domenica 2 ottobre 2011
Not In Not In Kansas anymore (again)
Fedeli ed infedeli lettori di questo blog,
il progresso tecnologico incalza e Not In Kansas cerca di stare al passo.
Ci trasferiamo ad un altro indirizzo, con tutti i nostri pregi e difetti e - stavolta -con tutti i contenuti pubblicati finora.
Il nuovo indirizzo è : notinkansasblog.wordpress.com
C'è un motivo: grazie a Wordpress, Not In Kansas può essere letto su iPhone e iPad in maniera ottimale, con due visualizzazioni pensate ad hoc per i dispositivi mobili e le loro caratteristiche.
In pratica, connettendovi all'indirizzo qui sopra da uno dei due dispositivi, verrà caricata una visualizzazione esclusiva, diversa da quella che si vede da pc fisso.
Non solo, Not In Kansas può diventare a tutti gli effetti una app del vostro melafonino o tablet: è sufficiente cliccare sul tasto dei preferiti e selezionare "Aggiungi a Home", per avere un'icona di Not In Kansas accanto a quella di Angry Birds...
Ecco un'idea di come si vede il blog su iPad...
Bello eh???
Ci vediamo su Wordpress!!!
venerdì 30 settembre 2011
Blood Story
A volte ritornano. Il remake dello splendido Let The Right One In (Lasciami entrare) era stato presentato in pompa magna al festival di Roma dell'anno scorso : Let Me In, a parte mettere in mostra una Chloe Moretz spettacolare come sempre, confermava soltanto che Matt Reeves, già responsabile del pessimo Cloverfield, non è proprio sulla strada per scrivere la storia del cinema. Insulso, banale, svuotato: Let Me In...scusate, BLOOD STORY (complimenti vivissimi per questo cambio di titolo) non ha niente del suo predecessore svedese. Matt Reeves l'anno scorso ci teneva a sottolineare che il film non è un remake, perchè il materiale di partenza è stato il libro. A me riprendere scena per scena un film europeo e metterci dentro attori americani pare o un plagio o, se vogliamo essere buoni, un remake. Fate voi. Purtroppo, neanche la ricostruzione pedissequa della messa in scen del film di Tomas Alfredson consente alla versione americana di non scadere nel noioso e di scivolare nel discutibile trend vampiresco che ci sta tritando le palle da qualche anno. Lasciate perdere le dichiarazioni di Stephen King, che pure quelle gliele scrive qualcun altro, se volete vedere un bel film, andate ad affittare Lasciami Entrare e godetevelo in casa. Blood Story non vale niente, soprattutto con quel titolo. Così scrivevo nel 2009 di Lasciami Entrare, su una pagina ormai perduta :
Il 2008 è stato l’anno del vampiro. Prima sono arrivati i vampiri più stupidi e insopportabili della storia (dov’è Fracchia col suo ombrello di frassino quando serve?) a rinverdire il mito del succhiasangue, in Twilight e purtroppo ce li sorbiremo almeno per altri due film. Faceva più paura Aldo in quel corto del Conte Dracula terrone. Poi, ma in maniera credo casuale, questo film. E’ vero, ormai non è più tempo per Transilvanie e mantelli, vergini con ampie finestre (aperte) da cui entrare e trasformazioni in pipistrello, così dalla Svezia arrivano i vampiri del ventunesimo secolo, nelle forme innocenti di una bambina di dodici anni (“ho dodici anni, ma li ho da tanto tempo”) costretta ad uccidere per sopravvivere.
Nessuna spettacolarizzazione, nessuna concessione ai facili spargimenti di sangue. “Lasciami Entrare” non è un horror, non ci piove, nonostante la campagna pubblicitaria. E’ uno di quei film difficilmente incasellabili in un unico genere. In una svezia senza tempo (anni settanta?), senza colori, senza orizzonti, Oskar vive l’infanzia del futuro serial killer: vive solo con la madre in un posto sperduto e isolato, è vessato dai suoi compagni di scuola che sogna di accoltellare, ritaglia articoli di giornale su crimini efferati. Destino segnato. Finchè non conosce Eli, una bambina altrettanto sola che si trasferisce nell’appartamento accanto al suo con un strano individuo che la aiuta a procacciarsi sangue umano.
L’incontro tra due mondi di solitudine da cui non si può scappare genera sempre un legame molto forte, e questo è il tema del film, o almeno quello che mi ha lasciato. Gli sviluppi della trama sono abbastanza prevedibili, come il destino di Oskar quando si capisce il rapporto tra Eli e il suo accompagnatore. Non si sfugge al destino, nè all’amore, soprattutto a quello innocente di due bambini di dodici anni. Le altre coppie che si vedono nel film sono i genitori separati di Oskar e due compaesani piuttosto tristi. La forza dell’amore è un pò debole, in mezzo a tutta quella neve, il gelo regna anche tra i rapporti umani. Per questo l’attrazione tra Oskar e Eli è fatale, anche se la prima parte del film ci rivela quale destino aspetta i due: come per Oskar sembra impossibile fuggire da uno spazio sempre uguale a se stesso, per Eli è il tempo ad essere fermo e circolare, la storia deve ripetersi.
Insomma, Lasciami Entrare tutto sembra tranne che un film horror convenzionale o l’ennesima variazione sul tema. L’orrore c’è, ma è nella solitudine e nell’ineluttabilità, dei rapporti che comunque si fondano sulla reciproca necessità e che si consumano, metaforicamente, come quello di Eli e dell’uomo con cui arriva. Il mostro è costretto ad uccidere ma non è quello il suo lato mostruoso, alla fine prevale il bisogno della sopravvivenza, e non c’è bisogno di essere vampiri perchè sia vero.
