giovedì 30 dicembre 2010

Remake

Remake: la piaga cinematografica del decennio, insieme ai non meno pericolosi ceppi mortali "reboot", "sequel" e "versione cinematografica della serie tv", sta lasciando il posto alla nuova e più potente piaga della stereoscopia.
Pianeta delle Scimmie, La Fabbrica di Cioccolato, The Tourist, Solaris, NIghtmare e altri mille horror, Scontro tra Titani, Ultimatum alla Terra, Wolfman, La casa sul lago del tempo, Benvenuti al Sud, La Guerra dei Mondi, Ladykillers, Karate Kid, The Departed, Let Me in, La cena dei cretini, Saranno Famosi, Hairspray, King Kong, Ocean's Eleven, La donna perfetta, The Departed, Vanilla Sky, Welcome to Collinwood.
E tanti e tanti altri.
A tutti loro, alla loro media qualità ed alla scarsa creatività degli americani, dedico questa (trovata su facebook):

Not In Kansas Awards 2010: IL MEGLIO

E passiamo alle cose belle, che è meglio...
Senza dubbio questo è stato l'anno di Avatar, definito "game-changing", ovvero una pietra miliare destinata a cambiare l'approccio al fare e fruire i film: il risultato immediato e tangibile è stato un pessimo film (Avatar, appunto) e una serie di filmacci raffazzonati con 3D più o meno posticci ma sempre inutili. E' stato anche l'anno di Inception: forse solo Nolan oggi in America può essere un vero game-changer, e Nolan del 3D non sa che farsene. Un po' come Apple contro Google, e il Blu-ray contro l'HD-DVD, vedremo chi la spunta. Ovviamente tifo per il Cavaliere Oscuro. Più che in altri anni, quest'anno sono venuti meno sia il cinema americano mainstream che quello italiano, così i migliori film hanno una provenienza più eterogenea. Francia e Spagna ci stanno distanziando di molto, prova ne sia il fatto che il miglior incasso italiano dell'anno (e di sempre, dopo La Vita è Bella) è Benvenuti al Sud, copia conforme di un film francese. A parte questioni di orgoglio nazionale, andare a cercare in piccole sale nascoste delle perle come Adam, Scott Pilgrim vs. The World e Departures si rivela sempre un'ottimo modo per riaccendere la passione per il cinema (ed evitare, in molti casi, gli orchi romani che affollano le sale più gettonate).
CATEGORIA SORPRESA DELL'ANNO
1) Il piccolo Nicolas e i suoi genitori di Laurent Tirard Più ci penso e più mi piace, davvero davvero carino. La leggerezza fatta film. 2) The Town di Ben Affleck Hai capito Ben Affleck, quando ci si mette. Epica criminale vecchio stile, trent'anni fa il protagonista sarebbe stato Al Pacino. Il ragazzo si farà. 3) Cella 211 di Daniel Monzon Che film, che finale, un nodo allo stomaco che non si scioglie facilmente. E' in questa categoria, ma starebbe benissimo anche in quella per miglior film. 4) Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek Uno stile nuovo, finalmente più leggero, un equilibrio che gli altri film di Ozpetek non avevano. E Scamarcio recita. 5) Dragon Trainer di Chris Sanders Sorprendente perchè diverso dalla solita formula DreamWorks merchandise + citazioni + umorisimo demenziale. In più è originale e divertente. CATEGORIA MIGLIOR FILM Dieci non bastano e l'ordine della top 5 è assolutamente sparso. Sì. lo ammetto, alcuni di questi non li ho recensiti a tempo debito, ma trovo quasi sempre più difficoltà a fare una recensione positiva, anche perchè è meno divertente...in alcuni casi quindi, perso l'attimo fuggente, persa la recensione. Propositi per il 2011: lavorare su quest'aspetto. Nota: Esclusi dalla classifica per ragioni "anagrafiche", ma decisamente tra i più bei film proiettati quest'anno: Ritorno al Futuro, Porco Rosso, Nausicaa, The Rocky Horror Picture Show, Hair, Tra le Nuvole.
