lunedì 28 febbraio 2011

Il Grinta


Per me i fratelli Coen resteranno sempre quelli di Mister Hula Hoop. Con l'imprinting non si scherza, del resto. Credo che diano il massimo quando danno sfogo al loro umorismo tagliente e surreale, con film cattivi come A Serious Man.

Temevo invece questo Il Grinta perchè l'altro remake dei Coen (Ladykillers) non solo non era paragonabile all'originale, ma era anche piuttosto debole in assoluto. Ammetto di dover recuperare l'originale con John Wayne, ma Il Grinta dei fratelli Coen (True Grit in originale) è un bellissimo film, che mi pacifica finalmente con il western, genere che ho sempre digerito poco se non in forme poco convenzionali come Butch Cassidy e Ritorno al Futuro III. Però un grande film è tale anche perchè travalica i generi e le preferenze personali e perchè, in un modo o nell'altro, arriva. O meglio, ti fa andare: andare insieme ai personaggi, sposare i loro codici morali anche se sono quelli del far west, sperare che lo becchino, quel maledetto, e gli sparino, perchè nel vecchio West ci si affidava a Dio, ma sempre con la pistola carica.

La storia di Mattie Ross che assolda uno sceriffo federale per vendicare la morte del padre non nasconde sottotesti e non si può leggere su più livelli: è una storia incentrata sui personaggi e su quello che accade loro. Il viaggio - in questo caso - non è metaforico, perchè ogni personaggio è un archetipo in quanto tale non può evolvere: se lo facesse, l'intera storia non avrebbe più senso. La sfida di un genere semplice come il western oggi è questa: appassionare e stupire con una di quelle storie che si possono raccontare anche intorno ad un falò e che dipendono - in fondo - solo dall'abilità del narratore. Sfida che i Coen raccolgono e vincono, grazie alla loro padronanza del mezzo cinematografico (splendida la sequenza della cavalcata notturna ed il fade-in iniziale, ma anche l'arrivo del treno, all'inizio, è visivamente molto suggestivo) e ad un cast di prim'ordine, visto che oggi si fa a gomitate per accostare il proprio nome a quello dei fratelli Coen: Jeff Bridges, Matt Damon e Josh Brolin espiano le loro opache prove in Tron Legacy, Hereafter e Wall Street, provando che anche un ottimo attore ha bisogno innanzitutto del giusto spartito, ma più di una volta ruba la scena a tutti loro Hailee Steinfeld nei panni di Mattie Ross, che è la vera ancora emotiva e morale della vicenda.

Un po' mi mancano i tempi di John Turturro e Tim Blake Nelson, ma non è certo Il Grinta a farmeli rimpiangere. I Coen sono cresciuti tanto e sanno fare grandi film ad un ritmo che Woody Allen se lo sogna (soprattutto visti i risultati). Prima o poi un altro Mister Hula Hoop salterà fuori, per la mia gioia, ma se l'alternativa è Il Grinta, ben venga.

giovedì 24 febbraio 2011

127 Ore

127 Ore è uno dei film dell'anno. Sento di potermi sbilanciare anche se siamo solo a febbraio.
Raramente (mai?) sono uscito dalla sala così provato fisicamente ed entusiasta per lo spettacolo.
Chi si aspetta un'altra melensa favola della buonanotte come The Millionaire stia attento, Danny Boyle ha cambiato rotta, prendendosi coraggiosamente il rischio di vedere una quantità di incassi e premi notevolmente ridotta. Chi invece -come me - temeva di non rivedere il Boyle di Trainspotting, perchè rimbambito dalla pioggia di Oscar...può andare tranquillo al cinema. 127 Ore non è un film per stomaci deboli, a causa di una sequenza finale veramente cruenta, ma è un capolavoro. Anche per quella sequenza.
Nei primi dieci minuti Boyle scaraventa lo spettatore nella vita del protagonista con una musica assordante, uno split screen molto anni novanta ed un ritmo forsennato da pubblicità della coca-cola, quasi a voler controbilanciare la staticità del resto del film, in cui comunque il montaggio, i giochi di macchina e le invezioni visive compensano l'immobilità del protagonista (intrappolato in fondo a un canyon).
La storia -vera - di Aron Ralston è drammatica e splendida, ma nell'economia del risultato di 127 Ore, questo è un dettaglio: il pathos è dovuto alla maestria con cui una storia veramente difficile da trasformare in un film è stata confezionata: Danny Boyle ha preso gli elementi a sua disposizione, la sua tecnica, la prova d'attore, la sceneggiatura e ne ha creato qualcosa di superiore alla somma delle parti, che arriva allo spettatore non solo attraverso gli occhi, ma dalla tensione delle gambe, dallo stomaco che si chiude, dalle mani che si aggrappano alla poltrona. Ad un certo punto io ho cominciato a sudare...
Dal punto di vista estetico, il film offre delle riprese meravigliose dei Canyonlands, riuscendo nell'impresa di rendere giustizia (grazie alle inquadrature e alla fotografia) a questi paesaggi, anche in maniera funzionale alla storia e non solo per riempire i tempi morti con riprese d'archivio: in un film non mi era mai capitato di rivivere la sensazione di paura e meraviglia che si ha in un luogo così immenso e selvaggio, che ridefinisce il concetto di orizzonte e fa mancare le parole giuste per descriverlo.
La prova splendida ed originale di James Franco va sottolineata perchè questo attore ha davvero talento e sta crescendo in fretta. La parabola emotiva di Ralston parte dall'arroganza e la superficialità con cui viene preparata ed affrontata l'escursione e passa attraverso la paura, la determinazione, la deprivazione fisica e l'allucinazione, l'accettazione della morte e la battaglia definitiva e tragica per la vita. Durante il viaggio ed alla fine, siamo con lui sempre. La prova intensa di James Franco può essere paragonata a quella altrettanto superlativa di Natalie Portman in Il Cigno Nero. Parere personale: James Franco mi ha emozionato molto di più.
In una parola: un film elettrizzante, un'esperienza da vivere necessariamente nel buio di una sala e non a casa col volume limitato dal regolamento condominiale e la visuale limitata dai confini del televisore. Questo è Cinema, non un film qualunque. Scommetto un braccio che mi darete ragione.
P.S. Anteprima con biglietti da vincere online: come si spiega che anche in questi casi mi ritrovo accanto l'immancabile duo coatta e coattona che non riescono a seguire neanche i film della Disney? Ce le mette il Comune di Roma perchè non ho votato per l'attuale amministrazione? Si parte con una breve presentazione dell'evento e quella che chiameremo coatta alfa fa:"ma che è er regista?" indicando il tipo che stava presentando il film - chiaramente italiano e romano - al che coatta beta, diciamo quella intelligente, la schernisce: "see e sta a veni' pe' te". Si spengono le luci e compare il titolo del film: coatta alfa sussulta ("iiiiiih"), scambiandolo forse per la durata.
Quando Ralston ha una allucinazione e si vede padre di un bambino, chiaro topos cinematografico che fa capire che nella sua testa scatta l'istinto di sopravvivenza, coatta alfa si chiede "ma che c'aveva un fijo?", ma l'esegesi dell'allucinazione è troppo anche per coatta beta che risponde "me sa". E così via.... Alemanno, questo weekend vado a vedere Il Grinta. Mi raccomando, manda le mejo che c'hai.