P.S. A volte ritornano, infatti il 14 ottobre esce I Want To Be A Soldier, prodotto da Valeria Marini ed anch'esso nel limbo dal festival di Roma dell'anno scorso. In confronto Blood Story è Il Settimo Sigillo. Io vi ho avvisato.
martedì 27 settembre 2011
La Pelle Che Abito
La prova del fatto (se ce ne fosse ancora bisogno) che Almodovar sia un maestro assoluto dell'arte cinematografica è il trailer de La Pelle che Abito, uno dei più brutti mai visti nella Via Lattea. Dal font utilizzato alla fotografia, alla colonna sonora, alle immagini, se non fosse per la presenza di Antonio Banderas tutto sembrerebbe un brutto scherzo dilettantesco. La visione del film rimette a posto ciascuno degli elementi mischiati in maniera indegna per la pubblicità: melodramma, horror, fantascienza, romanticismo, violenza, un mix di ingredienti pronti a deflagrare nelle mani di chiunque, eccezion fatta per Almodovar, che trova un equilibrio perfetto per una storia sulla follia che fa paura per la freddezza che emanano i personaggi nel compiere le loro azioni. L'eleganza usata in passato dal regista spagnolo per dare dignità ai carrozzoni di personaggi allegramente grotteschi diventa distanza difficilmente colmabile con l'universo grottesco sì, ma in senso deteriore, in cui si muovono i vari personaggi di questo film, negativi ma irresistibilmente affascinanti.
La passionalità, l'ambiguità sessuale, la famiglia, temi certamente tra i più cari ad Almodovar sono distorti dalle atmosfere nere della storia di Robert (Antonio Banderas), chirurgo plastico dedito ad una ricerca sulla pelle che travalica, per scopi e mezzi, i limiti della bioetica. Mentre si scoprono i dettagli del passato di Robert, con una efficace narrazione non lineare, tutta la sua lucida follia emerge fino alle drammatiche conseguenze.
Se conoscessi bene il cinema di Pedro Almodovar, potrei scrivere di questo film facendo colti rimandi alla filmografia del regista spagnolo. Invece, nonostante i pochi film che ho visto mi siano piaciuti tutti moltissimo, ancora non ho approfondito a dovere. Non serve l'esegesi della filmografia di Almodovar per affermare comunque che La pelle che abito è un film originale e disturbante, una favola nerissima con un lieto fine al contrario, che spiazza lo spettatore sovvertendo più volte i ruoli della vittima e del carnefice, fino a non saper bene dalla parte di chi stare...il comune denominatore dei personaggi principali sembra essere l'ambiguità morale, oltre alla tragicità del destino.
Invece di raccontare un mondo ai confini delle convenzioni sociali - come tante volte in passato - ed esplorarne situazioni e personalità, Almodovar sceglie una sorta di universo parallelo, in cui a sfumare sono invece i limiti etici della coscienza dei personaggi, che non trovano salvezza nemmeno nel momentaneo sollievo che le canzoni popolari riuscivano a dare in altre occasioni: anzi, stavolta l'unico momento musicale è utilizzato come mezzo per risvegliare un trauma nel momento decisivo della storia.
La Pelle che Abito segna anche la riunione per una coppia, Almodovar/Banderas, che si prometteva un ultimo ballo da tanti anni. La sinergia tra i due è notevole, pari a quelle delle storiche coppie americane tipo Scorsese / De Niro o Hitchcock / Cary Grant. Banderas - senza dimenticare le meravigliose Blanca Suarez, Marisa Paredes e Elena Anaya, affascina tramite il terrore che incute: controllato e distante, ha negli occhi la scintilla della follia omicida ed incarna la tensione tra luce ed ombra che il film racconta.
Si esce provati, contenti, impauriti. Non sollevati.
Etichette:
Almodovar,
La Pelle che Abito
lunedì 26 settembre 2011
Carnage
"Polanski, e fatti arrestare" (mio fratello, settimana scorsa)
Era necessario l'ennesimo film sull'ipocrisia borghese che viene smascherata non appena una situazione fuori dall'ordinario ne incrina la sfavillante patina, ad esempio con una bella vomitata in casa altrui?
Mah, secondo me, no.
Sarà che Polanski non mi convince mai del tutto. Sarà che riportare al cinema una piece teatrale molto parlata è sempre un'arma a doppio taglio, anche se poi scegli attori bravissimi.
Sarà che Carnage parte molto bene e costruisce un quadrilatero di tensioni in cui gli attori, finchè devono mordere il freno, riescono magnificamente a coinvolgere lo spettatore nella loro farsa borghese, ma quando si arriva al dunque (o meglio, quando si dovrebbe) la tensione si sgretola, il film si allunga oltremodo in dialoghi pretestuosi e che girano a vuoto, e l'espediente dell'alcool toglie definitivamente forza all'ultimo, inconcludente, atto. Inoltre,Kate Winslet e, soprattutto, Jodie Foster (non aiutate affatto dal doppiaggio) nell'ultima parte del film mostrano evidenti limiti nel cambiare registro e restare credibili.