Ed ecco il listone degli imperdibili 2010: 12. People vs. George Lucas di Alexandre O. Philippe Per nerd e fan, decisamente. Ma non solo: lo strano destino di George Lucas è lo spunto per una riflessione sul rapporto tra l'artista, l'opera, la cultura ed il pubblico. Che la Forza sia con voi. 11. Scott Pilgrim vs. The World di Edgar Wright Condannato ad una programmazione infausta a Roma, ma apprezzatissimo dalla critica internazionale, è l'apologia del nerd, il Matrix degli otto bit. E che musica. 10. American Life di Sam Mendes Tutta la grandezza di un cinema autentico, esattamente quello che l'Italia fatica tantissimo a produrre, persa dietro a macchiette e stereotipi sociali e culturali. Mendes ci sbatte in faccia una realtà durissima, ma che fa anche ridere. 9. Draquila di Sabina Guzzanti Messa da parte la satira per cause di forza maggiore, Sabina Guzzanti fotografa la reale situazione dei terremotati abruzzesi. Trasmette una rabbia rara. 8. Departures di Yojiro Takita Il film più delicato dell'anno arriva dal Giappone, terra fertile che sa rielaborare tutti i generi assorbendoli nel proprio humus e facendoli rifiorire. Departures però poteva essere concepito solo laggiù, dove la ritualità di certe usanze ed il rapporto con la morte sono così distanti da quelli a cui siamo abituati. Forse per questo motivo è facile sentirsi profondamente toccati da questo film. 7. Il concerto di Radu Mihaileanu Una commedia gitana con un finale da fermare il cuore, sulla musica di Tchaikovskij. Bello per tutto: per la musica classica che non si sente spesso, per l'accozzaglia di personaggi bislacchi dell'orchestra, per la sintesi perfetta tra autenticità e fiction. 6. Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson Wes Anderson riadatta alla sua maniera la storia del Signor Volpe di Roald Dahl, con la complicità di George Clooney e Meryl Streep. In stop motion, nell'era della CG. Da applausi. 5. L'illusionista di Sylvain Chomet Un film di animazione praticamente muto su un anziano illusionista che incontra una ragazza. Il tramonto di un'epoca visto dal basso e dal punto di vista dei perdenti. Geniale e commovente, ma per Chomet sarebbe stato strano il contrario. 4. Toy Story 3 di Lee Unkrich Mi sento di spararla grossa: si gioca la palma di miglior sequel della storia con Il Padrino parte II e L'Impero Colpisce Ancora. Se i sequel fossero tutti così giusti, non ci sarebbe bisogno di idee nuove. La Pixar è un mondo a parte, non c'è che dire. 3. Las Buenas Hierbas di Maria Novaro Il film più commovente dell'anno non è ancora uscito in sala, ma chi come me l'ha visto al Festival di Roma non può non esserne rimasto colpito. Una storia tragica e commovente, una riflessione sul rapporto tra coscienza, memoria e morte che sfida qualunque credenza senza metterne in ridicolo nessuna. Bellissimo. 2. Inception di Christopher Nolan Primo: è un blockbuster ma ha un soggetto originale (no sequel, no remake, no franchising, no ganci per seguiti vari). Secondo: Christopher Nolan, che non è secondo a nessuno. Terzo: non basta vederlo una volta, forse neanche due, e tanto basta. Questo è il film che ha alzato il livello di aspettattiva, altro che i puffi dopati di Cameron. 1. Shutter Island di Martin Scorsese Grandissimo Martin Scorsese, in piena forma, altrettanto Leo Di Caprio e Mark Ruffalo. Il film dell'anno per potenza registica e tensione, pari a Inception, per alcuni versi simile, per altri diversissimo. Così tanto coinvolgente grazie alla regia che i colpi di scena della trama passano quasi in secondo piano. Anche questo, da vedere e rivedere. Neanche un film italiano nel meglio di quest'anno, a parte Draquila. Forse, La Prima Cosa Bella di Paolo Virzì è il film italiano migliore che ho visto quest'anno, insieme a Mine Vaganti. Ma è comunque roba vecchia, commedie ben riuscite, un paio di gradini sopra a Benvenuti al Sud e Basilicata Coast to Coast. Poi? Fanno storia a sè La Pecora Nera di Ascanio Celestini (interessante e commovente, anche se inferiore al monologo omonimo) e Draquila di Sabina Guzzanti, instant movie sulla tragedia del terremoto. Se i lavori più originali vengono da artisti più legati ad altre forme di spettacolo, mentre gli altri navigano a vista cercando solo un buon soggetto per l'ennesima commedia o puntando tutto sull'interpretazione dell'attore principale (Gorbaciof, con Toni Servillo), sarà difficile uscire da questa impasse. Nel 2011 torna Moretti, finalmente. Nanni, ci meritiamo Alberto Sordi, ma abbi pietà almeno tu.
Last, but not least, grazie a:
Mary (67 + tutto il resto) , Daniele (13), Andrea (10) Guido (7), Angelo & Roberta (6), Federica (4) & Francesco (4) Ivano (3), Stefano (2), Cristiana (3), Andrea (2), Vittoria (2), Rowena (2) & Riccardo (1), Flavio (2)& Giordana (2), Laura, Maurizio.