mercoledì 23 febbraio 2011

Burke & Hare - Ladri di Cadaveri

L'altra sera ero in macchina, nel traffico. Ad un certo punto dal cd che avevo messo (L'America del Rock volume 2, una vecchissima collana di Repubblica, così vecchia che l'avevo comprata in cassetta) è partita I can't turn you loose di Otis Redding, versione live.
Mi è venuto da ridere, ho accelerato: un riflesso condizionato. E se avessi avuto degli occhiali da sole nel cruscotto me li sarei messi, anche se era sera. Perchè non si può andare piano con I can't turn you loose. Anche se non sei Elwood Blues, anche se non guidi una Dodge della polizia di Chicago, anche se non finisci in carcere ogni volta che suoni dal vivo.
Burke & Hare, ultima fatica di John Landis, dico: J O H N L A N D I S, detiene un particolare primato nella mia vita di cinefilo: è l'unico film che ho visto due volte nello stesso giorno, complici sicuramente il pass stampa e l'ordine delle proiezioni del Festival di Roma, ma anche perchè mi ha divertito davvero molto.
Chi si è perso la Lezione di Cinema di Landis, può rimediare con Burke & Hare, che è un vero compendio di tutti i temi cari al regista: comicità semplice, più fisica che cerebrale, un po' di horror e molta autoironia. Oltre ad un cast perfetto.
Più che un film nuovo, Burke & Hare sembra un classico degli anni Ottanta, per temi, toni e tempi comici. Non a caso, John Landis ha dovuto cercare i fondi per il film in Gran Bretagna - dove evidentemente la sua carriera da regista fa ancora un certo effetto.
Oggi in America fanno ridere (anche me, intendiamoci, non sono i soliti discorsi sui bei tempi andati) film come Una Notte da Leoni, o Jackass: la comicità che scaturisce dalla cattiveria, dalla demenza: sono i tempi che corrono. Si ride sempre di qualcosa o di qualcuno. Landis non ci sta e ci ricorda come si rideva di cuore e di pancia trent'anni fa, ai tempi di Una Poltrona per Due e Animal House. Andy Serkis e Simon Pegg non hanno certo il carisma e la follia di John Belushi o Eddie Murphy, ma sono semplicemente perfetti nei ruoli dei protagonisti, regalando un'anima a due dei criminali più feroci della storia del Regno Unito.
Sviscerare altri aspetti del film sinceramente non credo abbia senso: Burke & Hare va goduto per la sua semplicità. Fa ridere, cavolo. Non basta questo?
Spero che Burke & Hare non abbia su qualcuno l'effetto di transfert che The Blues Brothers ha avuto su di me (un conto è voler far parte di una band un conto diventare un maniaco omicida)...ovviamente i due film non si possono paragonare, ma l'incipit di questa recensione è semplicemente un omaggio a quel cinema che ti resta dentro a sufficienza da accenderti una scintilla e da legarti a ripetute, periodiche visioni o improvvise accelerazioni con la macchina. Burke & Hare me l'ha ricordato in più di un momento.
Bentornato John.