Un discorso a parte va fatto per Christoph Waltz, ma ormai la sua bravura non è più una sorpresa, mentre John C.Reilly sembra un po' fuori ruolo e la chimica con gli altri tre attori non sembra ottima.
Il problema è che Polanski, di suo, non ci mette niente: piazza la macchina da presa in faccia a chi deve recitare la battuta e via. Un po' poco per un film ambientato in una stanza, altrimenti qual è il valore aggiunto rispetto all'opera teatrale? Restano alcuni momenti divertenti (le situazioni imbarazzanti si sprecano e si gode delle disgrazie altrui, fondamentalmente), ma quando le cose si fanno serie prevale la noia perchè si percepisce la finzione (mi ripeto, il doppiaggio non aiuta) a causa dei voli pindarici che portano una discussione sui figli fino al Darfur e a condividere con due perfetti estranei, anche piuttosto ostili, la propria frustazione coniugale: se la cornice del palcoscenico limita il luogo della scena in maniera diversa e favorisce l'illusione della necessità di tali interazioni, in un film, non può bastare essere chiusi in un luminoso salotto per giustificare questa evoluzione nei rapporti tra i protagonisti.
Provaci ancora Roman, solo che a me non me freghi più (ancora non ti ho perdonato Ghost Writer).
mercoledì 21 settembre 2011
L'Alba Del Pianeta Delle Scimmie
Ingredienti della Caesar Salad: insalata, olio, sale, aglio, pepe, parmigiano, crostini fritti, salsa Worchestershire. Pollo opzionale, ma gradito. E’ la cosa più sana che si possa mangiare ad ovest di New York. Anche al cinema.
Che c’entra col Pianeta delle Scimmie? C’entra. Primo perché lo scimpanzé protagonista si chiama proprio Caesar, secondo perché ho visto il film seduto in mezzo a dei messicani ruminanti che si sono alzati quattro volte per fare il refill di coca e che –giuro – si sono presentati in sala con l’insalata di pollo (la Caesar, appunto): ho realmente sperato che un gorilla irrompesse in sala e li strangolasse nella loro stessa cena da asporto, il mio livello di tolleranza già messo alla prova da una giornata a Disney World passata ad essere rallentato ed infastidito da brigate di portoricani e messicani, i primi organizzati secondo una struttura matriarcale ( nonna, almeno tre figlie e almeno tre nipoti per figlia, età media della nonna: 40 anni, mariti assenti o in prigione, chi lo sa, capacità rara di farsi le foto nei posti più assurdi zoomando all’inverosimile così da escludere qualunque dettaglio al di fuori del primo piano…e che te la fai a fare la foto in posa allora?) i secondi in famiglie numerose di almeno quindici individui tutti obesi e sempre con qualcosa in mano da masticare. E nessuno capace di percepire l’utilità del Fast Pass, ovvero l’equivalente del pollice opponibile in un parco a tema. E tu, ragazzina obesa e pelosa con le braccia corte, falla finita di cercare di toccare le cose in 3D sbracciandoti ed urlando come un’indemoniata. SONO FINTE. Non è che non ci arrivi per le braccia corte, non ci arrivi perché E’ UN’ ILLUSIONE OTTICA, perdiana. Quante volte lo devi fare prima di capirlo? ma torniamo alle scimmie. Digitali.
Il riavvio, vecchio trucco d’emergenza degli informatici, per stavolta, ha funzionato. Dimenticando il capolavoro del 1968 con Charlton Heston (nonostante alcuni dovuti omaggi ed un “gancio” pressoché ininfluente), questo è il primo capitolo di una nuova storia e come tale va giudicato.
Contrariamente alle mie pessimistiche previsioni, infatti, L’Alba del Pianeta delle Scimmie di Rupert Wyatt è praticamente autoconsistente ed estremamente godibile. La storia è quella di Caesar (Andy Serkis), scimpanzé orfano super intelligente cresciuto in casa da Will Rodman (James Franco), scienziato spericolato che testa sugli scimpanzé una cura per l’Alzheimer per salvare suo padre (John Lithgow), con un virus che ha come effetto collaterale l’accrescimento dell’intelligenza dei primati sottoposti agli esperimenti – di una dei quali Caesar è appunto la progenie.
Dopo un incidente con un vicino molesto, Will deve rinchiudere Caesar, spaventato e sofferente nel capire di essere visto nel migliore dei casi come un animale domestico e nel peggiore come un mostro, in uno zoo prigione, dove, novello Clint Eastwood, architetta la fuga e guida la rivolta delle scimmie recluse contro i guardiani bastardi (Brian Cox e Tom Felton), e la razza umana. Senza aver conosciuto neanche un messicano in vita sua.
(Idea per un sequel, prendete nota: i rapporti tra scimmie e uomini degenerano fino alle armi nucleari quando Caesar, al bar, chiede un tramezzo prosciutto e formaggio – fuori menu - al cameriere messicano. …C’avete mai provato voi?)
Scherzi a parte, la rischiosa scommessa - per me, vinta - dell’autore è quella di incentrare un intero film sul dramma interiore di un personaggio digitale, non umano e che con gli umani si scontrerà duramente, mettendo al centro del film la sua condizione di escluso da due mondi ed il suo percorso di liberazione. Storia trita e ritrita, ma qui l’empatia coglie di sorpresa: la performance di Andy Serkis in motion capture è il cuore del film ed il dolore di Caesar è la cosa più reale e toccante, nonostante l’evidente e non sempre fluida manipolazione digitale. Se nel breve ma intenso climax finale vi ritroverete a parteggiare per le scimmie invece che per gli uomini il merito è tutto della prova dell’attore inglese che già ci aveva regalato un sontuoso Gollum.