mercoledì 29 dicembre 2010

Not In Kansas Awards 2010: IL PEGGIO

Giunti in fondo ad un lungo anno di cinema, tiriamo un po' di somme! Ecco il meglio ma soprattutto il peggio del 2010. I film che ho visto quest'anno sono stati 86 , ma per queste classifiche non considero i film visti in replica (Ritorno al Futuro, Hair, Rocky Horror, Nausicaa della Valle del Vento) e neanche quelli usciti quest'anno ma che ho visto l'anno scorso in anteprima. Su tutti, Tra Le Nuvole di Ivan Reitman con George Clooney, che ritengo uno dei migliori film in assoluto degli ultimi anni (e quindi sicuramente da top 10). CATEGORIA PEGGIOR FILM: In ordine sparso, i peggiori 10 dell'anno, così brutti che persino l'ultimo di Allen e La Bellezza del Somaro non sono riusciti a farne parte (e ce ne vuole...): 10) Il figlio più piccolo di Pupi Avati
Altro che Cary Grant: De Sica non si contiene, Zingaretti gira a vuoto, la Morante è insopportabile. Il Wall Street de noantri non funziona in nessun modo. Pupi Avati meglio quando si lascia andare all'amarcord che alla satira.

9) Fuori Controllo di Martin Campbell

Uno dei peggiori film che ho visto negli ultimi 29 anni. Brutto quasi quanto Un Alibi Perfetto con Michael Douglas dell'anno scorso...va bene che da brutti film nascono recensioni divertenti, però c'è un limite a tutto...

8) Nine di Rob Marshall

Cast stellare e due palle così. Il tipo di musical che proprio non mi va giù, con un sacco di attori italiani a fare particine squallide di contorno.

7) Brotherhood di Nicolo Donato

Quattro barzotti per un danese. Nazisti. Gay.

6) Dog Sweat di Hossein Keshavarz

Di certo non ha sudato lo sceneggiatore, che però è un cane. In Iran i giovani vivono normalmente. A parte che non ci credo, comunque STI GRANDISSIMI CAZZI: se non succede niente, che c'è da raccontare?

5) I want to be a soldier di Christian Molina

Valeria Marini. Recita. In INGLESE. Però il bambino che le dice "non sembri una maestra, sembri una troia" vale lo strazio del film ( o quasi).

4) L'uomo nell'ombra di Roman Polanski

Ammetto che questo forse non l'ho capito io, viste le critiche entusiastiche di mezzo mondo. Però obiettivamente la storia non sta in piedi.

3) Somewhere di Sofia Coppola

Film ad uso e consumo delle superstar di Hollywood stressate e depresse per il troppo benessere. Sofia, hai rotto le palle. Ma veramente.

2) Indovina chi sposa Sally di Stephen Burke

Pessimo esempio di contaminazione di comicità americana ed inglese, non si ride mai. E Sally Hawkins è insopportabile.

1) Avatar di James Cameron

Riporto integralmente la mia recensione: che cazzata.

Non è cinema, è uno spot alla tecnologia. Si vede meglio su un bel monitor full HD che al cinema, ma non c'è sostanza comunque. James Cameron è George Lucas senza idee.

The Winner is....

0) il 3D Un anno di film pietosi, emicranie, prezzi maggiorati e colori alterati, e neanche un film che ne abbia giovato. Speriamo passi in fretta questa moda...Per Ritorno al Futuro c'era la coda al cinema, a qualcuno sarà venuto in mente che forse un buon film è meglio?

CATEGORIA DELUSIONE dell'anno, ecco i vincitori:

5) Alice in Wonderland di Tim Burton Non ne resta traccia, Burton annacquatissimo. Peccato perchè per gli occhi è uno spettacolo. 4) Iron Man 2 di Jon Favreau Un trailer di due ore di Thor e del film de i Vendicatori. Peccato. 3) Happy Family di Gabriele Salvatores Salvatores fa come i discografici italiani negli anni sessanta, fa una cover e si dimentica di inserire i credits degli autori originali sull'etichetta. Mia madre pensava che Pregherò fosse originale. Poi ha sentito Stand By Me. Happy Family sta a I Tenenbaum come il terribile pezzo di Celentano sta a quello di Ben E. King. 2) Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni di Woody Allen Woody, io i soldi te li continuo a dare finchè tu fai film, perchè ti voglio comunque troppo bene. Però dai. 1) La Nostra vita di Daniele Luchetti

Rispetto ad altri film di Luchetti, mi è sembrato meno sincero ed efficace. Ma sono gusti. Poi Germano ha un po' rotto.