domenica 20 febbraio 2011

Il Padre e Lo Straniero

Ho visto Il Padre e Lo Straniero un po' di tempo fa, al Festival di Roma, quindi, con l'età che avanza, rischio di non ricordare proprio tutto e di aver rimosso le cose più negative, come accade un po' per tutti i ricordi.
Ricordo di aver pensato: vabbè, c'è di meglio, pretenzioso e un po' poco credibile in alcuni passaggi, ma almeno non è il solito film italiano. E questo non è un merito da poco, anzi: ci vorrebbe una medaglia al valore. Paradossalmente, il film meno italiano degli ultimi anni arriva da due persone che si portano addosso cognomi pesantissimi, i cui padri sono i mostri sacri (nonchè i Mostri di Risi) della commedia italiana che oggi sta esalando gli ultimi rantoli in film inguardabili come quelli di Gabriele Muccino e Lucio Pellegrini.
Il problema è che ne Il Padro e lo Straniero c'è troppa carne al fuoco: razzismo, spionaggio, drammi coniugali, il tema dell'altro, rapporto con i figli, amicizie virili multiculturali. Un conto è sviluppare questi temi in un romanzo, un conto doverli condensare in un film senza scegliere nettamente per l'uno o l'altro aspetto della storia (con scene francamente imporoponibili come Alessandro Gassman che fa avanti ed indietro dalla Siria nel giro di un pomeriggio).
Alessandro Gassman e Amr Waked riescono comunque a creare una bella alchimia costruendo due figure di padri fragili ed in difficoltà che si trovano in una Roma virata su tinte arabe: concentrandosi su questo aspetto del film (che è poi quello che più sta a cuore al regista) se ne può uscire con sensazioni positive. E' la spy story infatti che convince poco, per non parlare di Leo Gullotta che mentre fa lo 007 ti aspetti che o cominci a mangiare un torroncino o a strillare in siciliano. Poichè da metà non solo la fotografia ma anche la sceneggiatura vira fortemente sui toni gialli, senza avere però il piglio dei grandi thriller americani, il film cala nettamente alla distanza e forse si dilunga eccessivamente, anche considerando che tutto sommato nella prima parte non si costruisce abbastanza per alimentare la nostra curiosità e giocando troppo sullo stereotipo culturale dell'arabo misterioso e filosofico.
Ricky Tognazzi ha il merito di aver tentato strade diverse e di aver realizzato una bella regia, anche se il risultato non è del tutto soddisfacente. Certi generi sembrano davvero preclusi alla nostra cinematografia. Però ha fatto bene a provarci...anche se mi sa che se avessi scritto questa recensione subito dopo aver visto il film non sarei stato altrettanto tenero. E' l'età.

venerdì 18 febbraio 2011

Il Cigno Nero

"Ce l'hanno tutti con me perchè sono piccolo e nero"

Partirei con un'avvertenza: tra le nove Muse, quella della danza è decisamente quella che mi parla meno. Poi il balletto non ne parliamo proprio. E' proprio una questione di linguaggio, di mancanza di strumenti di decodifica, non capisco i movimenti e non ne afferro la bellezza. Nè ho alcuna intenzione di impegnarmi a farlo.

Il Cigno Nero però non è un film sul balletto (sai che palle!!). Quindi forse a scrivere due cose sensate ci riesco lo stesso: Il Cigno Nero è un film sull'illusione della perfezione, sull'ossessione per un risultato che diventa l'ostacolo per il raggiungimento del risultato stesso: un serpente velenosissimo che si morde la coda, senza possibilità di uscita che non sia autodistruttiva. Il Cigno Nero parla del Lato Oscuro quasi meglio di Yoda: come il maestro Jedi ci avverte che per diventare cavalieri Jedi, dovremo averne paura, affrontarlo, ma non cedere mai al suo richiamo senza ritorno.

Il tema del doppio è uno dei più antichi della storia del pensiero e delle arti: Darren Aronofsky lo declina nel mondo del balletto e della storia de Il Lago dei Cigni, prendendo l'enorme sforzo psicofisico dei ballerini (raccontato nel rumore di muscoli, unghie e tendini) a paradigma di straordinarietà a cui alcuni uomini possono aspirare mettendosi completamente in gioco e rischiando - in caso di fallimento - la completa distruzione.
La parabola psicologica di Nina (Natalie Portman) è rappresentata in maniera straordinaria: la mente della ragazza - fragile già all'inizio - crolla progressivamente sotto il peso di una dicotomia tra due personaggi (il Cigno Bianco ed il Cigno Nero) che Nina vive dolorosamente innanzitutto con se stessa, ma che proietta anche su sua madre, sulla prima ballerina uscente Beth (Winona Ryder) e sulla nuova arrivata Lily (Mila Kunis).
Nei titoli di coda, Natalie Portman è Nina/The Swan Queen mentre Mila Kunis è Lily/The Black Swan. E' un doppio gioco di doppi non solo nella mente malata di Nina ma anche in quella sana (?) del regista. Il Cigno Nero nella storia causa la rovina del Cigno Bianco, portandole via l'amore. Per Nina l'amore è il balletto, ma anche la propria perfezione. Il Cigno Nero allora è Lily, che minaccia la realizzazione del suo sogno, ma anche la propria incapacità a lasciarsi andare, che le impedisce di arrivare alla perfezione ricercata ossessivamente nel gesto tecnico.