A James Franco va riconosciuta la capacità di dare profondità ad un personaggio secondario e monodimensionale in maniera eccezionale (in teoria il suo ruolo è quello del protagonista umano, ma ben presto la figura di Caesar diviene predominante), come già dimostrato nella saga di Spider-Man, mentre Freida Pinto è una triste decorazione non necessaria, palesemente inserita a forza per conquistare qualche copertina di magazine rosa. Tutti i personaggi umani sono, a conti fatti, stereotipi da film di fantascienza di serie B, salvati solo da decorose interpretazioni: lo scienziato con il complesso di Dio che la fa grossa (due volte), il capo senza scrupoli, la bella utile come una suppellettile, il cattivo ottuso che scatena il conflitto. C’è anche Draco Malfoy che fa la fine che Harry Potter gli doveva far fare fin dalla prima elementare. Non mancano neppure i luoghi comuni dei film a tema carcerario tipo Sorvegliato Speciale: il protagonista innocente che si deve far furbo sennò gli fanno lo scherzo della saponetta, il capo della prigione che sembra buono ma è una merda, il capo delle guardie cattivissimo e con la faccia da cazzo, il prigioniero amichevole, quello grosso ma buono, quello che mena tutti e che va rimesso in riga.
Il titolo del film e, in parte, il trailer potrebbero trarre in inganno: questa non è la storia della guerra tra scimmie e uomini (nonostante tutto il casino che riescono a fare, le scimmie coinvolte alla fine sono circa una trentina, un po’ poche per sottomettere il genere umano –a parte il Messico - o anche solo per suggerire che sarà una conseguenza logica di quanto avviene nel film). Va bene così: quella storia già la conosciamo, era giusto raccontare qualcos’altro invece di aggiornare solo gli effetti speciali ( cosa che peraltro aveva già fatto Tim Burton col suo remake inguardabile). Manca – perché la ramanzina sul delirio di onnipotenza non la considero proprio – una riflessione sul rapporto dell’uomo con se stesso, che è il vero nocciolo di tutte le grandi storie di fantascienza, ma tale mancanza è compensata sul piano emotivo e narrativo, con un paio di scene davvero toccanti, e per stavolta alla FOX gliela passiamo. Fino al sequel che affonderà la saga di nuovo.
In conclusione: Ogni epoca ha la fantascienza che si merita, a noi tocca quella dei concept riciclati, della computer graphic, delle storie senza significato, dei brand. I binari su cui gli studio fanno correre oggi queste baracconate che chiamano film sono tali che il risultato risulti quasi sempre scoraggiante ed irritante, perciò un film come L’Alba del Pianeta delle Scimmie è il famoso uomo con un occhio solo nel regno dei ciechi (che giustamente non sa che farsene degli occhiali 3D), se non altro per esser riuscito dove aveva fallito Avatar, ovvero dare umanità ad una creatura mo-cap al punto da suscitare empatia.
P.S: Non voglio passare per razzista: il Fast Pass era sconosciuto anche a molti biondi ed atletici (si fa per dire) WASP americani. E per la cronaca, gli unici italiani incontrati hanno saltato la fila e progettavano di fregarsi gli occhialetti 3D, e mi hanno dato fastidio più di tutto il centroamerica messo insieme. Ah, erano del nord. Poi sono i romani e i napoletani...
lunedì 19 settembre 2011
Crazy Stupid Love
Eppur si muove. Un’ impercettibile variazione nella struttura – che il titolo proprio non suggerisce – ed una commedia romantica americana cerca –con discreto successo - di ammodernare un genere che ci ha ripetuto la solfa di Harry ti presento Sally troppe volte. Tra l’altro, vedendo Insonnia d’Amore l’altra sera, ho notato che Meg Ryan è un’attrice mediocre tanto quanto Jennifer Aniston. Non sarà che sono gli interpreti maschili a rovinare le commedie dei giorni nostri? I vari Adam Sandler e Matthew McComeCazzoSiScrive? Mah.
Insomma, nessuna scena di rincorsa all’aeroporto, nessuna dichiarazione d’amore sperticata e disperata di quelle che poi la tua ragazza ti guarda schifato perchè tu neanche un biglietto d’auguri, nessun lieto fine scontato. Crazy Stupid Love, finalmente, porta la commedia romantica nel ventunesimo secolo, vedremo quanto questo esperimento avrà un seguito. La storia che Steve Carell (anche produttore) si ritaglia addosso parla, con misurata leggerezza, di una crisi matrimoniale crudele e forse insanabile, tra due persone (Carell e Julianne Moore) che stanno insieme dai tempi del liceo.
Alla vicenda principale si aggiungono la vicenda più “classica” che contribuisce al lancio in serie A di Emma Stone e Ryan Gosling –e che cede a qualche luogo comune tipo l’amica saccente e etnicamente politically (un)correct, mai che sia la wasp quella che non tromba – ed il drammone adolescenziale del tredicenne (figlio della coppia in crisi) innamorato senza speranza della baby sitter diciassettenne della sorellina.
