo delle superstar di Hollywood stressate e depresse per il troppo benessere. Sofia, hai rotto le palle. Ma veramente.

2) Indovina chi sposa Sally di Stephen Burke

Pessimo esempio di contaminazione di comicità americana ed inglese, non si ride mai. E Sally Hawkins è insopportabile.

1) Avatar di James Cameron

Riporto integralmente la mia recensione: che cazzata.

Non è cinema, è uno spot alla tecnologia. Si vede meglio su un bel monitor full HD che al cinema, ma non c'è sostanza comunque. James Cameron è George Lucas senza idee.

The Winner is....

0) il 3D Un anno di film pietosi, emicranie, prezzi maggiorati e colori alterati, e neanche un film che ne abbia giovato. Speriamo passi in fretta questa moda...Per Ritorno al Futuro c'era la coda al cinema, a qualcuno sarà venuto in mente che forse un buon film è meglio?

CATEGORIA DELUSIONE dell'anno, ecco i vincitori:

5) Alice in Wonderland di Tim Burton Non ne resta traccia, Burton annacquatissimo. Peccato perchè per gli occhi è uno spettacolo. 4) Iron Man 2 di Jon Favreau Un trailer di due ore di Thor e del film de i Vendicatori. Peccato. 3) Happy Family di Gabriele Salvatores Salvatores fa come i discografici italiani negli anni sessanta, fa una cover e si dimentica di inserire i credits degli autori originali sull'etichetta. Mia madre pensava che Pregherò fosse originale. Poi ha sentito Stand By Me. Happy Family sta a I Tenenbaum come il terribile pezzo di Celentano sta a quello di Ben E. King. 2) Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni di Woody Allen Woody, io i soldi te li continuo a dare finchè tu fai film, perchè ti voglio comunque troppo bene. Però dai. 1) La Nostra vita di Daniele Luchetti

Rispetto ad altri film di Luchetti, mi è sembrato meno sincero ed efficace. Ma sono gusti. Poi Germano ha un po' rotto.

CATEGORIA PEGGIOR ADATTAMENTO DI TITOLO

Per questa categoria entrano necessariamente in gioco anche film che non ho visto, ma di cui ho potuto disprezzare il titolo. Sicuramente qualcosa mi è sfuggito o il mio cervello lo ha rimosso per decenza.
5) Dragon trainer (How to train your Dragon)e American Life (Away we go)

La nuova moda degli adattatori di titoli, dopo le ipotetiche (Se mi lasci ti sposo, Se scappi ti sposo, Se mi sposi ti sposo eccetera): cambiare il titolo ma lasciarlo in americano. Perchè è più cool e produce un income di revenues maggiore del target. Provinciali.

4) Indovina chi sposa Sally (Happy Ever Afters)

Già il film fa cagare (o cacare, tanto fa schifo sia a Roma che a Milano), poi si sono inventati questo misto pessimo che ricorda Indovina chi viene a cena, Harry ti presento Sally, ma che rientra nella consueta prassi A) di rivolgersi allo spettatore, B) di coniugare nel titolo il verbo sposare. Con l'aggravante che Sally NON è un personaggio, bensì il nome dell'attrice.

3) Piacere sono un po' incinta (The Back-Up Plan)

Scelgo questo in rappresentanza di tutte quelle commedie romantiche stantìe come il pandoro di Guido che dal 2006 è nella credenza di casa, che si distinguono, in originale, solo per l'atroce attrice protagonista ed il titolo. Che in Italia inevitabilmente diventa uguale per tutte. Così dopo un po' di tempo non ricordi più se è a Jennifer Aniston che sono cresciuti i baffi o a Jennifer Lopez che è cresciuto il naso.

2) Un weekend da Bamboccioni (Grown-Ups)

Ma fra venti anni, quando - sperabilmente - il ministro Brunetta e Padoa Schioppa saranno solo un vecchio ricordo sbiadito, chi saprà spiegare questo titolo? Probabilmente non ce ne sarà bisogno, visto che non credo sia un capolavoro, ma solo l'ennesimo esempio di autoerotismo cinematografico di Adam Sandler. Comunque, pessimo titolo.

1) We want sex (Made in Dagenham)

Questo vince a mani basse: non solo SEX è scritto a caratteri cubitali sulla locandina, tanto da far pensare a quantità di amplessi degne di un porno, ma ricade anche nella categoria della traduzione in un'altra frase inglese. Inoltre, è un raggiro bello e buono: il film parla della battaglia delle lavoratrici per la SEX EQUALITY, da cui lo slogan We Want Sex Equality, da cui il titolo italiano, che dimentica furbescamente la parola chiave. Comunque, chi si lascia infinocchiare se lo merita.

La cosa peggiore vista al cinema, anche quest'anno, resta la gente, dalle cassiere agli spettatori. Così maleducati, così soprendentemente imbarazzanti da far impallidire qualunque sceneggiatura e qualunque effetto speciale. E purtroppo, sono in 3D (4, considerando gli odori...). C'è di che vergognarsi, stiamo diventando un popolo da terzo mondo.

A presto con il meglio del meglio del meglio........

Quale gobba?

Lupo ululà, castello ululì, il 2 e 3 febbraio al C I N E M A!!!!

martedì 28 dicembre 2010

See Mike Draw e il 3D

Questa vignetta del sempre geniale Mike (autore di strisce sul cinema da restare fulminati dalle risate) riassume perfettamente ciò che penso accada per i film 3D... (click sull'immagine...)

giovedì 23 dicembre 2010

American Life

Dopo Revolutionary Road, non ufficiale seguito di Titanic, con le illusioni giovanili di Leo & Kate che affondavano contro l'iceberg della realtà, Sam Mendes torna a prendere a picconate l'American Way of Life con Away We Go (...tradotto incomprensibilmente con un altro titolo americano e arrivato da noi dopo un anno dall'uscita, sempre perchè non ci facciamo mancare niente). C'è un netto cambio di prospettiva, è evidente. Revolutionary Road era una spietata e tragica cronaca delle conseguenze di una scelta sbagliata, dell'illusione dell'onnipotenza e della perfezione del sogno americano. Away we go è diverso: la coppia è giusta, giustissima. E' il contesto ad essere inquietante, o forse solo non esattamente il migliore dei mondi possibili in cui mettere al mondo un bambino. La famiglia, il lavoro, gli amici, i parenti: sono certezze che non abbiamo, variabili che non possiamo controllare del tutto. Possono sparire, cambiare, rivelarsi fragili. Che si fa? Dai film di Mendes si esce con la domanda (o più di una...), ma senza una risposta rassicurante. Il taglio dato all'opera, con attori non certo di richiamo e un impianto da film indipendente, aiuta a capire che Mendes ci racconta un'altro pezzo ancora di America: una generazione un po' abbandonata a se stessa, in cui però la fiducia - seppur messa continuamente alla prova - non crolla, soprattutto se si riesce a creare un percorso insieme a qualcuno, a stabilire le proprie fondamenta anche se vengono a mancare le sicurezze che l'occidente promette, dall'aiuto dello stato a quello dei genitori alla sicurezza di un lavoro. Finalmente, un film che racconta sinceramente una storia, che anche se innestata pienamente nel cinema di Mendes, è basata sapientemente su personaggi costruiti a tutto tondo, di cui svela di scena in scena l'umanità, magari con i dettagli più insignificanti (la fissazione di lui per le tette della sorella della di lei è geniale, ma non è la sola, così come l'avversione per il passeggino del personaggio di Maggie Gyllenhal), certamente forzando un po' le situazioni familiari incontrate dai due, tutte in qualche modo scoraggianti, ma mai al punto da risultare finte. Una bella intesa tra i due attori principali, John Krasinski e Maya Rudolph, regala sorrisi e lacrime sinceri, per un film piccolo e grande allo stesso tempo. La coppia formata da Ben e Verona non ha niente di cinematografico, sfugge a tutti i clichè del genere: sembrano due persone reali catapultate in un film assurdo, non si può non rimanerne conquistati. Aiuta senz'altro il fatto di non averli già visti altrove, ma anche la loro bravura nel non essere mai sopra le righe senza motivo, merito anche di una sceneggiatura calibratissima e curata nei dialoghi (d'altra parte è di Dave Eggers, noto scrittore, che ha scritto il bellissimo Nel Paese delle creature Selvagge). Questo è il vero film di questo Natale, un bel regalo davvero.