CATEGORIA PEGGIOR ADATTAMENTO DI TITOLO

Per questa categoria entrano necessariamente in gioco anche film che non ho visto, ma di cui ho potuto disprezzare il titolo. Sicuramente qualcosa mi è sfuggito o il mio cervello lo ha rimosso per decenza.
5) Dragon trainer (How to train your Dragon)e American Life (Away we go)

La nuova moda degli adattatori di titoli, dopo le ipotetiche (Se mi lasci ti sposo, Se scappi ti sposo, Se mi sposi ti sposo eccetera): cambiare il titolo ma lasciarlo in americano. Perchè è più cool e produce un income di revenues maggiore del target. Provinciali.

4) Indovina chi sposa Sally (Happy Ever Afters)

Già il film fa cagare (o cacare, tanto fa schifo sia a Roma che a Milano), poi si sono inventati questo misto pessimo che ricorda Indovina chi viene a cena, Harry ti presento Sally, ma che rientra nella consueta prassi A) di rivolgersi allo spettatore, B) di coniugare nel titolo il verbo sposare. Con l'aggravante che Sally NON è un personaggio, bensì il nome dell'attrice.

3) Piacere sono un po' incinta (The Back-Up Plan)

Scelgo questo in rappresentanza di tutte quelle commedie romantiche stantìe come il pandoro di Guido che dal 2006 è nella credenza di casa, che si distinguono, in originale, solo per l'atroce attrice protagonista ed il titolo. Che in Italia inevitabilmente diventa uguale per tutte. Così dopo un po' di tempo non ricordi più se è a Jennifer Aniston che sono cresciuti i baffi o a Jennifer Lopez che è cresciuto il naso.

2) Un weekend da Bamboccioni (Grown-Ups)

Ma fra venti anni, quando - sperabilmente - il ministro Brunetta e Padoa Schioppa saranno solo un vecchio ricordo sbiadito, chi saprà spiegare questo titolo? Probabilmente non ce ne sarà bisogno, visto che non credo sia un capolavoro, ma solo l'ennesimo esempio di autoerotismo cinematografico di Adam Sandler. Comunque, pessimo titolo.

1) We want sex (Made in Dagenham)

Questo vince a mani basse: non solo SEX è scritto a caratteri cubitali sulla locandina, tanto da far pensare a quantità di amplessi degne di un porno, ma ricade anche nella categoria della traduzione in un'altra frase inglese. Inoltre, è un raggiro bello e buono: il film parla della battaglia delle lavoratrici per la SEX EQUALITY, da cui lo slogan We Want Sex Equality, da cui il titolo italiano, che dimentica furbescamente la parola chiave. Comunque, chi si lascia infinocchiare se lo merita.

La cosa peggiore vista al cinema, anche quest'anno, resta la gente, dalle cassiere agli spettatori. Così maleducati, così soprendentemente imbarazzanti da far impallidire qualunque sceneggiatura e qualunque effetto speciale. E purtroppo, sono in 3D (4, considerando gli odori...). C'è di che vergognarsi, stiamo diventando un popolo da terzo mondo.

A presto con il meglio del meglio del meglio........

Quale gobba?

Lupo ululà, castello ululì, il 2 e 3 febbraio al C I N E M A!!!!

martedì 28 dicembre 2010

See Mike Draw e il 3D

Questa vignetta del sempre geniale Mike (autore di strisce sul cinema da restare fulminati dalle risate) riassume perfettamente ciò che penso accada per i film 3D... (click sull'immagine...)