Le tre vicende, strettamente interconnesse, servono a descrivere i tormenti dell’amore in tre fasi diverse della vita (illusione, decisione, disillusione), senza mai il tono consolatorio che ci si attende da questi film: in più di un’occasione infatti, il personaggio di Steve Carell indentifica nella moglie che lo ha cornificato la propria anima gemella, suggerendo quasi che questo non basti poi nella vita a restare insieme. Almeno, a vederla così il film offre qualche spunto intelligente. Certo, non è Woody Allen, ma è superiore alla media, soprattutto grazie al livello del cast ( ci sono anche Kevin Bacon e Marisa Tomei in piccoli, decisivi ruoli).
Il lato comico è offerto dalla bravura straordinaria di Carell nel trovare, talvolta solo con lo sguardo, un taglio ironico ad una vicenda che di divertente non ha nulla (un uomo di mezza età lasciato dall’amore della sua vita che cerca di ricominciare rimorchiando nei bar al seguito di un playboy più giovane) e dagli incroci narrativi – in verità a volte un po’ forzati : se il film ha un difetto è infatti l'eccessiva insistenza nel legare a doppio filo tutti i personaggi coinvolti per esasperare l'effetto comico derivante dallo svelamento (funziona la prima volta, la seconda no), a scapito del realismo e della fluidità. Un esempio: la lunga, bella, scena tra Ryan Gosling ed Emma Stone (perfettamente lecita alla luce del colpo di scena di qualche minuto dopo) ha l'effetto di infastidire leggermente lo spettatore fino a quel momento concentrato sulla vicenda principale del personaggio di Carell, che viene accantonato sul più bello. La semplice rinuncia al colpo di scena, tra l'altro prevedibile, avrebbe sicuramente aiutato la coerenza del film, senza impatti sulla trama. D'altro canto, evitare la struttura ad episodi legando i personaggi consente anche di ammorbidire il lato pretenziosamente didascalico di molti film del genere.
Non sto neanche a cercare il nome del regista su wikipedia: non ci sono grandi spunti ed il ritmo, appunto, non è dei migliori (anche una durata inferiore avrebbe aiutato). I presupposti però ci sono e si vede che non c'è mai la tendenza a prendere la scorciatoia verso l'happy ending. Ca Suffit (?).
Etichette:
Emma Stone,
Julianne Moore,
Ryan Gosling,
Steve Carell
venerdì 16 settembre 2011
I Puffi (3D)
Noi film di adesso siamo così, due palle e poco più
Cose strane dei Puffi: non invecchiano (allora Grande Puffo?), non si riproducono, hanno caratteri basati prevalentemente su difetti ma vivono in armonia, sono tutti single e tutti contenti (ma questo mi sa che deriva dal fatto che non si riproducono), non ce ne sono due con lo stesso carattere (e sono oltre cento, secondo il censimento ufficiale), tutti quelli nati naturalmente sono maschi (Puffetta è stata creata in laboratorio da Gargamella per seminare zizzania, usando la costola di un Puffo maschio…mi ricorda qualcosa…), sono blu.
Il punto di blu è uno dei problemi di questi Puffi tridimensionali. La terza dimensione (non quella del 3D, quella di qualunque cosa che non sia un cartone animato) è un altro. Insomma, questi Puffi cinematografici, così, a prima vista, sono un po’ più inquietanti di quelli che guardavamo – chissà perché - inebetiti vent’anni fa in televisione, forse ipnotizzati dalla cantilena intollerabile che accompagna tutte le loro attività. Però, fatta l’abitudine a questa loro nuova incarnazione, risultano comunque simpatici.
Trama: alcuni Puffi finiscono a New York, inseguiti da Gargamella e Birba. Sì, è tutto qui.
Il film dei Puffi non è un brutto film, intendiamoci. Solo mi chiedo a chi sia realmente indirizzato: a dei bambini, certamente, e allora che senso ha tutta la storia costruita su una coppia di New York in attesa del primogenito che si trova coinvolta nel tentativo dei Puffi di tornare al villaggio dei Puffi e aiutando tali Puffi ritrovano la perduta armonia che per colpa dello stress li stava eccetera eccetera? Ma che gliene frega ai seienni di Sofia Vergara che dirige una ditta di cosmetici e vessa i suoi poveri dipendenti tra cui il sopracitato futuro padre? Di contro, ma che gliene frega ai non seienni di Sofia Vergara accollatissima perché è pur sempre un film dei Puffi? Che sia un film da femmine?
Non era meglio un film ambientato nella dimensione dei Puffi, al villaggio dei Puffi? O che prevedesse dei bambini newyorkesi invece che degli adulti con problemi da adulti? Le cose sono due: sono previsti seguiti, dunque il pargolo in arrivo potrebbe essere un futuro amico dei Puffi che magari va in visita al villaggio dei Puffi. Oppure, la storia a contorno serve da contentino per le mamme che possono almeno vedere una storia di adulti con problemi da adulti, più alcuni, inevitabili, Puffi. Per gli sventurati papà al seguito, quel che resta (scoperto) della Vergara, che comunque è un gran pezzo di Puffa pure vestita.
Alla fine, le scene migliori sono quelle iniziali, completamente in CG, al Villaggio dei Puffi, dove si intravedono tutti i Puffi “storici”, prima che la storia si sposti a NY e si concentri – intelligentemente - sul manipolo di Puffi in vacanza nella Grande Mela (Grande Puffo, Quattrocchi, Puffetta, un puffo Scozzese chiamato “Gutsy” fatto apposta per il film, il puffo che si lamenta di tutto e Clumsy, il puffo maldestro che non ricordo come si chiama in italiano). Hank Azaria, da grande caratterista, è un Gargamella perfetto, ma funziona proprio poco fuori dalla sua ambientazione classica. A salvare la baracca ci pensa un ottimo Neal Patrick Harris, a suo agio anche in un ruolo completamente diverso da quello che gli ha dato il successo in How I Met Your Mother e a recitare evidentemente di fronte a due mele e poco più sostituite poi in postproduzione dai Puffi digitali.