martedì 21 dicembre 2010

L'esplosivo piano di Bazil

Jean-Pierre Jeunet è il regista (tra l’altro) de Il Meraviglioso Mondo di Améliè e dell’altrettanto bello e meno noto Una lunga domenica di passioni. Il suo cinema recente si basa su personaggi surreali, pieni di tic e manie, fortemente connotati o nel fisico o nell’anima, che riescono però (o proprio per questo) a veicolare candidamente le emozioni più autentiche, magari con l’aiuto di qualche invenzione visiva che ti apre il cuore alla gioia di essere al cinema. L’esplosivo piano di Bazil (Micmacs à tire-larigot) non fa eccezione. Il ricco cast di divertenti personaggi (inclusi i “cattivi”) ruota intorno al piano di vendetta di Bazil reso prima orfano e poi nullatenente a causa di due mercanti d’armi a cui decide finalmente di farla pagare. Niente sangue, niente omicidi (non siamo mica in un film di Tarantino), addirittura quasi niente animosità: Bazil architetta il suo strano piano con estrema calma, aiutato da un gruppo di senzatetto di Parigi riuniti felicemente sotto una discarica a riciclare materiali di scarto per farne robot meccanici. Un po’ Gondry, un po’ Chaplin: il cinema di Jeunet racconta il momento di gloria di piccole strambe vite che vengono a contatto. Non c’è bisogno di sospensione dell’incredulità: dai titoli di testa mutuati dai vecchi film anni quaranta, alla splendida fotografia satura e irreale, alla discarica nascosta trasformata in fabbrica, è evidente da subito che stiamo assistendo ad una favola della buonanotte, o alla versione moderna di una vecchia comica, all’intento di strappare un semplice sorriso nella maniera più complicata e cinematografica possibile. Dany Boon è un silenzioso protagonista capace di contenere una vasta gamma di emozioni in un numero limitatissimo di espressioni facciali. Il cast, che annovera attori ricorrenti di Jeunet e qualche nome molto noto del cinema francese, funziona come un ensemble circesco: ognuno è un individuo fortemente caratterizzato dal suo “numero” (contorsionista, calcolatrice umana, uomo proiettile…) ma che risulta funzionale nell’economia complessiva dello spettacolo. Bravi gli attori e bravo il regista, nonostante qualcosa in termini di coesione manchi comunque. Rispetto ai suoi due predecessori, che mi erano piaciuti moltissimo, L’esplosivo piano di Bazil manca infatti un po’ di originalità e di profondità, così come di quell’aura fiabesca che faceva da cornice ad Améliè, ma è sicuramente un film particolare e diverso dal solito, qualcosa da non lasciarsi sfuggire, per continuare o iniziare il viaggio nell’umanità buffa e varia di Jeunet.

lunedì 20 dicembre 2010

La Bellezza del Somaro

Un architetto romano che nasconde l’amante dietro un matrimonio felice, un medico alle prese con l’ex moglie isterica e i suoi problemi con i figli, un napoletano che non riesce ad imparare l’inglese e ha comprato un pitone domestico al figlio. Le tre famiglie si ritrovano in un casale nel Chianti dove tutte le magagne vengono fuori tra una torta in faccia e una canna liberatoria ed un vecchio pedofilo che insidia la giovane figlia dell’architetto. Così, di getto, la trama cosa vi ricorda? Vi aiuto: fate finta che l’architetto sia Christian De Sica, il medico Massimo Ghini e il napoletano Biagio Izzo. Cinepanettone? Natale nel Chianti? Eh no. Perché basta che il regista sia Sergio Castellitto e non Neri Parenti, e gli interpreti siano Castellitto, Marco Giallini, Gianfelice Imparato e Laura Morante invece di Nancy Brilli e tutto ciò si trasforma all’istante in intrattenimento intelligente, non volgare, di sinistra, addirittura di interesse culturale. Perché no, un’attenta analisi in forma di commedia del fallimento umano ed ideologico di una generazione di successo. I casi sono due. O Questo film è vero, e siamo messi male noi, o questo film è finto, e sta messo male Castellitto (e la moglie MM che gliel’ha scritto). Propendo, ovviamente, per la seconda ipotesi. La Bellezza del Somaro è l’equivalente radical chic di Natale in Sudafrica. Target sociale diverso, stessa mistificazione della realtà, stessa superficialità nel trattare gli argomenti e i personaggi. Mi chiedo cosa ne sappia la famiglia Castellitto, che parla dall’alto di una vita privilegiata e agiata, della propria generazione, dei padri di famiglia e dei problemi che affrontano, se il massimo che sa fare è questo. E se Castellitto difende solo i pochi come lui, arrivati eppure pieni di dubbi (pieni di dubbi?), beh mi chiedo a chi giovi questo cinema così autoreferenziale. Un grande come Mario Monicelli ci ha appena lasciato. La sua eredità è fatta di storie verosimili, di personaggi – per quanto comici – autentici nella loro tragicomicità. Dietro a tutto quello c’era una visione critica e chiara della vita, dell’Italia e degli italiani. Una visione che poteva essere declinata in forma comica o drammatica, tanto era la sua stessa solidità a reggerne la forma. Oggi si parla solo per stereotipi di classi sociali, puntando soprattutto alla classe medio-alta che va al cinema e che ne deve uscire rassicurata e non messa in discussione. Natale in Sudafrica, La Bellezza del Somaro, Baciami Ancora, Maschi Contro Femmine. Non c’è alcuna differenza di fondo, solo la stessa presunzione. (E gli stessi titoli di coda: te credo che sono tutti uguali i film, se il cast tecnico è composto sempre dai soliti quattro nomi...) Il cinema ha bisogno di storie e personaggi, di conflitti e risoluzioni, di interpretazione della realtà in qualche forma: comica, metaforica, drammatica. In Italia oggi vedo principalmente registi che non sanno filmare nient'altro che quello che vivono e che vedono, presumendo (a torto) che sia interessante. Troppo facile dire che questa è l’alternativa alla volgarità, quando l’alternativa è De Sica. Se poi si scade nel pecoreccio ogni volta che c’è una battuta (il personaggio di Marco Giallini è identico ad un qualunque De Sica natalizio), allora è una presa in giro bella e buona, hai voglia a citare Freud ogni tre battute, così che il pubblico non pensi di aver visto un film di basso livello. Tanto basta ingaggiare la Morante e farla strillare come una pazza. Ma non si stufa anche lei di questi ruoli da isterica? Come se non bastasse, regia, montaggio e colonna sonora sono quantomeno discutibili (i Cranberries???). Sembra che Castellitto non abbia trovato la cifra giusta per il tono che voleva dare al film, mettendola infine sul piano della confusione espressiva. Un vero peccato, era lecito aspettarsi di più, ma ormai questa mediocrità non fa più notizia.

