giovedì 30 giugno 2011

Transformers 3



E anche 'sta trilogia ce la siamo tolta dalle palle.

Durante la promozione di questo terzo capitolo, la frase che ho letto di più è che Transformers 2 era stato un incidente di percorso, come se un film del genere possa uscire per caso, mentre Transformers 3, ah signora mia, questo sì. E invece no, per niente. Se avessi visto prima Transformers di Cars 2, non avrei parlato così male della Pixar. E Cars 2 fa veramente pietà.

Il cinema di Micheal Bay è pieno di gnocca ed esplosioni più, in questo caso, enormi robot alieni parlanti. In termini generali, non sono contrario ad alcuno dei sopracitati elementi, anzi, ma ci vuole metodo e misura anche nel far saltare per aria Chicago. Il vero problema non è sulla scala grande, però, bensì su quella piccola: i personaggi del film sono tutti monodimensionali e senz’anima, umani e robot allo stesso livello. Alla spettacolarità delle scene d’azione – in particolare quella delle persone nel palazzo che crolla – si contrappone una incapacità drammatica di dare sostanza alle sequenze di alleggerimento o a quelle sentimentali, quelle insomma attraverso le quali dovremmo stabilire un contatto con i personaggi e preoccuparci della loro sopravvivenza. La trama è di una inconsistenza scoraggiante (neanche mi spreco a scriverla), i personaggi vengono presentati ed abbandonati rapidamente senza alcun senso: il personaggio di John Malkovich è un esempio lampante, ma anche i genitori di Sam sono delle comparse assolutamente irritanti e inutili, soprattutto per l’umorismo demenziale assolutamente fuori luogo. Invece di creare empatia, tutte queste sequenze non fanno che spezzare il ritmo della narrazione presentando quadretti superflui tra una scena d’azione e l’altra, prolungando inutilmente l'agonia.  E' tutto fuori fuoco, fuori luogo, posticcio: il motivo è che  la sospensione dell'incredulità  va in tilt, perchè vi si deve far ricorso più per le scene con soli umani che per quelle contenenti i robot.  

Dopo pochi minuti, il film è già insostenibile proprio a causa di questo pseudo-umorismo che dovrebbe coinvolgere e per la pretestuosità di certe sequenze. La new entry Rosie Huntington Whiteley, che sostituisce degnamente –in quanto cagna e in quanto gnocca –Megan Fox, si nota per la sua entrata in scena –una prolungata sequenza che forse vale il sovrapprezzo del 3D in cui si seguono le sue notevolissime chiappe seminude in primo piano, - e per il fatto che, dopo essere stata sballottata per una Chicago distrutta ed essere sopravvissuta al crollo di un grattacielo in pieno stile Bay, arrivi alla fine del film senza un graffio, con trucco e parrucco perfetti e con i vestiti (BIANCHI) perfettamente puliti ed integri. Che avesse una clausola nel contratto? Mah.

Shia Leboeuf è un ottimo attore, potrebbe essere il nuovo Harrison Ford, peccato che invece di Star Wars si sia trovato nell’era dei Transformers, saga che fa apparire i dialoghi di Lucas degni di quelli di William Shakespeare. Non basta, come non basta aggiungere peso specifico al cast con Patrick DempseyJohn Malkovich (sprecatissimo) e Frances McDormand (sempre meravigliosa, chissà che penserà il marito di questa deviazione nel blockbuster…).

Dopo tre film si può affermare che l'elemento che funziona peggio  in questa saga patetica sono i robot, a cui proprio non ci si riesce ad affezionare, cosa piuttosto grave, essendo essi l'elemento centrale del film. Gli Autobot sono privi di personalità, poco accattivanti esteticamente, poco interessanti, poco sfruttati come personaggi al di là delle scene d'azione e di quelle comiche (che gli si addicono pochissimo). I Decepticon, invece, sono tutti uguali anche esteticamente e si fa una gran confusione per capire chi sia chi. A parte Isabel Lucas in Transformers 2.

Della battaglia tra il logorroico e antipatico Optimus Prime e Megatron (sì, ancora) ce ne frega poco, anche perché finisce come al solito, con Optimus a togliere le castagne dal fuoco a tutti dopo essersi attardato per chissà quale motivo (probabilmente per tenere uno dei suoi pomposi discorsi moraleggianti che Micheal Bay deve a tutti i costi propinarci in testa e in coda al film).