Il film dei Puffi non è un capolavoro ma neanche brutto. Solo: è proprio possibile che persino i Puffi, icone pop del ventesimo secolo, universalmente famosi perché semplicemente bidimensionali e bicromatici, per avere un posto al sole nel ventunesimo secolo, debbano aggiungersi dimensioni, iridi, ombre, sostanza e una vecchia e trita storia con la morale all’americana? Le favole non interessano proprio più a nessuno?
P.S. la costante ripetizione della parola "Puffi " in questo post non è dovuta alla fretta. E' un tentativo di simulare la sensazione di fastidio latente che un'esposizione prolungata ai Puffi, a come parlano e a quanto cantano, provoca negli adulti normali...fatemi sapere se ci sono riuscito....
Etichette:
3D,
animazione,
Hank Azaria,
I Puffi,
Neal Patrick Harris
mercoledì 14 settembre 2011
Contagion
Un virus letale si diffonde incontrollato nella sala cinematografica. Le gole si bloccano, non si sentono più commenti fuori luogo. Il sistema nervoso va in tilt, e i calci alla schiena sono un lontano ricordo. Le lingue si gonfiano, e finiscono quei rumori di cannuccia che aspira in un bicchiere vuoto prima ancora dei trailer. Il virus letale si fa strada fino al cervello, suo obiettivo finale: ma arrivato nel cranio, non trova nulla. Niente materia grigia, niente neuroni, niente. Eco, vuoto, spazio esterno. Il virus muore e l’umanità è salva anche questa volta, nonostante le migliaia di larve umane decerebrate incapaci di intendere e volere (ma qui il virus c’entra poco) e ora anche di offendere (grazie virus). Cazzo, che film sarebbe stato questo.
Invece no: Steven Soderbergh si cimenta nel film sull’epidemia, altro genere svuotato da anni, per far vedere che –volendo – lui può fare anche questo, e meglio di tutti gli altri. Il problema è lo stesso di Gabriele Salvatores, in fondo: no, non che Abatantuono gli tromba la moglie, ma che questi due, capaci di applicare il proprio genio a qualunque tipo di stile, non abbiano, in fondo in fondo, un cavolo da dire.
Contagion è un film freddo e bello, sembra una modella che sfila, algida e distante, perfetta e -per questo- molto poco affascinante. Un cast eccezionale ed una trama solida rendono Contagion un ottimo esercizio di stile, ma niente altro: tutto il contenuto è già visto, sentito, ruminato (e le case farmaceutiche, e l’epidemia di paura, e il ruolo di internet, e l’eroica dottoressa, e la Cina onnipresente). Almeno, c'è la soddisfazione della Paltrow (CAGNA) che muore dopo cinque minuti.
Si esce dalla sala con un po’ di timore di respirare la stessa aria di uno sconosciuto che potrebbe aver toccato un pipistrello infetto, ma – vista la gente con cui mi tocca stare al cinema – si dovrebbe preoccupare di più il pipistrello infetto.
P.S. nel ruolo dell'eroico dottore nero, nientepopodimeno che Lawrence Fishburne, in arte Morpheus, che evidentemente s'è magnato tutta Matrix ma ancora non ha fatto il ruttino.
Etichette:
Contagion,
Jude Law,
Matt Damon,
Steven Soderbergh
mercoledì 7 settembre 2011
Cose dell'altro mondo
Cose dell’altro mondo: salito agli onori della cronaca per la polemica tutta leghista (contro un film MEDUSA? Ma mi faccia il piacere....) innescata dalla rappresentazione di un Veneto razzista, intollerante e ignorante. Amici veneti, state tranquilli. Il razzismo e l’ignoranza ormai, per non parlare dell’intolleranza, non sono più una vostra prerogativa. A Roma, per esempio, vi stiamo quasi per surclassare, e partiamo avvantaggiati visto che già ci schifiamo da un quartiere all’altro.
Il film di Francesco Patierno lascia un po’ perplessi, nella sua ingenuità: forse arriva un po’ fuori tempo massimo per ricordarci che gli immigrati sono una forza lavoro indispensabile al paese e che l’inciviltà che imputiamo loro serve solo a nascondere la nostra. Nostra di chi poi, io sono civilissimo. Il Veneto stesso è più un luogo comune che un luogo reale ed è esattamente il posto in cui uno s’immagina ambientata una storia sulla mancanza di integrazione - è una scelta di comodo che toglie forza al film. Ambientiamolo a Napoli un film così, cavolo.
Insomma il concept del film è: che succederebbe se tutti gli immigrati scomparissero dalla notte al giorno senza lasciare tracce? Carino, no? Però il film si perde dietro ai suoi personaggi o forse dietro agli attori, o forse dietro ai capezzoli della Lodovini che escono dal maglione di flanella. Stesso problema di altri film basati su un’idea interessante che serve solo per il trailer (vedi Immaturi, ad esempio).