martedì 7 dicembre 2010

Rapunzel

“Questa è la storia di come sono morto” (Flynn - narratore)
"Cominciamo Bene" (madre di famiglia dietro di me)
Credere nei propri sogni, realizzarli e cercarne degli altri. Questo è un po’ il filo conduttore di Rapunzel, il messaggio da biscotto della fortuna che non manca mai nei sedicenti Classici Disney. Un po’ come il diamante grezzo di Aladdin o il Cerchio della Vita de Il Re Leone (si parva licet). Il problema è che a mio avviso il film stesso tradisce questo pur importante messaggio. C’è qualcosa che non funziona nell’insieme, e, dopo averci pensato un po’ credo di averlo capito. E’ vero, i pezzi musicali sono trascurabili e la protagonista è letteralmente inquietante: occhi enormi e sempre sgranati neanche l’avessero nominata ministro delle Pari Opportunità, corpo minuto, nasino alla francese, bionda come una barbie, petulante ed infantile. Se è vero che le principesse Disney oggi sono un modello solo per le bambine sotto i sei anni, Rapunzel è un pessimo modello, sotto ogni punto di vista.
Il problema però è che o credi alle fiabe (inteso anche come modello di business) o non ci credi. Non puoi proporre una formula e rinnegarla allo stesso tempo ad ogni occasione, ricordando a tutti che, ok, siamo la Disney e facciamo le Principesse, ma Shrek l’abbiamo visto anche noi e ormai abbiamo capito che tirano di più la presa in giro e l’ammiccamento continuo. E’ la morte – dolorosa - della magia Disney, che si basa sull’assunto che la forza delle immagini, dei personaggi e dei messaggi, sia senza tempo ed universale, per il film, che sfugge al giudizio del tempo, e per lo spettatore che riesce ad accedere ad una zona della propria mente in cui l’età, la vita ed i riferimenti culturali si fanno da parte per credere.
Almeno per i maggiori film Disney, è così. Per Rapunzel, no.
Il fatto che Rapunzel abbia attraversato una lunga e contorta fase di produzione e che il titolo originale sia stato cambiato in Tangled per allargare il target anche al pubblico maschile seienne sono la prova della sfiducia intrinseca di Disney per il proprio marchio di fabbrica. Tra l’altro, il box-office li sta smentendo. Il modello musical poi non è finito, ma va sostenuto degnamente: o hai pezzi davvero forti (tipo quelli di Aladdin) oppure è meglio lasciar perdere, le canzoni affossano il film, le sequenze musicali sono prive di fascino e ripetitive: quelle cantate da Rapunzel sono fastidiosissime e poco orecchiabili, quella nella taverna, seppur divertente, è figlia appunto di una controcultura da parodia più che della tradizione disneyana. Restando al film, cresce con il passare dei minuti. Parte zoppicando, tra le solite canzoncine e una principessa che più insulsa non si può (anche il doppiaggio della Chiatti non aiuta). A salvare la baracca arriva l’antieroe (non è più tempo di principi azzurri…), Flynn Rider, che aggiunge un po’ di pepe alla vicenda. E’ proprio lui, anche narratore, in effetti, a maturare nel corso della storia, anche se in maniera scontata, mentre Rapunzel più che altro passa da un sorriso a trentadue denti ad un altro. I personaggi di contorno funzionano bene, anche se hanno ruoli minori rispetto al solito: d’altra parte la scelta di non far parlare gli animali (che però ovviamente offrono una gamma di espressioni e sentimenti tutti umani) limita molto l’efficacia di tali ruoli nella storia e nella memoria dello spettatore. I cattivi sono tutt’altro che memorabili: al contrario del solito distillato di cattiveria, Madre Gotel, la vecchia che rapisce Rapunzel per sfruttarne i poteri, si rivela anche una madre premurosa e risulta difficile da odiare come una Malefica o una Grimilde. Stesso discorso per i due gemelli a caccia di Flynn, tutti muscoli e pochi neuroni, nessuna battuta degna di memoria. I due stoccafissi che andavano in giro con la strega del Mare della Sirenetta erano molto più paurosi. Dal punto di vista tecnico Rapunzel è un grande passo avanti verso uno stile finalmente originale, una computer grafica finalmente matura che sembra 2D per l’uso dei colori e delle luci. La scena delle lanterne è semplicemente spettacolare e vale da sola tutto il film, ma in generale l’effetto delle luci e la regia fa la differenza rispetto al resto della produzione Disney in CG, che finora aveva davvero lasciato a desiderare. Questo è il punto da cui ripartire, secondo me, verso un nuovo rinascimento disneyano. Non secondo loro, però, visto che nel 2011 arriva Winnie The Pooh in 2D e disegnato a mano. Un passo avanti e due indietro.

Nowhere Boy

“Perché Dio non mi ha fatto Elvis?”
“Perché ti ha destinato ad essere John Lennon”
Domani ricorre il trentesimo anniversario della morte di John Lennon, ucciso proprio perché quel destino profetizzato (nel film) dalla madre Julia John lo aveva in parte rinnegato, o in qualche modo messo in discussione, ritirandosi dalle scene per cinque anni e minimizzando con la sua ironia a chi gli chiedeva cos’erano i Beatles. Nowhere Boy di Samantha Taylor-Wood però parla d’altro: è la storia di un adolescente difficile, diviso tra una madre naturale ed una de facto (la zia Mimi), che si sente amato ma non nel modo giusto, che non sa come reagire e che trova finalmente in una chitarra il modo giusto di incanalare la sua rabbia. Emblematico lo scambio di battute con Paul: John gli fa notare che non sembra molto “rock’n’roll” con i suoi modi da bravo ragazzo, e Paul risponde che a lui piace solo la musica, gli altri atteggiamenti da rock star non gli interessano (avrà tempo per cambiare idea, ma questa è un’altra storia, e del resto il vero McCartney ha dichiarato che Nowhere Boy non è esattamente un film storicamente filologico). Magari questo scambio di battute non sarà mai avvenuto, ma è la chiave di lettura ideale sia di un grande rapporto che della sua stessa fine, con Paul ad inseguire forme musicali e John a cercare disperatamente di uscire dal dolore che non lo ha mai abbandonato. E’ vero che è difficile dimenticare chi è e chi sarà John, mentre si guarda il film, ma in effetti la vicenda si incentra intelligentemente sul rapporto tra John e sua madre Julia, dal loro riavvicinamento alla tragica morte di lei. E’ la storia di un adolescente negli anni Cinquanta, quando saper suonare la chitarra ed essere un leader poteva fare la differenza tra un lavoro al porto di Liverpool e una speranza di essere qualcuno. O forse no, ma almeno per uno è stato davvero così.

Non c’è bisogno di essere fan dei Beatles per apprezzare la colonna sonora o l’interpretazione di Aaron Johnson (bravissimo) e di Kristin Scott-Thomas (nei panni di Mimi)… certo quando John e Paul si stringono la mano per la prima volta, si avverte chiaramente un fremito nella Forza. Ci sono degli ottimi momenti di cinema e questo è quello che conta, una volta seduti in sala: l’iniziale omaggio ai Beatles (unico e neanche troppo palese), la sequenza finale con In Spite of All the Danger, la sequenza in cui John impara a suonare la chitarra, l’incontro con Paul. Non amo i biopic, ancora meno le agiografie, poi di mistificazioni sui Beatles ce ne sono fin troppe. E’ una storia troppo recente (e troppo ben documentata) per diventare leggenda e incorporare in quanto tale tutte le versioni alternative degli odierni cantori dei media, che diventano la storia ufficiale agli occhi delle persone meno informate. E’ una pratica disonesta e furbetta, irrispettosa delle persone che guardano e che sono raccontate. John Lennon è stato un genio del pop, ma soprattutto una persona complicata e tormentata, capace di scrivere Imagine ed essere un pessimo padre, per la quale scindere il lato artistico e quello umano è praticamente impossibile: non si deve fare l’errore di ridurre ad un film la sua complessa personalità. L’uomo ed il personaggio John Lennon sono la stessa faccia della medaglia, non si può raccontare uno senza l’altro, e tradire la verità sulla sua vita implica tradire anche la sua arte. A John non sarebbe certo piaciuto piegare la sua storia alla fiction.
Per cui sia chiaro: il John di Nowhere Boy non è quello che fonderà e poi scioglierà i Beatles, non è quello che sposerà Yoko Ono e non è quello che morirà a New York per mano di uno psicolabile qualche anno dopo. Però, in certi momenti, gli assomiglia maledettamente e ci ricorda quanto il vero John ci manchi.

lunedì 29 novembre 2010

Ma che è morto sul serio?