giovedì 23 dicembre 2010

American Life

Dopo Revolutionary Road, non ufficiale seguito di Titanic, con le illusioni giovanili di Leo & Kate che affondavano contro l'iceberg della realtà, Sam Mendes torna a prendere a picconate l'American Way of Life con Away We Go (...tradotto incomprensibilmente con un altro titolo americano e arrivato da noi dopo un anno dall'uscita, sempre perchè non ci facciamo mancare niente). C'è un netto cambio di prospettiva, è evidente. Revolutionary Road era una spietata e tragica cronaca delle conseguenze di una scelta sbagliata, dell'illusione dell'onnipotenza e della perfezione del sogno americano. Away we go è diverso: la coppia è giusta, giustissima. E' il contesto ad essere inquietante, o forse solo non esattamente il migliore dei mondi possibili in cui mettere al mondo un bambino. La famiglia, il lavoro, gli amici, i parenti: sono certezze che non abbiamo, variabili che non possiamo controllare del tutto. Possono sparire, cambiare, rivelarsi fragili. Che si fa? Dai film di Mendes si esce con la domanda (o più di una...), ma senza una risposta rassicurante. Il taglio dato all'opera, con attori non certo di richiamo e un impianto da film indipendente, aiuta a capire che Mendes ci racconta un'altro pezzo ancora di America: una generazione un po' abbandonata a se stessa, in cui però la fiducia - seppur messa continuamente alla prova - non crolla, soprattutto se si riesce a creare un percorso insieme a qualcuno, a stabilire le proprie fondamenta anche se vengono a mancare le sicurezze che l'occidente promette, dall'aiuto dello stato a quello dei genitori alla sicurezza di un lavoro. Finalmente, un film che racconta sinceramente una storia, che anche se innestata pienamente nel cinema di Mendes, è basata sapientemente su personaggi costruiti a tutto tondo, di cui svela di scena in scena l'umanità, magari con i dettagli più insignificanti (la fissazione di lui per le tette della sorella della di lei è geniale, ma non è la sola, così come l'avversione per il passeggino del personaggio di Maggie Gyllenhal), certamente forzando un po' le situazioni familiari incontrate dai due, tutte in qualche modo scoraggianti, ma mai al punto da risultare finte. Una bella intesa tra i due attori principali, John Krasinski e Maya Rudolph, regala sorrisi e lacrime sinceri, per un film piccolo e grande allo stesso tempo. La coppia formata da Ben e Verona non ha niente di cinematografico, sfugge a tutti i clichè del genere: sembrano due persone reali catapultate in un film assurdo, non si può non rimanerne conquistati. Aiuta senz'altro il fatto di non averli già visti altrove, ma anche la loro bravura nel non essere mai sopra le righe senza motivo, merito anche di una sceneggiatura calibratissima e curata nei dialoghi (d'altra parte è di Dave Eggers, noto scrittore, che ha scritto il bellissimo Nel Paese delle creature Selvagge). Questo è il vero film di questo Natale, un bel regalo davvero.

martedì 21 dicembre 2010

L'esplosivo piano di Bazil

Jean-Pierre Jeunet è il regista (tra l’altro) de Il Meraviglioso Mondo di Améliè e dell’altrettanto bello e meno noto Una lunga domenica di passioni. Il suo cinema recente si basa su personaggi surreali, pieni di tic e manie, fortemente connotati o nel fisico o nell’anima, che riescono però (o proprio per questo) a veicolare candidamente le emozioni più autentiche, magari con l’aiuto di qualche invenzione visiva che ti apre il cuore alla gioia di essere al cinema. L’esplosivo piano di Bazil (Micmacs à tire-larigot) non fa eccezione. Il ricco cast di divertenti personaggi (inclusi i “cattivi”) ruota intorno al piano di vendetta di Bazil reso prima orfano e poi nullatenente a causa di due mercanti d’armi a cui decide finalmente di farla pagare. Niente sangue, niente omicidi (non siamo mica in un film di Tarantino), addirittura quasi niente animosità: Bazil architetta il suo strano piano con estrema calma, aiutato da un gruppo di senzatetto di Parigi riuniti felicemente sotto una discarica a riciclare materiali di scarto per farne robot meccanici. Un po’ Gondry, un po’ Chaplin: il cinema di Jeunet racconta il momento di gloria di piccole strambe vite che vengono a contatto. Non c’è bisogno di sospensione dell’incredulità: dai titoli di testa mutuati dai vecchi film anni quaranta, alla splendida fotografia satura e irreale, alla discarica nascosta trasformata in fabbrica, è evidente da subito che stiamo assistendo ad una favola della buonanotte, o alla versione moderna di una vecchia comica, all’intento di strappare un semplice sorriso nella maniera più complicata e cinematografica possibile. Dany Boon è un silenzioso protagonista capace di contenere una vasta gamma di emozioni in un numero limitatissimo di espressioni facciali. Il cast, che annovera attori ricorrenti di Jeunet e qualche nome molto noto del cinema francese, funziona come un ensemble circesco: ognuno è un individuo fortemente caratterizzato dal suo “numero” (contorsionista, calcolatrice umana, uomo proiettile…) ma che risulta funzionale nell’economia complessiva dello spettacolo. Bravi gli attori e bravo il regista, nonostante qualcosa in termini di coesione manchi comunque. Rispetto ai suoi due predecessori, che mi erano piaciuti moltissimo, L’esplosivo piano di Bazil manca infatti un po’ di originalità e di profondità, così come di quell’aura fiabesca che faceva da cornice ad Améliè, ma è sicuramente un film particolare e diverso dal solito, qualcosa da non lasciarsi sfuggire, per continuare o iniziare il viaggio nell’umanità buffa e varia di Jeunet.