Così Diego Abatantuono si diverte a fare la versione razzista e ipocrita di se stesso mentre Valerio Mastandrea è ancora l’indolente quarantenne incazzato col mondo (e stavolta armato). Ah, resta la Lodovini che grattuggia le battute inarcando la schiena sperando che uno sposti l’attenzione dal petto all’assenza delle sue proverbiali borse (lifting?) senza curarsi della recitazione.
Tra siparietti simpatici e sottotrame irrisolte o inutili, per tacer di colpi di scena senza senso rispetto ai rapporti tra i personaggi, l’autoindulgenza del film dichiara una resa incondizionata alla vecchia massima “italiani brava gente”. Ho l'impressione che non fosse questa l'intenzione originaria, ma che il livello si sia abbassato strada facendo per sopravvenuta paura di spingere sull'acceleratore.
L’impressione però è che molto di meglio non si potesse comunque fare, neanche osando: gli italiani – la maggior parte, io NO, ripeto – sono così: un po’ Mastandrea, un po’ Abatantuono, l’italia è questa –ahimè – e che sia un film Medusa a ricordarcelo ci fa solo girare ulteriormente le palle, visto che alla fine – e qui sta il limite del film – i personaggi restano uguali a se stessi e tutto cambia ma tutto resta uguale, nessuno impara niente tanto una soluzione si trova anche senza immigrati, come giustamente dice Abatantuono a un certo punto. La regia di Patierno però sembra appoggiarsi sulla mediocrità che racconta e procede senza guizzi, affastellando sottotrame per caricare i personaggi, ma senza un disegno preciso di dove andare a parare. E’ il limite palese di un’idea che sulla carta pareva buona, ma che effettivamente non ha modo di svilupparsi se non per strade già battute, anzi sconfitte, come lasciar campo agli attori e sperare di portare a casa un sei politico.
martedì 6 settembre 2011
Super 8
Ci sono tanti film in Super 8: ci sono i film del passato, a cui chiaramente J.J. Abrams (Lost, Star Trek) si ispira: film anni ottanta per ragazzi, soprattutto, ma anche i recenti disaster movie. C’è il film che i suoi protagonisti girano, persino durante il panico che si scatena in città dopo il misterioso incidente ferroviario che apre il film. C’è il film che racconta la storia di quell’incidente e di come le vite dei protagonisti vengono cambiate. Infine, ci sono i film che spero Super 8 ispirerà, nel breve e medio periodo, se porterà all’inversione di tendenza che auspico da tanto tempo per i film americani.
Speravo da tempo di vedere un un grande film – nel senso di costoso e commerciale, oltre che riuscito – che non fosse costruito intorno alla possibilità di serializzazione, senza 3D e senza grandi nomi infilati dentro a forza solo per aumentare l’età media del pubblico. Il vuoto lasciato da Spielberg quando ha cominciato a fare film impegnati, seriosi e poco fantasiosi (persino ispirati a fatti reali!) è stato riempito male da film sempre più costosi e spettacolari ma sempre meno capaci di emozionare ed ispirare, spesso al centro di operazioni multimediali e commerciali che toglievano di fatto potenza all’esperienza cinematografica.
Pur non rinunciando ad alcuni dei suoi marchi di fabbrica, J.J. Abrams ha realizzato un film teoricamente ancora più anacronistico del meraviglioso Star Trek di due anni fa, citando palesemente lo Spielberg di E.T.: biciclette, alieni, problemi familiari, persino il protagonista Joe è identico ad Elliot. Non credo che Steven se la prenderà a male, visto che è il produttore del film. Non a caso poi il film è ambientato, direi quasi che vi è “dedicato”, negli anni settanta (il walkman è il massimo della tecnologia) e nella provincia americana: coordinate spaziotemporali ideali per un film di misteri e dolori della crescita (vedi I Goonies, Explorers, Navigator…). La passione per un certo tipo di cinema è anche un elemento centrale della trama, è ciò che lega i ragazzi protagonisti, intenti a realizzare un film horror amatoriale, ed in qualche modo li protegge dalle cattiverie della vita (la metafora del mostro misterioso è fin troppo evidente). Super8 è un invito a non avere paura (neanche di scadere nel banale con tali messaggi), a non essere passivi, a tendere sempre la mano, a resistere nei momenti bui, a non perdere mai la speranza.
Anche nei momenti più spettacolari, il punto di vista resta quello dei ragazzi, che non sono mai lontani dal cuore dell’azione e non sono mai trascurati in favore dello spettacolo o per una dimostrazione di effetti speciali: la storia d’amore che nasce timidamente tra i due protagonisti è la più bella e vera che si sia vista in questi anni, in cui un singolo abbraccio vale più di mille baci appassionati, perchè messo nel punto giusto e non strumentalizzato per aumentare l’effetto lacrimogeno. Questo è un film che punta intelligentemente ai cuori e alle menti degli spettatori giovani, ai quali viene offerto tutto il pacchetto: una storia di amicizia, di dolori della crescita, un inno alla creatività, lo spettacolo, le astronavi, i buoni e i cattivi, finalmente personaggi a cui si tiene davvero. Merito anche di un gruppo di attori giovani bravissimi, tra i quali spicca sicuramente Elle Fanning (vista in Somewhere), davvero impressionante, guardatela quando si “trasforma” in zombie, che rappresenta il cuore del film. Gli adulti sono un mondo a parte, non meno spaventosi ed incomprensibili dei fenomeni paranormali e anche questa tematica è un marchio di fabbrica spielberghiano riadattato: mancano le madri, invece dei padri, non è un dettaglio: la mancanza dell’amore materno rende ancora più importanti gli altri legami istintivi, come l’amicizia e l’amore, oltre ad esasperare i conflitti con la figura paterna.