(1915-2010)

Ciao caro Mario, adesso finalmente li potrai dirigere di nuovo. Divertiti. Ti dedico il funerale del Perozzi.

Scott Pilgrim vs. The World

Sei Super Mario, sei un idraulico italoamericano che deve salvare la principessa del Regno Dei Funghi dal malvagio tartarugone dinosauro Bowser saltando in testa a tutto quello che ti capita. Con B corri, con A salti. Se prendi un fungo cresci, se prendi un fiore spari palle di fuoco.
Press Start

Negli ultimi anni, i videogiochi hanno assunto una seriosa veste cinematografica, per cui la profondità e la coerenza interna della storia sono aspetti tanto importanti tanto quanto la giocabilità. Ma ci siamo mai chiesti come ha fatto un idraulico italoamericano di Brooklyn a finire nel regno dei Funghi? E a sparare palle di fuoco? E poi perché si chiama Mario sia di nome che di cognome? E la principessa, perché è l’unica umana del regno dei Funghi? Non sarà lei, l’usurpatrice? Ecco, ora chiediamoci anche perché non ce lo siamo mai chiesto. La risposta però è semplice: non c’è bisogno di coerenza drammaturgica, se lo scopo è divertirsi, se il divertimento è così totale ed immediato. Oggi sembra che senza una storia degna di Dostoevskij (a cui viene dedicata almeno mezzora prima dell’inizio effettivo del gioco), neanche i personaggi dei videogiochi possano essere credibili. Per non parlare dei tasti che ci vogliono per farli muovere. Scott Pilgrim vs. The World è uno dei film dell’anno (lo dice Empire, mica io). In quanto tale, a Roma la programmazione serale c’è solo alla Sala Troisi, in cui ogni cinque minuti trema tutto per il passaggio del tram o dei Tremors. All’UGC di Porta di Roma, solo lo spettacolo della mattina, a Parco Leonardo, solo alle 14.05. (Harry Potter ha venti spettacoli da una parte, ventitrè dall’altra, e poi si strilla al record di incassi: se non c’è altro da vedere, è ovvio che i soldi finiscano tutti là. ) Michael Cera è Scott Pilgrim, indolente e immaturo ventenne che vive tra videogames, avventure sentimentali deludenti ed il suo gruppo rock. Quando conosce Ramona, viene catapultato in una disfida mortale contro la Lega del Malvagi Ex della ragazza, sette loschi e pittoreschi individui che lo sfidano a suon di colpi speciali degni di un picchiaduro da bar anni novanta. Per conquistare definitivamente il cuore della ragazza, Scott non può sottrarsi ai duelli, che lo porteranno davanti all’ultimo e più pericoloso ostacolo: se stesso. Piatto come Super Mario Bros, violento come Street Fighter II, ripetitivo come Pac Man, Scott Pilgrim vs The World è il film sui videogiochi che aspettavamo da tanto tempo. Scott Pilgrim è un personaggio dei videogiochi (anni ottanta): va avanti, combatte, va ancora avanti, combatte. Fino all’ultimo livello, per salvare la principessa: sembra molto più Paper Boy o uno dei draghetti di Bubble Bobble piuttosto che il protagonista di Assassin’s Creed o di Heavy Rain, : da un momento all’altro, combatte con poteri del tutto irrealistici e che neanche sa di avere. E quando finisce, ricomincia a fare quello che stava facendo come se niente fosse. Portando al cinema quella logica geniale che ti faceva impersonare in Mario, Ryu e Sonic negli anni Ottanta e Novanta, Scott Pilgrim vs The World riesce dunque nell’obiettivo fallito dai tanti film ispirati a videogiochi, coniugare sul grande schermo cinema e games. Grattando sotto la superficie, questo film è un’evidente metafora della crescita (a scoppio ritardato) e della fuga dolorosa dall’adolescenza, di ciò che si lascia indietro e ciò che si può e si deve portare avanti. Ma in questo caso, la confezione è talmente scintillante e divertente che grattare la superficie non è necessario per dare un voto alto al film. Ad impreziosire il tutto, una colonna sonora rock grezza e incazzata come non se ne sentivano da tanto, non a caso curata da Nigel Godrich, produttore dei RadioHead. Scott Pilgrim vs. The World forse non piacerà a tutti, ma senza dubbio è dedicato a quelli che da piccoli avevano i gettoni contati e dovevano dividerseli tra Mexico 86, Street Fighter II e Daytona USA, a quelli che seppur malvolentieri si affidavano al tipo losco della sala giochi che sapeva sconfiggere il mostro, a quelli che oggi impazziscono se possono giocare a Pac-Man o Tetris sull iPhone e che se pensano a Super Mario, lo vedono sempre e comunque di profilo.

Game Over

Insert Coin

mercoledì 17 novembre 2010

Porco Rosso

"Un maiale che non vola è solo un maiale"
Chi segue l'animazione giapponese non può non conoscere Porco Rosso. L'aviatore col muso da maiale nato dalla mente di Hayao Miyazaki è uno dei simboli dello Studio Ghibli ed il protagonista di un film del 1992. Che arriva nelle sale italiane nel 2010. Di buono, c'è che se fosse arrivato negli anni novanta, gli sarebbe toccata la stessa triste sorte di altri film di Miyazaki, snaturati da un pessimo adattamento occidentale. Ho resistito per anni alla visione domestica di edizioni import, e ho fatto bene: Porco Rosso è un film da cinema. La meraviglia che si prova nel vedere un'animazione completamente realizzata a mano, oggi, è cosa rara: i colori, i dettagli, i fondali, le macchine, i personaggi: il tono malinconico dei film di Miyazaki è involontariamente accentuato da questo corto circuito temporale che permette a Porco Rosso di essere in sala insieme alle Winx e ai gufi (impagliati) in 3D di Ga'Hoole (oltre che a L'Illusionista, ma è un'altra storia). La trama, in breve: Marco Pagot è un aviatore italiano che negli anni del fascismo vive come cacciatore di taglie fuorilegge avendo rinunciato ad arruolarsi sotto il Duce. Quando i pirati del cielo assoldano un esperto pilota americano per liberarsi di lui, Marco, chiamato Porco Rosso a causa di un sortilegio che gli ha dato le sembianze di un maiale, deve fuggire a Milano per far riparare il suo idrovolante. Il nuovo progetto sarà opera della piccola Fio, che, oltre ad un aereo imbattibile, fa ritrovare a Porco Rosso anche parte dell'umanità perduta...ma il duello con l'americano Curtis diventa inevitabile. A prima vista molto diverso da altri film di Miyazaki, Porco Rosso ne rielabora semplicemente alcuni dei temi portanti in chiave più adulta e scanzonata. Il sortilegio che ha trasformato Pagot in un maiale non viene spiegato mai, ma è (oltre che un'invenzione visiva decisiva) il simbolo della rinuncia di Marco alla sua umanità, alle regole della società: nè contro il fascismo nè con esso, in nome di un individualismo egoista che rende le persone poco umane: Marco rinuncia anche all'amore di Gina, che lo attende invano, ma viene inevitabilmente colpito dalla vitalità e dalla purezza di Fio. L'evoluzione di personalità già in partenza complesse e mai completamente positive o negative, il confronto tra gli ideali giovanili ed il disincanto della maturità, spesso declinato in un confronto scontro tra due personaggi femminili, la metafora degli animali, il rifiuto categorico della guerra e della privazione della libertà attraverso la sua esaltazione (qui rappresentata dal volo): sono tutti temi cardine nella poetica di Miyazaki. Invece di avere regni fantastici e lontani, però, Miyazaki ha scelto l'Italia del fascismo ed il mare Adriatico come ambientazione (riuscitissima, tra l'altro), e riferimenti a veri piloti italiani e veri aerei per i personaggi invece che strani congegni volanti; il protagonista è un navigato uomo di mezza età che non si risparmia commenti a sfondo sessuale e parolacce, un eroe dei cieli egoista e affascinante, mutato nell'animo e nel fisico dal dolore della vita passata e dalla rinuncia al presente. Questo fa di Porco Rosso un'opera unica nella cinematografia del maestro giapponese, e, personalmente, da ieri ho un nuovo numero uno nella mia classifica dei film dello studio Ghibli: più coerente ed avvincente di altri, più divertente anche se meno immaginifico, più adulto anche se molto solare, più diretto. Le sequenze aeree di lotta e di volo sono estremamente divertenti, la sceneggiatura riserva molte battute divertenti e situazioni buffe, mentre la scena con gli aerei fantasma è da brividi, da grande cinema. La risoluzione del duello finale accentua i toni da farsa e da commedia, non togliendo spessore ai temi drammatici del film, ma sollevando decisamente gli animi prima della fine. Il finale aperto, poi, lascia una sensazione che pochi altri cartoni danno: invece di chiudere forzatamente la storia facendo vivere Porco Rosso per sempre felice e contento lascia in sospeso, e quindi libero, il personaggio, non tradendone lo spirito solo per mere esigenze di copione. In sala ieri eravamo meno di venti, quelli dietro di me parlavano di troll e portali magici attaccati alle cinque di mattina, quindi diciamo che non contano: venerdì esce Harry Potter 7, la peggior saga cinematografica degli ultimi venti anni e quindi una delle più seguite. Invece di maghi finti e laccati (tanto come finisce lo sanno tutti), io consiglio di cercare un po' di magia vera con Porco Rosso e L'Illusionista, simboli di un cinema artigianale destinato a scomparire, nascosto in poche sale piccole e malfunzionanti, ma che racchiude l'essenza di un'autentica esperienza cinematografica, artistica e, in definitiva, umana.