Aronofsky è un novello Milos Forman per la sua attenzione alle derive psicologiche ed al rapporto tra genio, follia ed ossessione, già esplorato nelle altre sue opere. Ne Il Cigno Nero questa attenzione si trasforma in scelta estetica: la grana della fotografia, la macchina in spalla, l'insistenza sulla fragilità fisica (muscoli, tendini, unghie) e psicologica dei ballerini da contrapporre alla sicurezza ed alla forza delle loro esibizioni, le riprese sempre alle spalle della protagonista, il gioco continuo di specchi - reale e metaforico: alla fine realtà ed illusione si sono confuse al punto che il crescendo di ansia non si spegne con i titoli di coda, ma resta dentro. E' questo che fa di un film un grande film. Nonostante il balletto.

Natalie Portman alla prova più intensa della sua carriera è messa di fronte ad un personaggio che chissà quanto le ha ricordato se stessa: praticamente perfetta dal punto di vista tecnico, ma sensuale come un comò. E' bravissima, intendiamoci: merita tutti i premi che ha preso e prenderà, ma non ho potuto fare a meno di pensare che raramente "scompare" nei suoi personaggi, a causa forse di una certa meccanicità di fondo. Mila Kunis ne è il doppio perfetto, anche se la sua presenza è molto sacrificata in termini quantitativi ed il suo personaggio non è poi così sviluppato (più efficace Winona Ryder, nonostante le poche scene).

Darren Aronofsky girerà il prossimo Wolverine. C'è qualche remota, remota chance che anche la Marvel tiri fuori finalmente un film decente. Nel frattempo, recupero The Wrestler.

lunedì 14 febbraio 2011

Gianni e le donne

“Sto aspettando di sbagliare il secondo film”: Massimo Troisi rispose così, sornione e geniale, ad una giornalista che gli chiedeva quali fossero i suoi progetti dopo il successo di Ricomincio da Tre. Gianni Di Gregorio rispetta il clichè che Troisi aveva scaramanticamente invocato e non conferma la freschezza dell’esordio di Pranzo di Ferragosto. Proprio come le bottiglie di champagne lasciate aperte a svaporare dalla madre del protagonista, questo Gianni e Le Donne sembra una versione svaporata di Pranzo di Ferragosto: a Di Gregorio non riesce il gioco di prestigio un’altra volta e ciò che nel primo film era un pregio, in questo diventa un difetto. Un conto è mettere quattro vecchiette intorno ad un tavolo e far loro da spalla (se lo faccio io con mia nonna, premiano a Venezia anche me), un conto è avere ambizioni diverse. Ci sono varie cose che non convincono: una regia piuttosto scolastica, attori che non hanno i tempi giusti (a parte Valeria de Franciscis, che secondo me però non recita, è proprio così), una trama che non decolla mai e non approfondisce il tema principale, che pure era interessante: l’inizio della vecchiaia, la fine della maturità, l’uscita dalla fascia appetita dai pubblicitari, insomma. Una premessa quasi alla Woody Allen: un uno contro tutte (madre, moglie, figlia, amiche, ex amanti) in cui all’uomo però gioca decisamente contro anche l’età. Il problema è che Gianni (personaggio) non vive alcun conflitto che non si possa risolvere nel bicchiere di vino bianco che Di Gregorio fa tenere sempre in mano al suo personaggio dai tempi di Pranzo di Ferragosto. A proposito, che senso hanno i riferimenti all’eccessivo bere se poi non concludono in qualche direzione precisa? Forse qualcuno ha criticato l’onnipresenza del vino e Di Gregorio gli ha dato il contentino? Tipo “non fatelo anche voi a casa”?
Non è l'unico elemento che sembra un po' tirato via in un film che vive su un equivoco fondamentale: De Gregorio vuole riproporre il minimalismo furbetto alla base del successo di Pranzo di Ferragosto, sperando in un bis, ma un film che ha già nel titolo un respiro più ampio necessita anche di accorgimenti diversi dal punto di vista della scrittura e della recitazione.
E' come fare un pranzo di nozze in trattoria per bere il vino della casa che si prende con gi amici.
La Roma afosa e sempre assolata fotografata nel film è bella e poco glamour, diversa da quella di Moretti e diversa da quella di Ozpetek, ma è una cornice immensa per un quadretto piccolo piccolo. Al netto della forza vitale di Valeria de Franciscis, che ha in sé tutto ciò che adoriamo e detestiamo delle vecchiette della nostre famiglie, di Gianni e le donne resta ben poco: una serie di inutili quadretti slegati tra loro, con il faccione di De Gregorio sempre in primo piano. Purtroppo la remissività del suo personaggio (che non brilla poi neanche per simpatia) fa in modo che la sua onnipresenza non fornisca una chiave di lettura o uno spunto di riflessione sul tema uomo/donne, ma sia solo un’ironica dichiarazione di resa che stanca molto presto e non si rinnova nel corso del film. Per la cronaca, il secondo film di Massimo Troisi fu “Scusate il Ritardo”, vedi la scaramanzia certe volte...