Non sono del tutto soddisfatto, comunque. Ci ho pensato molto e credo che manchino essenzialmente due cose a Super8: una sequenza particolarmente emozionante nel finale, che ci leghi definitivamente al film e che compensi quella del deragliamento all'inizio, e un tema musicale incisivo, tipo il tema di E.T. durante la corsa finale in bicicletta che ti fa venire sempre la pelle d’oca. In più, l’inevitabile confronto tra i bambini e il mostro viene risolto in maniera incerta e le due linee narrative non sono sempre ben amalgamate tra loro. E' come se Abrams si fosse in qualche modo accontentato di aver realizzato un film d'altri tempi, alla ricerca di un effetto nostalgico più che di un rinnovamento nel lessico della cinematografia d'intrattenimento. Considerando tutto quello che c’è, però, non è certo il caso di stare troppo a rompere le palle: non è certo colpa sua se di questi tempi per fare un passo avanti bisogna farne tre indietro .
Speravo da tempo di vedere un un grande film – nel senso di costoso e commerciale, oltre che riuscito – che non fosse costruito intorno alla possibilità di serializzazione, senza 3D e senza grandi nomi infilati dentro a forza solo per aumentare l’età media del pubblico. Il vuoto lasciato da Spielberg quando ha cominciato a fare film impegnati, seriosi e poco fantasiosi (persino ispirati a fatti reali!) è stato riempito male da film sempre più costosi e spettacolari ma sempre meno capaci di emozionare ed ispirare, spesso al centro di operazioni multimediali e commerciali che toglievano di fatto potenza all’esperienza cinematografica.
Pur non rinunciando ad alcuni dei suoi marchi di fabbrica, J.J. Abrams ha realizzato un film teoricamente ancora più anacronistico del meraviglioso Star Trek di due anni fa, citando palesemente lo Spielberg di E.T.: biciclette, alieni, problemi familiari, persino il protagonista Joe è identico ad Elliot. Non credo che Steven se la prenderà a male, visto che è il produttore del film. Non a caso poi il film è ambientato, direi quasi che vi è “dedicato”, negli anni settanta (il walkman è il massimo della tecnologia) e nella provincia americana: coordinate spaziotemporali ideali per un film di misteri e dolori della crescita (vedi I Goonies, Explorers, Navigator…). La passione per un certo tipo di cinema è anche un elemento centrale della trama, è ciò che lega i ragazzi protagonisti, intenti a realizzare un film horror amatoriale, ed in qualche modo li protegge dalle cattiverie della vita (la metafora del mostro misterioso è fin troppo evidente). Super8 è un invito a non avere paura (neanche di scadere nel banale con tali messaggi), a non essere passivi, a tendere sempre la mano, a resistere nei momenti bui, a non perdere mai la speranza.
Anche nei momenti più spettacolari, il punto di vista resta quello dei ragazzi, che non sono mai lontani dal cuore dell’azione e non sono mai trascurati in favore dello spettacolo o per una dimostrazione di effetti speciali: la storia d’amore che nasce timidamente tra i due protagonisti è la più bella e vera che si sia vista in questi anni, in cui un singolo abbraccio vale più di mille baci appassionati, perchè messo nel punto giusto e non strumentalizzato per aumentare l’effetto lacrimogeno. Questo è un film che punta intelligentemente ai cuori e alle menti degli spettatori giovani, ai quali viene offerto tutto il pacchetto: una storia di amicizia, di dolori della crescita, un inno alla creatività, lo spettacolo, le astronavi, i buoni e i cattivi, finalmente personaggi a cui si tiene davvero. Merito anche di un gruppo di attori giovani bravissimi, tra i quali spicca sicuramente Elle Fanning (vista in Somewhere), davvero impressionante, guardatela quando si “trasforma” in zombie, che rappresenta il cuore del film. Gli adulti sono un mondo a parte, non meno spaventosi ed incomprensibili dei fenomeni paranormali e anche questa tematica è un marchio di fabbrica spielberghiano riadattato: mancano le madri, invece dei padri, non è un dettaglio: la mancanza dell’amore materno rende ancora più importanti gli altri legami istintivi, come l’amicizia e l’amore, oltre ad esasperare i conflitti con la figura paterna.
Non sono del tutto soddisfatto, comunque. Ci ho pensato molto e credo che manchino essenzialmente due cose a Super8: una sequenza particolarmente emozionante nel finale, che ci leghi definitivamente al film e che compensi quella del deragliamento all'inizio, e un tema musicale incisivo, tipo il tema di E.T. durante la corsa finale in bicicletta che ti fa venire sempre la pelle d’oca. In più, l’inevitabile confronto tra i bambini e il mostro viene risolto in maniera incerta e le due linee narrative non sono sempre ben amalgamate tra loro. E' come se Abrams si fosse in qualche modo accontentato di aver realizzato un film d'altri tempi, alla ricerca di un effetto nostalgico più che di un rinnovamento nel lessico della cinematografia d'intrattenimento. Considerando tutto quello che c’è, però, non è certo il caso di stare troppo a rompere le palle: non è certo colpa sua se di questi tempi per fare un passo avanti bisogna farne tre indietro .
Etichette:
Elle Fanning,
J.J.Abrams,
Steven Spielberg,
Super 8
Iscriviti a:
Post (Atom)