lunedì 20 dicembre 2010

La Bellezza del Somaro

Un architetto romano che nasconde l’amante dietro un matrimonio felice, un medico alle prese con l’ex moglie isterica e i suoi problemi con i figli, un napoletano che non riesce ad imparare l’inglese e ha comprato un pitone domestico al figlio. Le tre famiglie si ritrovano in un casale nel Chianti dove tutte le magagne vengono fuori tra una torta in faccia e una canna liberatoria ed un vecchio pedofilo che insidia la giovane figlia dell’architetto. Così, di getto, la trama cosa vi ricorda? Vi aiuto: fate finta che l’architetto sia Christian De Sica, il medico Massimo Ghini e il napoletano Biagio Izzo. Cinepanettone? Natale nel Chianti? Eh no. Perché basta che il regista sia Sergio Castellitto e non Neri Parenti, e gli interpreti siano Castellitto, Marco Giallini, Gianfelice Imparato e Laura Morante invece di Nancy Brilli e tutto ciò si trasforma all’istante in intrattenimento intelligente, non volgare, di sinistra, addirittura di interesse culturale. Perché no, un’attenta analisi in forma di commedia del fallimento umano ed ideologico di una generazione di successo. I casi sono due. O Questo film è vero, e siamo messi male noi, o questo film è finto, e sta messo male Castellitto (e la moglie MM che gliel’ha scritto). Propendo, ovviamente, per la seconda ipotesi. La Bellezza del Somaro è l’equivalente radical chic di Natale in Sudafrica. Target sociale diverso, stessa mistificazione della realtà, stessa superficialità nel trattare gli argomenti e i personaggi. Mi chiedo cosa ne sappia la famiglia Castellitto, che parla dall’alto di una vita privilegiata e agiata, della propria generazione, dei padri di famiglia e dei problemi che affrontano, se il massimo che sa fare è questo. E se Castellitto difende solo i pochi come lui, arrivati eppure pieni di dubbi (pieni di dubbi?), beh mi chiedo a chi giovi questo cinema così autoreferenziale. Un grande come Mario Monicelli ci ha appena lasciato. La sua eredità è fatta di storie verosimili, di personaggi – per quanto comici – autentici nella loro tragicomicità. Dietro a tutto quello c’era una visione critica e chiara della vita, dell’Italia e degli italiani. Una visione che poteva essere declinata in forma comica o drammatica, tanto era la sua stessa solidità a reggerne la forma. Oggi si parla solo per stereotipi di classi sociali, puntando soprattutto alla classe medio-alta che va al cinema e che ne deve uscire rassicurata e non messa in discussione. Natale in Sudafrica, La Bellezza del Somaro, Baciami Ancora, Maschi Contro Femmine. Non c’è alcuna differenza di fondo, solo la stessa presunzione. (E gli stessi titoli di coda: te credo che sono tutti uguali i film, se il cast tecnico è composto sempre dai soliti quattro nomi...) Il cinema ha bisogno di storie e personaggi, di conflitti e risoluzioni, di interpretazione della realtà in qualche forma: comica, metaforica, drammatica. In Italia oggi vedo principalmente registi che non sanno filmare nient'altro che quello che vivono e che vedono, presumendo (a torto) che sia interessante. Troppo facile dire che questa è l’alternativa alla volgarità, quando l’alternativa è De Sica. Se poi si scade nel pecoreccio ogni volta che c’è una battuta (il personaggio di Marco Giallini è identico ad un qualunque De Sica natalizio), allora è una presa in giro bella e buona, hai voglia a citare Freud ogni tre battute, così che il pubblico non pensi di aver visto un film di basso livello. Tanto basta ingaggiare la Morante e farla strillare come una pazza. Ma non si stufa anche lei di questi ruoli da isterica? Come se non bastasse, regia, montaggio e colonna sonora sono quantomeno discutibili (i Cranberries???). Sembra che Castellitto non abbia trovato la cifra giusta per il tono che voleva dare al film, mettendola infine sul piano della confusione espressiva. Un vero peccato, era lecito aspettarsi di più, ma ormai questa mediocrità non fa più notizia.