Il regno di Ga'Hoole

Prendete 300. Fatto? Sostituite a piacere barbagianni, civette e gufi a spartani, persiani e greci vari. Fatto? Girate dieci minuti di scene ed estendetele a un’ora e mezza col ralenti. Fatto? Rovinate tutto con il 3D. Fatto? Bene, siete Zack Snyder avete appena realizzato Il regno di Ga’Hoole - La Leggenda dei Guardiani, atipico fantasy in CG con dei gufi al posto delle persone. Per fare cinema basta seguire Art Attack, di questi tempi. Zack Snyder, autore di 300 e Watchmen, nonché incoronato da Chris Nolan regista del prossimo, ennesimo, Superman, ripropone la sua zuppa epica e rallentata, stavolta nella variante animazione fantasy. A mente fredda (e passato il mal di testa da 3D), è difficile non dare addosso a questo tipo di cinema che si esaurisce con la visione del trailer, in cui una tecnica di animazione meravigliosa (i gufi sono bellissimi) ed una storia con un buon potenziale sono asserviti ad una visione registica monotona e non più originale, che penalizza la sceneggiatura nella definizione dei personaggi e delle situazioni che dovrebbero maggiormente emozionare, demandando tutto all’effetto 3D che ancora una volta invece non aggiunge un bel nulla (e mi lascia l’impressione che in 2D, in blu-ray sarà un’altra cosa). Poteva e doveva essere migliore, Il Regno di Ga’Hoole e di certo c’è di peggio in giro: l’originalità del concept (in pratica, i gufi) fa comunque galleggiare il risultato finale sopra la sufficienza, per chi ama l’animazione in computer graphic. A chi è indirizzato un film del genere? Ai bambini non credo, è un po’ duretto da digerire. Agli adulti nemmeno, non scatta certo l’empatia con dei gufi da battaglia. Ga’Hoole è lì, nel limbo dei film riusciti a metà, probabilmente nati storti in un progetto che doveva essere gestito da altre mani. La freddezza del risultato è abbastanza inaccettabile, perché sa di presa in giro per il pubblico. Sarà che mi aspettavo molto, sarà che l'ho visto negli stessi giorni sia de L'Illusionista che di Porco Rosso, entrambi capolavori, ma sono deluso, è cinema da tempo perso. E chi ha tempo da perdere, di questi tempi?

martedì 16 novembre 2010

L'illusionista

Non spenderò troppe parole su L’Illusionista di Sylvain Chomet. Di cose da dire ce ne sarebbero tante, forse troppe: per un film praticamente muto, in cui l’emozione arriva tramite la forza essenziale del cinema stesso, l’immagine, non posso che semplicemente scrivere che di film come questo se ne vedono pochi, a cartoni praticamente nessuno, e risparmiare parole inutili che finirebbero per banalizzare quello che semplicemente si può comunicare senza dire nulla. Erano anni che attendevo la seconda opera dell’autore del geniale Appuntamento a Belleville, non sono rimasto deluso. L’Illusionista non è un film per tutti, di certo non è un film per gli spettatori occasionali o che vanno al cinema in mancanza di alternative: un cartone animato dallo stile originale e unico, malinconico nello svolgimento e tristissimo nella risoluzione, tratto da una sceneggiatura inedita di Jacques Tati e vicino ad una comica di Chaplin, lontanissimo da qualunque stereotipo legato all’animazione, anche quella di qualità, sia occidentale che orientale, per contenuti, stile e tecnica utilizzata. L’Illusionista è un film denso e difficile: Sylvain Chomet sceglie l’animazione perché non potrebbe mai veicolare tutto il groviglio di sensazioni e colori con attori in carne ossa invece che con personaggi che sono fisicamente costruiti come l’emozione che rappresentano. Ho scritto già troppo e L’Illusionista, temo, è già fuori dai cinema, vista la limitata distribuzione. Nonostante ciò, è uno dei film migliori che ho visto quest’anno e non posso che consigliarlo vivamente a chi vuole essere di nuovo stupito dal cinema.

giovedì 11 novembre 2010

Unstoppable - TOP 10 scene con i treni

La recensione di questo discreto film con Chris Pine e Denzel Washington che per fare sempre la stessa cosa prende venti milioni a film è qui, su filmscoop.it . Immancabile in questi casi, una bella top 10 di scene su/con i treni...ce ne sono a palate, più ci penso più me ne vengono in mente...(Butch Cassidy!! La Stangata!! Spider-Man 2! Ghost! Men In Black 2! ...vabbè...)

10) Indiana Jones e L'ultima Crociata Metà dell'iconografia di Indiana Jones (cappello, frusta, paura dei serpenti...) nasce nell'antefatto de L'Ultima Crociata, quando un giovane Indy (River Phoenix) lotta su un treno contro una squadra intera di ladri di reperti archeologici. 9) Non ci Resta che Piangere Il treno è fondamentale in questo film: all'inizio, Mario e Saverio si stancano di aspettare i sei-sette treni dello smistamento e prendono la strada laterale...alla fine, un altro treno. La scena finale di Non ci resta che piangere è favolosa, ma ancora di più lo è pensare che un Leonardo da Vinci apparentemente non sveglissimo sia riuscito a costruire un treno nel 1500 a partire dalla spiegazione di Benigni...

8) Toy Story 3

La miglior scena d'azione dell'anno e la miglior scena iniziale, Woody contro il temibile Mr Potato lanciati su un treno diretto verso un burrone. L'inizio perfetto per rientrare nel mondo di Toy Story. 7) Ritorno al Futuro III Problema: la Delorean è a secco, i cavalli non ce la fanno a trainarla fino a 88 miglia all'ora. Cosa può spingere la macchina del tempo nel vecchio West di Hill Valley se non una locomotiva? Come sempre, Marty e Doc trovano il modo di ridursi all'ultimo respiro della loro unica chance, stavolta su un treno a vapore. 6) Bananas Woody Allen contro un giovanissimo Sylvester Stallone. Non c'è storia? non è detto...basta avere il giusto tempismo! O forse no.