venerdì 11 febbraio 2011

Yattaman

"Anche un maiale può arrampicarsi su un albero quando viene adulato"
Non so se avete presente un episodio di Yattaman (uno qualunque, fate voi): il trio Drombo si inventa un raggiro ai danni degli ingenui consumatori giapponesi derubandoli per costruire il proprio robot cattivo, gli Yattaman riescono ad ascoltare il loro piano e li intercettano con uno dei loro robot buoni (il mio preferito era Yatta Doiler, perché non capivo cos’era). Quando la battaglia si mette male per i buoni, o gli Yattaman dopano il loro robot (con il “tonico”), il quale produce dei minirobot che distruggono il robot dei cattivi oppure è lo stesso trio Drombo a causare maldestramente la propria autodistruzione, andando inevitabilmente incontro alla punizione di Dokrobei. Più un trionfo di umorismo demenziale fatto di maiali robot, love story impossibili, rotture del quarto muro, lettere (vere) dei fan lette dai personaggi durante gli episodi. Non avete presente? Che infanzia infelice, deve essere stata.
La formularità degli episodi era il punto di forza dell’intera serie: ci deve essere il maiale che si arrampica, ci deve essere il tonico, ci deve essere la punizione finale. Altrimenti, non è Yattaman.
Quando ho saputo di un film dedicato a Yattaman ho pensato ad un adattamento cinematografico, come dire, convenzionale: riprendere gli elementi "filmabili", crearci una storia adattata ai tempi che corrono, metterci qualche riferimento alla serie animata tanto per compiacere gli appassionati: insomma, sfruttare il marchio e raschiare il barile. Ho pensato, in pratica, al trend ollivudiano di riesumare brand di successo per mancanza di idee, preparandomi al peggio, aspettandomi di veder violentato anche questo bel ricordo (il prossimo, se non vado errato, sarà il Mago di Oz, di cui devono a tutti i costi fare un remake, ma perchè??).
Fortunatamente in Giappone la pensano diversamente: perché modificare un meccanismo perfetto? Perché non avere fiducia che quello che fa ridere a cartoni faccia ridere anche (anzi, a maggior ragione) in live action? Cosa si aspettano di vedere i fan di Yattaman, se non esattamente quello che è stato riproposto seguendo uno schema fisso per anni?
Yattaman Il Film, di Takeshi Miike (che non è l'ultimo imbecille), è – in una parola – perfetto: divertente, demenziale, completo. Infatti arriva in Italia dopo un paio d’anni e anche in distribuzione limitatissima.
Invece di perdere tempo in una storia di origini, si parte subito in quarta, a metà di uno scontro tra gli Yattamen e il trio Drombo. L’atmosfera è familiare, anche se YattaCan è tutto rosso: sembra di aver beccato una replica di Yattaman a metà puntata facendo zapping.
Non manca nulla degli elementi che hanno reso Yattaman un successo: tutto è ricreato e allo stesso tempo rielaborato con una cura dei dettagli spaventosa ed una notevole tecnica, dal laboratorio di Ganchan, al narratore esterno, dalle pause “spiegazione” al maialino portafortuna, fino alle divise del trio Drombo (ombelico a palletta, nasi strani e capelli biondi diventano parti del costume: semplicemente geniale). In due ore, Miike riassume tutti i momenti salienti della serie: la ricerca della Dokrostone, il quadrilatero amoroso impossibile YattaUno –YattaDue –Dronio - Boyakki, la nascita di Yatta King, persino il finale triste e demente del trio Drombo è ripreso pari pari dalla serie tv.
Particolarmente azzeccate sono la CG, la fotografia e gli effetti: se il tono complessivo è più cupo, la mistione di elementi reali e virtuali è praticamente perfetta e l'atmosfera generale è proprio quella di un cartone animato dipinto a colori... molto realistici. Il resto lo fanno gli attori: come nella serie animata, gli eroi sono poco delineati e poco approfonditi, mentre al trio Drombo viene lasciato più spazio sulla scena. Non a caso le interpretazioni migliori sono quelle di Katsuhisa Namase (Boyakki) e Kyoko Fukada (Dronio), che hanno ricreato i loro personaggi nei minimi dettagli, fisici e psicologici.
Ovviamente aspetto con ansia dei sequel…non per altro, è un riflesso condizionato: Yattaman è una serie, e voglio vedere tutti gli altri Yatta Robot. A proposito, dopo i titoli di coda c’è di che divertirsi… P.S. c'è un inside joke che in Italia non si può cogliere: ad un certo punto il trio Drombo ha l'impressione di riconoscere la voce di alcuni dei propri clienti...i tre doppiatori originali del trio Drombo animato: chapeau.