Transformers 3 è un brutto film (quasi quanto I Guardiani del Destino) e Transformers è una brutta saga che racchiude tutto il peggio del cinema americano moderno: è la deriva finale dei blockbuster anni ottanta, di cui è rimasta la forma ma si è persa la sostanza. Che produca proprio Steven Spielberg è un ironico ed amaro dettaglio. 

Meno male che tra un po’ esce Super 8.

lunedì 27 giugno 2011

Cars 2


Doveva arrivare questo giorno. Sto per stroncare un film della Pixar, il mio studio cinematografico preferito, quello che consideravo infallibile, un esempio, un punto di riferimento. D'altra parte, sono loro che hanno fatto un film di m....

C'era bisogno di Cars 2? Per rispondere, chiediamoci prima di tutto, c'era bisogno di Cars?
Nell'incredibile famiglia Pixar, che ci ha abituati ad un capolavoro all'anno, Cars è il fratellino simpatico ma un po' scemo, figlio prediletto di John Lasseter e dunque - di riflesso - rispettato, ma non amato da nessuno.
Da nessuno sopra gli otto anni: perchè Cars - fratellino scemo - è un mostro in termini di indotto relativo al merchandising. Dalle macchinine all'abbigliamento, virtualmente ogni bambino del mondo occidentale conosce, ama e - soprattutto - colleziona Cars.
Inevitabile dunque mettere altra legna per rivitalizzare il parco personaggi ed opzioni (almeno tre o quattro personaggi di Cars 2 potranno essere venduti in varie "versioni").

Cars 2 (addirittura co-diretto da Lasseter e Brad Lewis) è destinato dunque ad un pubblico diverso da Cars: non a caso stavolta il protagonista -assoluto - è Cricchetto, carro attrezzi idiota che nel primo faceva da spalla (poco) comica, e che in questo secondo episodio si fa coinvolgere in una spy-story che ricalca un Bond movie a suon di luoghi comuni e citazioni. Mentre Cars era una storia banalotta sul valore dell'amicizia e sulla bellezza dell'America on the road, Cars 2 è solo un gran casino di corse e gag che annoiano gli adulti ma intrattengono i bambini, suggerendo qualche scenario un po' più interessante della provincia americana per far correre le proprie macchinine.
Il problema è che - al contrario di altri film Pixar- Cars 2 esclude le altre categorie di pubblico e non fa nulla per coinvolgere chi non ha passato gli ultimi quattro anni a giocare con un modellino di Saetta McQueen.

Un film inconsistente, al di sotto degli standard qualitativi Pixar (persino il corto iniziale è poco ispirato), realizzato palesemente a scopi commerciali, neanche fosse Kung Fu Panda. Al contrario dei due seguiti di Toy Story, Cars 2 non porta la storia da nessuna parte, non approfondisce i legami tra i personaggi (anche perchè praticamente cambiano tutti), non aggiunge nulla che non potesse essere contenuto nei titoli di coda del primo film.
Come se non bastasse, l'auto italiana doppiata da John Turturro è stata affidata ad Alessandro Siani. Ho tifato per un rovinoso schianto dall'inizio alla fine.

Gli ultimi due film Pixar sono stati sequel, l'anno prossimo ci sarà Brave e poi ancora un sequel (Monsters & co.). Pixar si è giocata il credito accumulato con Toy Story 3, che mi aveva fatto sospendere il giudizio preventivo sui sequel Pixar in attesa di verifica. Dopo Cars 2 sono ufficialmente preoccupato, anche se posso concedere le attenuanti del caso. Era difficile raddrizzare un concept evidentemente storto sin dal primissimo trailer. Ma come dice Cricchetto stesso, le macchine nate male non migliorano neanche con i pezzi di ricambio...e Cars era la Multipla del parco auto Pixar. Cars 2 è peggio, è la Duna.

Evitabile, sconclusionato, con buoni spunti nella trama rovinati da una scrittura evidentemente superficiale. Lasciate perdere...e se avete figli, fategli rivedere Toy Story a casa, è meglio. O magari, cogliete l'occasione per tentare un Miyazaki.