5) Stand by me La scena del treno sul ponte è da brividi, in un film sull'amicizia e sull'infanzia che finisce. Bellissimo. Ehi, ma quello non è WILL WHEATON????? 4) Amici Miei (grazie Mary) Me la stavo per dimenticare, ma effettivamente la scena degli schiaffi alla stazione è geniale. Dalla prima volta che l'ho vista, ho sempre avuto il desiderio di provarci, bisogna solo trovare il treno giusto.

3) A qualcuno piace caldo Josephine e Daphne nel vagone notte con un'intera orchestra femminile, capitanata da Zucchero Kandinski / Marilyn Monroe. Chi porta il ghiaccio?

2) A Hard day’s Night I Beatles, dopo esserci saliti per miracolo scampando al delirio delle fans, portano scompiglio su tutto il treno e fanno la conoscenza del terribile nonno di Paul. C'è il tempo anche per una canzone...

And the winner is.....

1) Febbre da Cavallo Sandokan e gli spicci, più la Mandrakata più faticosa di tutte.

"E quante carozze ce saranno?" "E che no, quanno finisce er treno se fermamo!!" "E certo, che se famo corre appresso dar treno?"

Gran premio della giuria: Galaxy Express, decisamente il più bel treno prestato alla fiction di tutti i tempi. Il modo in cui decolla dal binario interrotto è una delle immagini più suggestive dell'animazione giapponese che io ricordi.

Grazie a filmscoop.it

The Social Network

Qui su Best Movie la recensione/presentazione di The Social Network, che esce oggi. Ci sono due tipi di film tratti da storie vere: quelli come Unstoppable, che si ispirano ad un fatto realmente accaduto (e spesso se ne vantano pure) ma ci costruiscono sopra una storia ex-novo, e quelli tipo The Social Network o tutti i biopic, in cui fatti e persone sono realmente esistenti, solo che il tutto è deformato dalle esigenze di copione. In entrambi i casi, parto decisamente prevenuto, ma per il secondo tipo nutro un odio profondo, perchè ne contesto a priori lo scopo e i mezzi: che senso ha cambiare i fatti e poi spacciarli per una storia vera? Allora tanto vale inventare di sana pianta, soprattutto quando documenti, anche filmati, dell'epoca sono facilmente rintracciabili (vedi l'assurdo Frost/Nixon). Inoltre, se le vicende narrate sono talmente interessanti da meritarsi una trasposizione cinematografica, perchè bisogna aggiungere/togliere/mistificare? E soprattutto, ma perchè si fanno sempre un vanto del fatto che il film si ispira a fatti reali? L'autenticità di un film non ha nulla a che vedere con la verità dei fatti narrati. Ci sono rare eccezioni, a mente direi che i film della seconda categoria che proprio non sono riuscito ad odiare di questa categoria sono (nell'attesa di Nowhere Boy, che esce a dicembre, finalmente): 1) Milk (di Gus Van Sant): commovente e profondo, più che un semplice biopic è proprio un inno alla tolleranza. E poi, non riesco a bocciare alcun film che contenga riferimenti al Mago di Oz, neanche Sky Captain and the World of Tomorrow... qui c'è una bellissima sequenza sulle note di Somewhere Over the Rainbow. 2) Il divo ( diPaolo Sorrentino): più che un biopic, un biovideoclip di Paolo Sorrentino sulla vita di Giulio Andreotti con il solito immenso Servillo e un inquietante Carlo Buccirosso nei panni di Pomicino. 3) Tu chiamami Peter (di Stephen Hopkins): il biopic su Peter Sellers è inutile come tutti i biopic, ma Geoffrey Rush interpreta magnificamente Peter Sellers, e la trovata di regia di fargli impersonare anche gli altri personaggi è riuscitissima 4) The Social Network (di David Fincher): un film di oggi che racconta il presente attraverso la storia di uno degli status symbol di questo decennio. Attualità, finanza, società. Molto meglio di Wall Street per capire come si gioca oggi... 5) Burke & Hare (di John Landis): finalmente una commedia seria, ci voleva il veterano John Landis, esiliato in Inghilterra, per ricordare a quelle checche isteriche di Hollywood tipo Judd Apatow e Ben Stiller che ci vuole anche un po' di autoironia...

mercoledì 10 novembre 2010

La scuola è finita e gli insegnanti cinematografici

La recensione di La Scuola è Finita di Valerio Jalongo è su filmscoop.it. Qui, invece, un ipotetico collegio docenti dei migliori insegnanti cinematografici (escludendo volutamente le varie “insegnanti” della commedia sexy anni settanta, dalla Fenech in giù, altrimenti era troppo facile…) LETTERE Prof Lipari/Vivaldi (Silvio Orlando, Auguri Professore/La Scuola)

Frase chiave: "Le domande hanno bisogno di respirare" L’idealista di sinistra, Il visionario contro il sistema, l’ultimo baluardo della cultura contro la devastazione della scuola italiana. Il tenero professor Lipari ed il suo alter ego Vivaldi, entrambi usciti dala penna di Domenico Starnone e caduti sulla faccia perfetta di Silvio Orlando, sono l’archetipo del professore che non demorde, che ne fa una missione personale, fino a sbagliare per troppo ardore. Disilluso forse, ma mai domo. Sempre Silvio Orlando regala una grandissima lezione di letteratura italiana in Il Portaborse di Luchetti ("...e anche Manzoni, diciamo la verità, mentre lui per cinquant'anni scrive e riscrive i Promessi Sposi, Balzac infila uno dopo l'altro dieci capolavori, Melville scrive l'immenso Moby Dick e Dostoevskij...beh Dostoevskij scrive L'Idiota, Delitto e Castigo e I Fratelli Karamazov!"). LETTERATURA INGLESE Prof Keatings (Robin Williams, L’Attimo Fuggente)

Frase chiave (per chiamarlo, altrimenti non si gira): “O Capitano Mio Capitano” Non vedo questo film da anni, per paura di scoprire che uno dei primi film ad emozionarmi davvero non sia poi il capolavoro che ricordo. Ma “O Capitano Mio Capitano” mi è rimasto dentro. MATEMATICA (E SUPPLENTE DI GINNASTICA) Prof Apicella (Nanni Moretti, Bianca)

Frase chiave: "continuiamo così, facciamoci del male"
Che non sia del tutto equilibrato, il professor Apicella, lo si scopre alla fine del film. Certo la rissa con l’alunno che gli dà dello stronzo poteva essere un campanello d’allarme. E non ditegli che non conoscete la Sacher Torte. STORIA Maestro Saverio (Roberto Benigni, Non Ci Resta che Piangere)

Frase chiave: “Questo lo boccio” Benigni è un maestro elementare che vuole bocciare il povero Giachetti solo perché gli è stato antipatico dal primo momento che l'ha visto. A pensarci bene, non mi è mai venuto il dubbio che Giachetti non fosse davvero antipatico… ARCHEOLOGIA Prof Jones (Harrison Ford, Quadrilogia di Indiana Jones)

Frase chiave: “La X non è il punto dove scavare.”
Come il più classico dei supereroi, nascosto dietro un paio di occhiali da vista da topo di biblioteca, Indiana Jones insegna archeologia a studenti attenti e studentesse trasognate tra un'avventura e l'altra. POZIONI (sì, è una sezione sperimentale) Prof Piton (Alan Rickman, Harry Potter)

Troppo facile mettere Albus Silente o Lupin. In un corpo insegnanti che si rispetti c’è almeno una carogna frustrata che si sfoga sugli alunni. Severus Snape (o Piton) è l’arcigno insegnante di Pozioni di Harry Potter, infame e intransigente, esigente, inumano e spietato. Che ci gode a mettere insufficienze, che ritiene di sprecare il proprio tempo con gli alunni senza speranza. Se a questa descrizione non corrisponde almeno uno dei vostri insegnanti (valgono tutti, dall’asilo a scuola guida), non siete stati a scuola. MUSICA Mr. Finn (Jack Black, School of Rock)

Frase chiave: "Che vi insegnano in questo posto?"