martedì 8 febbraio 2011

lunedì 7 febbraio 2011

Another Year

Another Year di Mike Leigh ha preso cinque palle su Il Messaggero. Signora si sieda che è cominciato, e stia zitta. Altre quattro sono quelle che ci siamo fatti io e Mary (due a testa), e siamo già a nove palle. No signora, il suo posto è in fila M, questa è N. Noioso, non c’è che dire: Another Year No, signora, la fila è questa, ma lei ha i biglietti per lo spettacolo delle 18. No, non so che farci, si vuole sedere in braccio? dicevo, Another Year in effetti si basa sulla magistrale tiri tiri tiri tin tiri tiri tiri tin INTERPRETAZIONE di alcuni ottimi attori, ma tiri tirit tin tiri tin tiri tiri tin FORSE tiri tirit tin tiri tin tiri tiri tin SIGNORA SE NON LO SA USARE, L’IPHONE, SI COMPRI UN CAZZO DI NOKIA DA 30 EURO. E SPENGA STA SUONERIA! Si diceva? Ah sì, il film di Mike Leigh non contiene conflitti, non racconta una storia, non inizia e non finisce: a tratti diverte, a tratti intristisce Signora, non me ne frega niente che lei deve comprare le presine per il forno, che si sono bruciate, stia zitta. Basta, rinuncio. E’ vero, Another Year è una palla no prego, passi, si figuri tanto è cominciato da soli venti minuti, per lo spettacolo successivo è in largo anticipo una palla mostruosa, ma vederlo in una sala colma di gente che non ha il minimo senso dell’educazione non aiuta di certo. Another Year è un film in cui i silenzi, gli sguardi, le situazioni, pesano più delle parole e dello svolgimento, in cui intepretazioni impressionanti (Jim Broadbent e Ruth Sheen su tutti) danno sostanza ad una sceneggiatura volutamente povera: questo film fotografa senza filtri la vita di una coppia sulla settantina baciata da un invidiabile affiatamento e da una coinvolgente serenità, di cui Mike Leigh ci racconta un anno di vita, un altro anno, un anno qualunque. Se in ogni silenzio qualcuno commenta ad alta voce o approfitta per fare due chiacchiere, il film è finito prima di cominciare, la tensione emotiva non si propaga mai oltre il piano dello schermo. I protagonisti del film si chiamano Tom e Jerry: c’è UNA battuta in merito alla cosa, la sala si sganascia anche in un momento successivo (molto drammatico) in cui i nomi vengono ripetuti. Natale al Quattro Fontane: cinema da evitare nel weekend, ormai: pieno di gente di mezza età al cinema per ripararsi dal freddo e di gruppi di signore ciarliere e rincoglionite alle prese con l’appuntamento settimanale della cultura. Ve lo meritate, il Rubygate. No signora, per favore, affari suoi un cazzo, brava persona un cazzo e magistratura di sinistra un cazzo. Non si immischi anche nella recensione. L’unica cosa da ricordare di questa serata da incubo è stata la fine del film: la musica dissolve su un drammatico primo piano, prima del nero. Mentre scende la musica, sale inesorabile la russata del tipo due file avanti. Ilarità generale, film in vacca e tanti saluti (finale da film, a pensarci). Questo è un genere di film che non capisco molto e non so apprezzare, ma ho il diritto di annoiarmi in pace e comunque sempre meglio Another Year delle persone che avevo intorno: almeno il film posso scegliere di evitarlo. Signora, si svegli, è finito, se non si sbriga si perde Il Lotto alle Otto.

Femmine contro Maschi (contro Femmine)

"Mi manca Yoko Ono"

Secondo episodio del dittico di Fausto Brizzi dedicato ai rapporti uomini-donne : non cambia molto rispetto al primo e di certo non c’è la tanto strombazzata inversione di punti di vista (stavolta, secondo molti media che evidentemente si sono basati sui comunicati stampa e non sulla visione del film, avrebbe dovuto essere prevalente il punto di vista femminile).

Femmine Contro Maschi, invece, è solo Altri Maschi contro Altre Femmine: probabilmente in fase di scrittura Brizzi e soci hanno avuto troppe idee per un film solo, ma invece di scartare le peggiori per fare un buon film, hanno preferito spalmare tutto in due che appena superano la sufficienza (ma portano a casa il doppio degli incassi e liberano Brizzi dal contratto di esclusiva con il suo produttore attuale).

Riassunto del primo film: De Luigi tradisce la Ocone con la Wurth, Vaporidis si litiga la Ferbelbaum con un’amica lesbica, Preziosi si innamora della Cortellesi, Signoris molla Pannofino per Cederna.

Riassunto del secondo film: Bisio si rimette (forse) con una bambola gonfiabile simile alla Brilli, Solfrizzi si fa ingannare dalla Littizzetto, Ficarra preferisce i Beatles alla Inaudi (bella e brava), Picone preferisce i Beatles alla Autieri (bella e basta).

Risultato: si poteva tranquillamente fare a meno delle storie di Bisio, di Vaporidis e Preziosi e condensare il resto in un solo film.

Non condivido le critiche che giudicano questo secondo episodio inferiore al primo: si sente solo la mancanza di Fabio De Luigi, per il resto si ride di più ed è più accentuato il contrasto tra i sessi, sempre e comunque a favore dei maschi. Anzi, Maschi Contro Femmine non raccontava nulla di conflittuale, solo semplici storie d’amore che cominciano/finiscono/vanno in crisi.

Femmine Contro Maschi invece racconta di donne che tarpano le ali ai sogni dei propri uomini e tentano di trasformarli in manichini obbedienti e disciplinati: la Littizzetto – complice un’amnesia del marito Solfrizzi – addirittura gli fa cambiare accento, le mogli di Ficarra e Picone non capiscono la loro passione per la musica (rabbrividiamo).

Il problema del film è questo, almeno in relazione alla filosofia (dichiarata) dell’operazione: l’immaturità dei maschi è perdonata e giustificata dal loro essere anche altro al di fuori della coppia (amici, tifosi, musicisti), mentre le femmine sono dei mostri (a meno che non siano amanti). L’universo femminile è dunque trattato piuttosto male: non c’è niente di falso o esagerato, ma magari anche qualche qualità femminile la si poteva far intravedere tra un difetto e l'altro. A parte ciò, il tutto è comunque divertente, soprattutto grazie ad un bravissimo Emilio Solfrizzi (sottovalutato e sottoutilizzato dal nostro cinema) e a Ficarra e Picone che sono gli unici Maschi veramente Contro le proprie Femmine. Per inciso, puoi essere pure la Autieri in babydoll – ma una frase contenente l’espressione ridicola fissazione per i Beatles” è un'autorizzazione a procedere per qualunque nefandezza, dal rutto libero al tradimento con la migliore amica (prima, ovviamente, di una rottura definitiva ed insanabile).