Fate un esorcismo a Lasseter, estirpate il demone DreamWorks che è in lui e aridatece Wall-E.

lunedì 20 giugno 2011

I Guardiani del Destino



I Guardiani del Destino. Tratto da Philip K.Dick (bello!). Matt Damon ed Emily Blunt (oh yeah!). Cosa potrebbe andare storto? Ecco cosa: dirige George Nolfi, che fa di tutto per ricordarci il disastro che realizzò con la sceneggiatura di Timeline (quella volta toccò a Micheal Chricton veder distrutta una sua opera).

Evidentemente Nolfi non pensa quadrimensionalmente e non conosce la regola d’oro della fantascienza secondo la quale puoi inventare tutte le regole che vuoi, a patto di non tradirle/aggirarle in nome dello spettacolo.  

Così, mentre i semionnipotenti Guardiani del Destino possono “congelare” il tempo per cambiare le idee delle persone, possono far scontrare macchine e teletrasportarsi grazie ai loro cappelli (mah) tra le strade di New York, ma solo a Sud, a nord meno (mah), non possono fare a meno di rincorrere Matt Damon per tutto il santo film. Ma fermalo e basta, no? Ma teletrasportati davanti a lui e dagli una bastonata in faccia, no? E no, altrimenti dove sta lo spettacolo? Sono stupidaggini come queste che ti impediscono di prendere sul serio un film che avrebbe potuto essere notevolissimo, in mani più capaci.
Che ci sia un problema di manico lo si capisce anche da quanto poco convincenti siano Matt Damon ed Emily Blunt, soprattutto nelle due scene in cui scoprono la realtà dei Guardiani: sopra le righe ai limiti del ridicolo entrambi, come non si erano mai visti (la Blunt che guarda al cielo gridando “cosa mi sta succedeeeendo?” mentre l’inquadratura si alza ad accentuare l’effetto drammatico…roba da carrettieri, direbbe Sordi). In più, ci sono evidenti problemi di montaggio, è come se tutte le parti più interessanti fossero state tagliate. Ci sono rimandi e allusioni a cose che sembrano dover importare ma che poi non vengono mai mostrate o raccontate.

Parliamo della trama, riscritta da Nolfi perché quella di Dick non gli piaceva (e certo, chi cazzo è sto Philip Kappa Dick, io so’ George Nolfi). ATTENZIONE SPOILER: Matt Damon si innamora di Emily Blunt ma i Guardiani del Destino si oppongono non si capisce bene perché. Allora Matt Damon prende il cappello dal guardiano nero un po’ sfigato ed in crisi di coscienza (che evidentemente aveva letto la sceneggiatura) e comincia a teletrasportarsi come un cretino mentre i Guardiani lo inseguono incazzati. Invece di congelarlo/bastonarlo come sopra. Daje e daje, alla fine il capo dei Guardiani manda una lettera che dice vabbè, avete fatto tutto sto casino, facciamo che potete stare insieme. Però aridacce il cappello che ti sei fregato. FINE SPOILER.

Sorvolando sulla tematica "Dio/libero arbitrio/destino", ormai abbastanza sviscerata e di cui comunque non si sentiva il bisogno (ma tanto Nolfi manco ci pensava), ci sono elementi nella trama che rivelano il potenziale inespresso del film. I Guardiani che si interrogano sulla liceità delle loro azioni potevano diventare il centro del film, se non si fosse optato per la storia d’amore più ridicola degli ultimi vent’anni. Matt Damon incontra la Blunt per cinque minuti in un cesso, poi dopo qualche tempo per cinque minuti sull’autobus, poi dopo tre anni. Ma non può fare a meno di lei. I Guardiani ci spiegano che secondo versioni precedenti del “piano del destino” , i due dovevano finire insieme (mentre la versione “attuale” del piano non lo prevede) e per questo si sentono attratti anche se non si vedono mai. A me me pare ‘na cazzata. Cioè: a parte che non si vedono mai , ma anche il loro amore è solo parte del piano. Poi, ma che scherziamo? Il piano del destino CAMBIA ogni dieci anni? E che destino è? Quindi a me che guardo, cosa me ne frega se si realizza un piano o l’altro? Tanto più che il finale svilisce la lotta dei personaggi contro il destino che li vuole separati, con un banale (letterale) deus ex machina. Lo spiegone finale non convince e puzza di fregatura e tutto il film serve solo a dimostrare che anche tra gli essere superumani che controllano il destino, se sei bianco, comandi, se sei nero al massimo fai casini e rovesci il caffè, se sei asiatico o ispanico, manco il caffè ti fanno gestire, se sei indiano non fai un cazzo, se sei Malcolm McDowell, sei il più cazzuto di tutti. Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?