Sì, d’accordo non è un vero professore, ma non lo erano neanche le altre candidate per la cattedra di musica (Maria/Julie Andrews di Tutti insieme appassionatamente e Suor Maria Claretta/Whoopy Goldberg di Sister Act), quindi ho scelto per il più simpatico e matto, che ci sta bene sempre qualcuno sopra le righe.
Che bel consiglio di classe che ne verrebbe fuori....

venerdì 5 novembre 2010

Festival di Roma 2010: la BOTTOM FIVE (e altre considerazioni sparse)

Il lato oscuro del Festival, la classifica degli orrori. L’arte imita la vita, si dice, ma ancora di strada ha da farne prima di togliergli il primo posto, soprattutto nelle cose negative… 1. Il pubblico Come sempre, la cosa peggiore di tutte è la gente. Io non capisco, davvero, come sia possibile. Non c’è stata una volta che non ci fosse qualche testa di cazzo che doveva commentare ad alta voce scena per scena. Il top è stato quella che, zittita, ha commentato: “Ma perché? Non stanno parlando”. E certo, perché i momenti di silenzio del film ce li mettono apposta i registi, sono gli spazi adibiti ai commenti del pubblico. Da podio anche il giornalista BBC accreditato con la faccia da maniaco che non voleva liberare il posto per il legittimo proprietario (munito di biglietto) perchè gli avevano detto di sedersi dove gli pareva (per l'organizzazione di merda, vedi punto 4). E poi sono gli italiani... Anche quello che ha dovuto tradurre il film battuta per battuta alla deficiente che aveva accanto non è stato niente male, per non dire delle due che si sono spazientite durante l'incontro con Rockwell, che evidentemente disturbava le loro chiacchiere, dal quale sono uscite solo con la voglia di rivedere FlashDance. Ve lo meritate Alberto Sordi. Ma che ci venite a fare? Biglietti omaggio, senza dubbio: avevano la faccia di quelle che "vanno al cinema" così per rivedersi ed aggiornarsi sulle loro disgrazie sentimentali (perchè solo quelle...), ma non per "vedere un film". Poi cosa vedono lo decidono in cassa tra una chiacchiera e l'altra, tanto chi sta in fila dietro di loro può aspettare. Io vi odio dal profondo del mio cuore e sì, vi giudico senza appello al solo sentirvi parlare tre minuti di cinema. L’unica volta che non avevo nessuno dietro e da un lato, dall’altro lato persone civili, quello davanti PUZZAVA talmente tanto che ad ogni minimo movimento appestava la sala (chissà se leggerà queste parole, ci provo: ciccio, eri seduto in galleria a Kill Me Please, fila 4, posti centrali, stavi con un’amica. LAVATI e LAVA I TUOI VESTITI, anzi buttali e comprati qualcosa di decente). Cazzo, ma è possibile? Invece del caffè HAG, l’anno prossimo facciamo fare da sponsor alla Infasil, almeno distribuiscono un po’ di deodorante. Stesso discorso per i giornalisti: spocchiosi e cafoni, quando non gradiscono te lo devono far sapere in diretta ad alta voce. E spesso, non gradiscono già da prima di vedere il film, mentre fanno la fila. Andate a lavorare. 2. I Want To Be A Soldier Valeria Marini produce e recita in inglese. E questo già basterebbe. Il film fa schifo, ma quando il bambino dice alla Marini: “Non sembri una maestra, sembri una troia” scatta l’applauso. 3. Dylan Dog Venti minuti che lasciano l’amaro in bocca. Se Dylan Dog resterà sul livello dei primi venti minuti, sarà un pessimo film. Vampiri e licantropi per assecondare la moda, niente Groucho, niente Londra, niente atmosfera. Ma perché allora? 4. l’organizzazione Assurde le code per gli accreditati se i posti sono già assegnati, le biglietterie hanno fatto un gran casino, i sottotitoli non erano mai in sincrono, il volume in sala Alitalia variava tra “stordimento” ed “assordante”, ma senza mai passare da “accettabile”. Prezzi assurdi, soprattutto con il rischio di finire in galleria e di avere le sbarre della balaustra davanti agli occhi... 5. Dog Sweat Due parole: che. palle. Se un regista ha l’urgenza di documentare la normalità della vita dei giovani Iran, presumendo che a qualcuno interessi sapere che dopotutto non si sta così male sotto un regime religioso, allora faccia un documentario (e già quello…). Per fare un film ci vuole altro, ci vuole un cavolo di dramma, una struttura narrativa, delle storie da raccontare. Ripeto: che palle. Fuori classifica, in ordine sparso e velocemente: bello The Social Network, di David Fincher, sulla genesi di Facebook e le battaglie legali tra i suoi creatori; ho trovato interessante l’esordio di Jim Loach, figlio d’arte, che ha scelto un episodio di cronaca incredibile per il suo Oranges and Sunshine. Persino la mia idiosincrasia alle storie tratte da una storia vera non ha resistito, stavolta. Pete Smalls is dead di Alexandre Rockwell è un bel film indipendente sconclusionato e fracassone che sembra uscito dagli anni novanta, e che fa vergognare tutto il cinema sedicente indie (ma in realtà fintissimo) degli ultimi anni, da Little Miss Sunshine in poi. Tra l'altro l'incontro con Rockwell è stato complementare a quello di Landis e molto istruttivo, oltre che divertente. Di Animal Kingdom e del suo regista David Michod sentiremo parlare presto: la declinazione australiana del gangster movie è l’alternativa all’asse Scorsese-Tarantino, può non piacere, ma è qualcosa. Al cinema ora. Divertente The Incite Mill, thriller giapponese che unisce il Grande Fratello ad Agatha Christie. Kill Me Please è una black comedy belga d’altri tempi, chissà se lo vedremo al cinema, originale nella sua imperfezione, un diamante grezzo con momenti di grande cinema. Ma possibile che ci mangino in testa proprio tutti, quanto ad originalità? Certo, immagino in Italia un film sull'eutanasia che reazioni susciterebbe... Piuttosto inutili Rabbit Hole e Let Me In (copia verbatim dello svedese Lasciami Entrare), il cinema americano segna decisamente il passo, scadendo nella mediocrità assoluta. Si salva solo The Kids Are All Right, ma solo perché è divertente e con tre attori bravissimi (Julianne Moore, Annette Bening, Mark Ruffalo). Capitolo Italia: Il Padre e lo Straniero di Ricky Tognazzi mette troppa carne al fuoco e fa più fumo che arrosto, ma almeno non è la solita commedia generazionale o stereotipata. Qualche merito ce l’ha e gli va riconosciuto. La scuola è finita è imperfetto ed è stato accusato di banalità, ma d’altra parte meglio questo che Notte prima degli esami, per dare un occhio alla scuola di oggi. Certo i tempi de La Scuola e Auguri Professore sono lontani, ma anche la scuola vera è cambiata. Un grazie a Best Movie e a MS che mi ha supportato e sopportato durante questi giorni convulsi.