Decisamente scontato e fuori contesto l’episodio di Bisio: la Brilli mitraglia le battute come se avesse paura che recitandole a velocità normale, articolando la frase, potrebbe dimenticarsele a metà. Bisio fa il suo, ma non ha sponde credibili (se non nei pochi scambi con Gigio Alberti).

Insomma, per Brizzi le donne sono tutte della peggior specie: ad alto mantenimento e convinte del contrario. Il lieto fine da cassetta non regge, nella realtà poche delle storie raccontate lo avrebbero incontrato (e del resto, chi conosce una coppia formata da un benzinaio ed un medico?). Visto il tema, si poteva spingere di più sul confronto offrendo qualche spunto di riflessione, ma il livello oggi questo è e questo ci teniamo, per di più in duplice copia.

venerdì 4 febbraio 2011

Il discorso del Re

Colin Firth, Geoffrey Rush. Fine della recensione: quando a due attori superlativi dai un copione come quello de Il discorso del Re, basta sedersi, lasciarli fare e godersi lo spettacolo. Difficile dilungarsi su film come questi. La valanga di candidature agli Oscar è francamente esagerata, soprattutto considerando che capolavori come Shutter Island ed Inception sono stati considerati poco e niente, perché – al netto di due enormi performance – non è che Il Discorso del Re si faccia ricordare per la regia o il montaggio. Si sa che candidature e premi sono frutto di calcoli, accordi e strategie di marketing, quindi lungi da me polemizzare, è una parte del circo. Un tale successo si spiega però perché mentre si guarda Il Discorso del Re si ha la sensazione di vedere un film di un’altra epoca, lineare e sostanzioso, senza la volontà di stupire ed esagerare (penso anche all’ultimo Eastwood) o contrapporsi alla leggerezza americana andando su strazianti film di denuncia tratti da tragedie vere.
Si racconta del principe di uno dei regni più grandi del mondo, maledetto da una balbuzie quasi invalidante, pessima compagna per un principe non erede, designato dal protocollo di corte soprattutto a…tenere discorsi. Si racconta, come in una favola, di come il principe combatta il suo drago ed accetti il peso di una corona che non sembrava destinata a lui grazie al più improbabile degli aiutanti.
La famiglia reale inglese da anni è lo squallido teatrino dei gossip d’oltremanica, e i film sulla nobiltà di solito hanno per protagonisti i costumi e le scenografie. Tom Hooper riesce invece ad evitare questi facili tranelli, pur viaggiando sul filo del rasoio, e a dare un cuore ad un tipo di personaggio di cui oggi, al cinema, si può fare certamente a meno: anche i ricchi piangono, ma si asciugano le lacrime su fazzoletti di seta, quindi, in generale, che ce frega a noi?
Un film che riesca a fare della linearità un valore, oggi che il peso della sceneggiatura si misura in colpi di scena e tranelli tesi allo spettatore, va visto al cinema ed apprezzato nel buio della sala, che sicuramente fa da cassa di risonanza per due meravigliose interpretazioni. Semplice e commovente, non senza bei momenti comici, la storia dell’uomo dietro il principe e del dottore che lo cura prendendosi gioco dell’etichetta è il miglior film attualmente in sala (ci vuole poco, ok, ma tant’è). Fine della recensione (davvero).

giovedì 3 febbraio 2011

The Green Hornet

C’era una volta Michel Gondry, visionario regista appassionato di effetti speciali fatti a mano, capace di tramutare in film prima le sue visioni (L’Arte del Sogno) e poi la sua passione per il cinema (Be Kind Rewind), dopo aver stupito e commosso tutti con Essere John Malkovich e Eternal Sunshine of the Spotless Mind, senza dubbio tra i capolavori del decennio appena finito.
C’era una volta, appunto, perché è difficile trovare qualcosa del genietto francese in The Green Hornet, adattamento moderno della vecchia serie che lanciò Bruce Lee. Certo, per essere un film di supereroi (o meglio, la versione di Seth Rogen di un film di supereroi, siamo ai limiti della parodia), si vede che c’è una regia attenta e non scontata, ma da qui a dire che si vede la mano di Gondry ce ne passa. Insomma, poteva andare meglio, ma anche molto peggio.
Al contrario di Be Kind Rewind dove l’equilibrio tra Jack Black e Michel Gondry funzionava (inaspettatamente) alla perfezione, The Green Hornet è evidentemente un'emanazione di Rogen, che produce, scrive ed interpreta, con un regista certamente non inesperto o accademico, ma che non sembra averci messo molto del suo. Del resto i toni ed i ritmi non sono certo quelli cari a Gondry, che evidentemente ha il mutuo da pagare ed è stato coinvolto nel progetto praticamente a cose fatte, dopo la rinuncia di una dozzina di registi. Nonostante sia contrariato dalla “assenza” dei “Gondryismi” che mi piacciono tanto, va detto che The Green Hornet è un piacevole intermezzo fracassone piazzabile tra la cena e la digestione, una “buddy comedy” di semi-supereroi in cui Rogen si trova nel ruolo insolito del carnefice (e gli viene anche bene) e Jay Chou (anche lui assoldato all’ultimo momento, divertentissimo nel ruolo di Kato) in quello della vittima. Il film si basa completamente sull’interazione tra i due, il resto fa colore: la trama, i ruoli minori (seppur interpretati da nomi altisonanti quali Cameron Diaz, Christoph Waltz e James Franco) , gli effetti... tutto fa brodo, ma la sostanza sta nella coppia di sedicenti eroi, improbabile quanto riuscita. Invece di mettere insieme due nomi da cassetta in un film mediocre e sperare di sommare gli incassi che le due star farebbero separatamente (DeNiro/Pacino? Jolie/Depp?), Rogen e Chou sono finalmente due attori con una chimica che produce una reazione positiva. In questo caso, pur essendo il film leggerino, i due ruoli sono scritti per essere complementari, come si addice ad una buddy comedy, e sono affidati intelligentemente a due attori altrettanto complementari sia per fisico che per modo di recitare: Chou probabilmente muove i muscoli della faccia in tutto il film tanto quanto Rogen lo fa in una scena qualunque. E’ tutto qui, ma può anche bastare. Per un film di Gondry, aspettiamo il prossimo giro.