martedì 7 dicembre 2010

Rapunzel

“Questa è la storia di come sono morto” (Flynn - narratore)
"Cominciamo Bene" (madre di famiglia dietro di me)
Credere nei propri sogni, realizzarli e cercarne degli altri. Questo è un po’ il filo conduttore di Rapunzel, il messaggio da biscotto della fortuna che non manca mai nei sedicenti Classici Disney. Un po’ come il diamante grezzo di Aladdin o il Cerchio della Vita de Il Re Leone (si parva licet). Il problema è che a mio avviso il film stesso tradisce questo pur importante messaggio. C’è qualcosa che non funziona nell’insieme, e, dopo averci pensato un po’ credo di averlo capito. E’ vero, i pezzi musicali sono trascurabili e la protagonista è letteralmente inquietante: occhi enormi e sempre sgranati neanche l’avessero nominata ministro delle Pari Opportunità, corpo minuto, nasino alla francese, bionda come una barbie, petulante ed infantile. Se è vero che le principesse Disney oggi sono un modello solo per le bambine sotto i sei anni, Rapunzel è un pessimo modello, sotto ogni punto di vista.
Il problema però è che o credi alle fiabe (inteso anche come modello di business) o non ci credi. Non puoi proporre una formula e rinnegarla allo stesso tempo ad ogni occasione, ricordando a tutti che, ok, siamo la Disney e facciamo le Principesse, ma Shrek l’abbiamo visto anche noi e ormai abbiamo capito che tirano di più la presa in giro e l’ammiccamento continuo. E’ la morte – dolorosa - della magia Disney, che si basa sull’assunto che la forza delle immagini, dei personaggi e dei messaggi, sia senza tempo ed universale, per il film, che sfugge al giudizio del tempo, e per lo spettatore che riesce ad accedere ad una zona della propria mente in cui l’età, la vita ed i riferimenti culturali si fanno da parte per credere.
Almeno per i maggiori film Disney, è così. Per Rapunzel, no.
Il fatto che Rapunzel abbia attraversato una lunga e contorta fase di produzione e che il titolo originale sia stato cambiato in Tangled per allargare il target anche al pubblico maschile seienne sono la prova della sfiducia intrinseca di Disney per il proprio marchio di fabbrica. Tra l’altro, il box-office li sta smentendo. Il modello musical poi non è finito, ma va sostenuto degnamente: o hai pezzi davvero forti (tipo quelli di Aladdin) oppure è meglio lasciar perdere, le canzoni affossano il film, le sequenze musicali sono prive di fascino e ripetitive: quelle cantate da Rapunzel sono fastidiosissime e poco orecchiabili, quella nella taverna, seppur divertente, è figlia appunto di una controcultura da parodia più che della tradizione disneyana. Restando al film, cresce con il passare dei minuti. Parte zoppicando, tra le solite canzoncine e una principessa che più insulsa non si può (anche il doppiaggio della Chiatti non aiuta). A salvare la baracca arriva l’antieroe (non è più tempo di principi azzurri…), Flynn Rider, che aggiunge un po’ di pepe alla vicenda. E’ proprio lui, anche narratore, in effetti, a maturare nel corso della storia, anche se in maniera scontata, mentre Rapunzel più che altro passa da un sorriso a trentadue denti ad un altro. I personaggi di contorno funzionano bene, anche se hanno ruoli minori rispetto al solito: d’altra parte la scelta di non far parlare gli animali (che però ovviamente offrono una gamma di espressioni e sentimenti tutti umani) limita molto l’efficacia di tali ruoli nella storia e nella memoria dello spettatore. I cattivi sono tutt’altro che memorabili: al contrario del solito distillato di cattiveria, Madre Gotel, la vecchia che rapisce Rapunzel per sfruttarne i poteri, si rivela anche una madre premurosa e risulta difficile da odiare come una Malefica o una Grimilde. Stesso discorso per i due gemelli a caccia di Flynn, tutti muscoli e pochi neuroni, nessuna battuta degna di memoria. I due stoccafissi che andavano in giro con la strega del Mare della Sirenetta erano molto più paurosi. Dal punto di vista tecnico Rapunzel è un grande passo avanti verso uno stile finalmente originale, una computer grafica finalmente matura che sembra 2D per l’uso dei colori e delle luci. La scena delle lanterne è semplicemente spettacolare e vale da sola tutto il film, ma in generale l’effetto delle luci e la regia fa la differenza rispetto al resto della produzione Disney in CG, che finora aveva davvero lasciato a desiderare. Questo è il punto da cui ripartire, secondo me, verso un nuovo rinascimento disneyano. Non secondo loro, però, visto che nel 2011 arriva Winnie The Pooh in 2D e disegnato a mano. Un passo avanti e due indietro.