giovedì 4 novembre 2010

Festival di Roma 2010: la TOP FIVE

Nonostante una dieta di piadine in busta, biscottini carissimi e caffè HAG e pochissime ore di sonno sono uscito vivo dal Festival di Roma. Bella esperienza: finalmente mi sono goduto a pieno un festival, sono riuscito a collezionare venti proiezioni (il record è stato le quattro proiezioni consecutive del primo novembre) e non vedo l’ora di rifarlo l’anno prossimo. Ho visto cose che voi umani potete solo immaginare (o pagare 23 euro per la sala Santa Cecilia), quindi ve le racconto, con due belle classifiche ( i link sono agli articoli che ho scritto per Best Movie). Ecco la classifica delle cose migliori viste al Festival: 1. John Landis Primo posto meritatissimo per un regista fantastico. Burke & Hare è divertente e deficiente come i vecchi film di Landis, mentre la lezione di cinema del regista è stata una serata imperdibile, all’insegna della follia e di un cinema che sta scomparendo dalle sale ma è scolpito nei nostri cuori. (John Landis con George Lucas) 2. The People vs. George Lucas Han Shoots First. Jar Jar Binks. Nuke The Fridge. I Midichlorian: le imputazioni per George Lucas sono serie, il suo stato di divinità è stato messo in discussione dagli stessi creatori del suo culto, i suoi fan più accaniti. Questo divertente documentario esplora in maniera semiseria le dinamiche che si sviluppano tra un autore, la sua opera ed il suo pubblico, prendendo come esempio Lucas e Star Wars. Un film che, personalmente, ho sentito tantissimo…

3. Las Buenas Hierbas Struggente ed originale, il film messicano di Maria Novaro ti resta attaccato addosso. Un film “da festival”, che non avrei mai visto altrove, neanche pagato. E' il bello dei festival, la sorpresa di certi film e di un certo cinema "invisibile". Consigliatissimo.

4. Boardwalk Empire Il pilota, fantastico, è diretto da Martin Scorsese , che produce insieme a Mark Wahlberg una nuova serie sulla criminalità organizzata degli anni Venti.

Uno Steve Buscemi in grande forma è il protagonista Nuckie Thompson, politico corrotto di Atlantic City alle prese con i giovani gangster Lucky Luciano ed Al Capone. Sarà un classico se rimane sui livelli cinematografici dell'episodio pilota, ma dobbiamo aspettare gennaio per la versione italiana (su Sky).

5. Nausicaa della Valle del Vento La retrospettiva su Miyazaki l’ho saltata quasi tutta, purtroppo. Orari strani, altri impegni…ma questo no, è il film più vecchio, il manifesto dello Studio Ghibli e, non so perché, ho sempre avuto una strana curiosità per questo film, le cui immagini mi colpirono da piccolo quando le incontrai per la prima sulle riviste di fumetti giapponesi. Finalmente l’ho visto e mi è piaciuto.

Seguirà la Bottom Five...

(grazie a Best Movie e MS)

giovedì 28 ottobre 2010

Wall Street - Il denaro non dorme mai

"What is the definition of insanity? Doing the same thing again and again and expecting a different result. "

Faccio sempre fatica a seguire i film come Wall Street. Le mie conoscenze di economia sono talmente scarse che mi perdo persino nei dialoghi: mi sfuggono i meccanismi di base, figurarsi tutti i sottintesi. Però, del primo Wall Street era chiara una cosa, qualunque cosa facessero le azioni Blu Star o l’acciaio-non-ricordo-che: c’erano due sistemi di valori, ed entrambi rappresentavano l’America. da un lato, Martin Sheen e la cultura operaia del fare, del lavoro di squadra, dell’onestà e dell’attaccamento fisico al posto di lavoro, al “pezzo” finale della catena produttiva. Dall’altra, gli squali alla Gordon Gekko, la cui professione è un gioco di strategia in cui non importa creare valore, ma solo ricavare un utile personale. Insomma, per usare una metafora calcistica, Lucarelli contro Ibrahimovic. Al giovane Bud Fox (Charlie Sheen), la scelta tra l’onestà e la ricchezza (divisione manichea ma efficace). Evidentemente, per Oliver Stone, uno dei due sistemi era preferibile all’altro. In questo sequel, Stone mischia le carte: oggi, la situazione è diversa, la speculazione è alla portata di tutti, dall’ex-infermiera che si arricchisce (senza aver talento) nella compravendita di piccoli immobili, al vecchio squalo resuscitato come Gekko. Anche la rovina completa però lo è: il crollo delle borse ed il fallimento delle banche hanno volatilizzato una quantità di soldi inimmaginabile. Chi ha le spalle larghe, cade in piedi, chi non le ha, va giù di faccia, e se lo merita anche. Il cameo di Charlie Sheen conferma tale tesi, ma getta una luce sinistra sul personaggio che nel primo film aveva fatto una scelta giusta. Forse è solo un omaggio ai fan, forse no, è il momento del film che mi ha più colpito.
Tutto ciò è fortemente intrecciato con le vicende personali di Gordon Gekko, che, uscito di prigione, cerca vendetta contro chi lo ha incastrato e una pacificazione con la figlia, entrambe le cose attraverso il giovane pirla Shia Leboeuf. Non si capisce se Stone, a corto di idee, abbia voluto cavalcare l’onda lunga dei remake/sequel – affidandosi non a caso al resuscitamorti di professione Leboeuf, reduce da Indiana Jones 4 e Transformers – o avesse davvero in mente un’idea. L’idea – azzardo – è che la situazione economica attuale viene raccontata da tre punti di vista diversi: quello dello speculatore in ascesa, quello dello speculatore all’apice, quello dello speculatore in risalita dopo una batosta. Shia Leboeuf, Josh Brolin e Micheal Douglas sono lo stesso personaggio, solo in situazioni differenti, tutti umani ed amorali allo stesso modo, senza più distinzioni nette. Questo però fa anche sì che, da parte del pubblico, non ci sia molta affezione nei confronti di nessuno, a meno di non appassionarsi al dramma di Carey Mulligan, figlia di Gekko, che non vuole più vedere, e promessa sposa del geriatra Leboeuf – che, ovviamente, è un Gekko in nuce, ancora (per poco) nella fase idealistica della vita. Il punto è che Stone non si decide mai in maniera risoluta tra la storia personale di Gekko, come se lo dovesse ai fan, e un’analisi critica del mondo dell’alta finanza vent’anni dopo Wall Street.
L'unico graffio Stone lo riserva alla "bolla" dell'energia rinnovabile: a fronte di qualche pioniere e qualche idealista, una volta entrato a Wall Street qualunque progetto diventa una cifra, qualunque idea che funzioni è una bolla che viene gonfiata finchè rende, poi abbandonata un attimo prima che scoppi (se sei bravo). Non c'è -suggerisce il film - alcuna speranza che chi tira i fili si interessi davvero del bene comune.
Il risultato pertanto è incerto, e la recitazione così così: Douglas va a memoria, Carey Mulligan è una smorfiosetta insopportabile, Shia Leboeuf funziona con i Transformers, ma con gli attori veri è un’altra cosa. La regia ammicca agli anni ottanta, ma senza guizzi particolari, anche nelle invenzioni più originali, è un film di Oliver Stone nel bene e nel male. D’altro canto, se l’obiettivo di Oliver Stone è fotografare l’America da tutte le angolazioni, Wall Street – Il denaro non dorme mai è anche la fotografia di una scuola di cinema che non riesce più a sfornare prodotti del tutto convincenti che non siano di puro intrattenimento, piegata drammaticamente all’equazione ricavi = guadagno – spesa, di cui non si può tollerare un risultato inferiore alle attese neanche per i lavori dei registi più importanti.
Oliver Stone ci suggerisce che non è il caso di rischiare, meglio dar valore a quello che si sa fare bene. E ne è talmente convinto che dà l'esempio rifacendo un film che aveva già fatto (ma un po' meglio).
E' la mancanza di coraggio, non la forza dei personaggi, a far tornare gli studios su concept già sfruttati (e anche già morti e sepolti). Gordon Gekko è un altro barile di cui hanno raschiato il fondo, senza interessarsi molto della qualità. Se si deve adeguare Oliver Stone, figuriamoci noi.
P.S. Caro Oliver, non esiste che mi metti Sympathy for the Devil nel trailer e poi non me la fai sentire in più di due ore di film, mettendo tutte quelle chitarrine acustiche. Non si fa così.