mercoledì 2 febbraio 2011

I Fantastici Viaggi di Gulliver

L’unica cosa grande quanto la panza di Jack Black è il suo talento. Ho l’impressione che potrebbe recitare un film intero (di qualunque tipo) solo con le sopracciglia, purchè il film sia scritto decentemente. Purtroppo, non è il caso de I Fantastici Viaggi di Gulliver: sarà che uno non scrive una sceneggiatura pensando che i pezzi forti saranno saccheggiati dal trailer, ma se al netto di quei due minuti non resta proprio nulla, qualche problema c’è. I Fantastici Viaggi di Gulliver è un maldestro tentativo di attualizzare la prima e più celebre parte del romanzo di Swift, svuotandola però di qualunque velleità satirica e morale e riducendola alla solita favoletta americana dell’imparare a superare i propri limiti per conquistare la ragazza dei propri sogni (e di quelli di un po’ tutti, essendo la tipa in questione Amanda Peet). Perché non una versione fedele al libro? Perché non un’ambientazione d’epoca? Perché non un adattamento avventuroso invece di questa melensa pacchianata sulla metafora della statura fisica? Ma gli americani lo sanno che i Viaggi di Gulliver si chiama così proprio perché Gulliver di viaggi ne ha fatti più d’uno? C’erano tutti i presupposti per avviare un franchise sullo stile de I Pirati dei Caraibi, secondo me, peccato davvero. Il problema serio però è il livello infimo dei dialoghi e la mediocrità con cui sono scritti i personaggi, che cambiano repentinamente indole e spessore a seconda delle necessità, in maniera veramente poco credibile ed al solo fine di trainare la scena/situazione successiva. E’ ironico è che Jack Black interpreti un personaggio estremamente insicuro quando tutto il film è basato sulla sicurezza che basti dare libero sfogo al suo esclusivo campionario di mossette, facce buffe e gag triviali per portare a casa la pagnotta. E certamente solo Jack Black può essere credibile mentre canta i Kiss, fa recitare Titanic ai Lillpuziani e millanta amicizie con Yoda e Jack Sparrow, gliene va dato atto. Lemuel Gulliver non è così diverso dai personaggi che Black interpretava in Alta Fedeltà, School of Rock e Be Kind Rewind. La differenza è che in quei film l’istrionismo incontrollato dell’attore è organico alla storia, mentre ne I Fantastici Viaggi di Gulliver l’idea è sviluppata malissimo, anzi, non è sviluppata affatto, e il film si aggrappa letteralmente alla performance del protagonista. A Jack Black basta un pretesto per scatenarsi e rendere amabili e divertenti personaggi che nella vita reale terremmo a debita distanza, ma assistere al gratuito greatest hits delle sue buffonate dopo un po’ mette quasi tristezza, sembra di vedere uno di quei bambini che vogliono a tutti i costi attirare l’attenzione. Due cose in particolare non mi hanno convinto: il cast a supporto di Jack Black, soprattutto nel ruolo di Horatio (perché non prendere un attore un po’ più carismatico?), ma anche Chris O’Dowd sembra una scelta poco felice per il cattivo, e l’adattamento italiano, con la scellerata scelta della coppia di doppiatori per caso Roversi/Blady per le voci dei regnanti di Lilliput. Con tutto il rispetto, tornate a fare il vostro lavoro e abbiate un minimo di umiltà quando vi propongono cose al di fuori della vostra portata. Film in 3D senza pretese per bambini? Mah. Il tipo di citazioni e il gioco di fandonie che Gulliver mette in piedi non possono essere apprezzati senza le giuste coordinate culturali, che però non sono comunque sufficienti per farsi piacere il film. Il caro biglietti impone ormai scelte oculate anche per gli spettacoli senza la truffa del 3D: eccone uno da evitare accuratamente e recuperare per puro spirito di devozione a Jack Black, su Sky di pomeriggio dopo il pranzo della domenica, tanto per conciliare l’abbiocco. P.S. La cosa migliore del film: il nome della barca di Amanda Peet, SHIP HAPPENS.