Nowhere Boy

“Perché Dio non mi ha fatto Elvis?”
“Perché ti ha destinato ad essere John Lennon”
Domani ricorre il trentesimo anniversario della morte di John Lennon, ucciso proprio perché quel destino profetizzato (nel film) dalla madre Julia John lo aveva in parte rinnegato, o in qualche modo messo in discussione, ritirandosi dalle scene per cinque anni e minimizzando con la sua ironia a chi gli chiedeva cos’erano i Beatles. Nowhere Boy di Samantha Taylor-Wood però parla d’altro: è la storia di un adolescente difficile, diviso tra una madre naturale ed una de facto (la zia Mimi), che si sente amato ma non nel modo giusto, che non sa come reagire e che trova finalmente in una chitarra il modo giusto di incanalare la sua rabbia. Emblematico lo scambio di battute con Paul: John gli fa notare che non sembra molto “rock’n’roll” con i suoi modi da bravo ragazzo, e Paul risponde che a lui piace solo la musica, gli altri atteggiamenti da rock star non gli interessano (avrà tempo per cambiare idea, ma questa è un’altra storia, e del resto il vero McCartney ha dichiarato che Nowhere Boy non è esattamente un film storicamente filologico). Magari questo scambio di battute non sarà mai avvenuto, ma è la chiave di lettura ideale sia di un grande rapporto che della sua stessa fine, con Paul ad inseguire forme musicali e John a cercare disperatamente di uscire dal dolore che non lo ha mai abbandonato. E’ vero che è difficile dimenticare chi è e chi sarà John, mentre si guarda il film, ma in effetti la vicenda si incentra intelligentemente sul rapporto tra John e sua madre Julia, dal loro riavvicinamento alla tragica morte di lei. E’ la storia di un adolescente negli anni Cinquanta, quando saper suonare la chitarra ed essere un leader poteva fare la differenza tra un lavoro al porto di Liverpool e una speranza di essere qualcuno. O forse no, ma almeno per uno è stato davvero così.

Non c’è bisogno di essere fan dei Beatles per apprezzare la colonna sonora o l’interpretazione di Aaron Johnson (bravissimo) e di Kristin Scott-Thomas (nei panni di Mimi)… certo quando John e Paul si stringono la mano per la prima volta, si avverte chiaramente un fremito nella Forza. Ci sono degli ottimi momenti di cinema e questo è quello che conta, una volta seduti in sala: l’iniziale omaggio ai Beatles (unico e neanche troppo palese), la sequenza finale con In Spite of All the Danger, la sequenza in cui John impara a suonare la chitarra, l’incontro con Paul. Non amo i biopic, ancora meno le agiografie, poi di mistificazioni sui Beatles ce ne sono fin troppe. E’ una storia troppo recente (e troppo ben documentata) per diventare leggenda e incorporare in quanto tale tutte le versioni alternative degli odierni cantori dei media, che diventano la storia ufficiale agli occhi delle persone meno informate. E’ una pratica disonesta e furbetta, irrispettosa delle persone che guardano e che sono raccontate. John Lennon è stato un genio del pop, ma soprattutto una persona complicata e tormentata, capace di scrivere Imagine ed essere un pessimo padre, per la quale scindere il lato artistico e quello umano è praticamente impossibile: non si deve fare l’errore di ridurre ad un film la sua complessa personalità. L’uomo ed il personaggio John Lennon sono la stessa faccia della medaglia, non si può raccontare uno senza l’altro, e tradire la verità sulla sua vita implica tradire anche la sua arte. A John non sarebbe certo piaciuto piegare la sua storia alla fiction.
Per cui sia chiaro: il John di Nowhere Boy non è quello che fonderà e poi scioglierà i Beatles, non è quello che sposerà Yoko Ono e non è quello che morirà a New York per mano di uno psicolabile qualche anno dopo. Però, in certi momenti, gli assomiglia maledettamente e ci ricorda quanto il vero John ci manchi.