martedì 7 giugno 2011

Paul

“I’m an alien, I’m a little alien, I’m an Englishman in New York”

Alla domanda “Cos’è la fantascienza?” George Lucas ha sottolineato le questioni morali e filosofiche che si devono esplorare con questo genere, Steven Spielberg ha risposto parlando della libertà creativa che è ammessa quando si possono abbandonare alcuni limiti imposti dalla attuale conoscenza scientifica, James Cameron ha parlato della capacità della fantascienza di evidenziare alcuni aspetti dell’attualità che possono essere individuati meglio una volta portati fuori dal contesto dell’attualità.

La verità è al centro di un ipotetico triangolo composto da queste tre risposte (forse solo Asimov, Dick e Wells avrebbero maggiore autorità per rispondere, e credo che le loro definizioni non sarebbero state molto differenti). Privata di questi tre elementi, infatti, della fantascienza non resta che un guscio vuoto e questo in fondo è il problema di molti blockbuster che fanno finta di essere fantascienza ma sono solo action movie con astronavi (tipo Transformers o Independence Day, per capirci). Paul di Greg Mottola (Adventureland) soffre di questo problema, essendo una commedia sulla fantascienza che pretende di essere un film di fantascienza in chiave umoristica. Mancando sia fantasia, sia approfondimento filosofico sia analisi dell’attualità – a meno di considerare l’universo nerd un fenomeno da scoprire – è evidente che l’aspirazione è fuori luogo.

L’idea di fondo non è neanche male: Paul, l’alieno, precipita sulla terra nel 1947 (ma non a Roswell) e per sessant’anni collabora con il governo americano alla diffusione dell’idea che gli alieni forse ci sono. Ecco perché somiglia allo stereotipo dell’alieno basso e col capoccione e i suoi poteri sono simili a quelli di E.T. (il cameo di Spielberg è decisamente la scena migliore del film). Dal canto suo, Paul assorbe il peggio della cultura americana: fuma, parla in maniera sboccata (Seth Rogen nell’originale, un pessimo Elio in Italia), va in giro in infradito e ingurgita schifezze assortite. Fuggito dalla base dell’esercito prima di essere ucciso, Paul incontra due super nerd inglesi (Nick Frost e Simon Pegg) che, dopo un primo, comprensibile, attimo di panico, decidono di aiutarlo a fuggire, mettendosi contro gli uomini in nero e chi più ne ha più ne metta, come nei migliori film di inseguimenti nei deserti americani.

Peccato non aver approfondito un pochino la parte sulla vita di Paul prima dell’incontro con i due sfigatoni, perché tutto procede secondo copione (nel senso di uno che copia sempre) senza mai un’intuizione sorprendente o da ricordare, se si escludono gli innumerevoli riuscitissimi (e mai gratuiti, va detto) omaggi a Star Wars e a Spielberg. Astenersi profani e miscredenti.

Poco tempo fa qualcuno mi chiedeva (un po’ perplessa) per quale motivo ritenessi non aver visto Star Wars una lacuna culturale piuttosto grave e non facessi neanche finta di minimizzare per la buona creanza di facciata che si tiene quando non si conosce bene una persona (“ah, beh, no sai, Gigi D’Alessio non è il mio genere” invece di “Ascolti quella merda di Gigi D’Alessio? Allora non capisci veramente un cazzo di musica. Sarai pure gnocca, ma sei proprio demente” ). Paul, in parte risponde alla domanda: oggi non aver visto Star Wars significa non avere uno dei riferimenti principali della cultura del ventesimo secolo, nel campo del cinema e dell’intrattenimento. Per carità: si vive anche senza sapere chi è Picasso, figuriamoci George Lucas. Ma se lo sai, beh, è tutta un’altra cosa. Film come Paul non esisterebbero senza i film di Lucas e Spielberg, che hanno riportato la leggerezza nel cinema americano dopo gli anni settanta e hanno inciso sulla fantasia di generazioni di spettatori (e futuri artisti) proprio come moderna mitologia, trascendendo diversità culturali, generazionali ed etniche.

L’eccessiva autoreferenzialità e la banalità di Paul lo rendono un prodotto minore, quasi un fan movie ad alto budget, ma in fondo sto pensando che se inglesi e americani non si capiranno mai del tutto, e discutere con quei mattacchioni dei creazionisti è tempo perso è perché continuamente vediamo ciò che ci divide dal prossimo prima di quello che ci potrebbe unire. Il miracolo di Star Wars, o di E.T., dunque, è stato innanzitutto quello di essere un terreno emotivo comune, un punto di riferimento costante nel tempo e nello spazio che ci riporta allo stupore ed all’emozione dell’infanzia anche se li abbiamo visti a trent’anni per la prima volta, e ad una comunicazione che travalica gli ostacoli culturali, ad un’innocenza che è necessario proteggere ed, ogni tanto, tirare fuori. Paul, in un modo o nell’altro, racconta una cosa così.

PS non so quale telegiornale l’abbia spacciato per tale, ma Paul non è un film per bambini: la sala era piena di decenni entusiasti per un film che contiene una volgarità ogni quattro parole e quasi sempre a sfondo sessuale. Complimenti ai genitori, ci metteranno settimane per far smettere i figli di chiamarsi reciprocamente “palle aliene”.




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