Peccato perchè l'idea dei Guardiani (un po' Cielo sopra Berlino, un po' Matrix) e quella delle porte non sono per niente male...ma usate così diventano solo parte di una buffonata colossale. Nolfi, ma cambiare mestiere?

martedì 7 giugno 2011

X-Men: First Class


Ah, la prima elementare. C’era quello altissimo che ora gioca a basket, c’era quello ciccione che ora è un bel ragazzo, c’era quello che non avrebbe imparato la tabellina del 2 per i successivi cinque anni e neanche dopo, c’era quello denutrito e sporco che non so proprio cosa faccia, visto che non c’è su feisbuc, c’era quello che non giocava mai a calcio con noi e ora è gay. Più le femmine, ovvio: la razza mutante per eccellenza. Più alte, più sveglie, più stronze. Col tempo, le abbiamo superate. In altezza. In prima elementare è fondamentale capire poche cose: la differenza tra e ed è, il più (inteso come segno di addizione), le doppie, che le femmine ci sono e tocca tenersele (una volta mutate, verso l’adolescenza, diventeranno irresistibili, pur restando nella maggior parte dei casi insopportabili). Il resto, vien da sé.

Poche altre esperienze nella vita sono determinanti come la prima elementare: non capisci il più? Sei fregato. La matematica ti perseguiterà per tutta la vita.

Ecco perché alla Fox hanno deciso di prendere gli X-Men e riportarli in prima elementare: ovvero indietro nel tempo fino alla giovinezza di Xavier e Magneto ed alla costituzione del primo nucleo di X-Men.

Dunque, si (ri)comincia: anni sessanta, Charles Xavier (James McAvoy) è un giovane mutante che usa il suo potere telepatico soprattutto per conquistare le donne, mentre si laurea in genetica. Raven Darkholme (Jennifer Lawrence) è una trovatella mutaforma che Xavier accoglie nella sua casa. Erik Lenhsherr (Micheal Fassbender) è un sopravvissuto all’Olocausto in cerca di vendetta. Sebastian Shaw (Kevin Bacon) è un infamone senza scrupoli, ex nazista, che vuole scatenare la Terza Guerra Mondiale per salire al potere. Moira McTaggart è un’agente della Cia sulle tracce di Shaw che recluta Xavier come consulente sul fenomeno dei mutanti. Da grandi amici ad acerrimi nemici, da collaboratori della CIA a fuorilegge, da Charles a Professor X, da Erik a Magneto, da Raven a Mystica: questa è la storia di origini che gli X-Men, contrariamente agli altri supereroi, non hanno mai avuto.

E’ senza dubbio il capitolo migliore della saga, per vari motivi. Dal punto di vista narrativo, innanzitutto: i percorsi paralleli di Charles ed Erik si contrappongono, si attraggono per un momento e si separano nuovamente e drammaticamente (tipo una X), fornendo al film un centro emotivo fortissimo, in particolare con la storia di Erik, per di più su uno sfondo storico reale, la crisi missilistica di Cuba. E’ difficilissimo, dopo questo film, ripensare a Magneto nello stesso modo, non provare compassione: quello che la trilogia di prequel ha fatto per Darth Vader, First Class lo fa per Magneto. Se la chiave del primo X-Men era nella figura e nella storia di Wolverine, in First Class è proprio il futuro terrorista mutante, che cede alla rabbia invece che aprirsi alla compassione. E si sa: la rabbia conduce all’odio, l’odio conduce al Lato Oscuro della Forza. Micheal Fassbender è incredibilmente bravo a gestire le sfumature di un personaggio enormemente carismatico e tormentato, un eroe che precipita nel suo destino tragico di sostituto dei suoi stessi aguzzini nazisti, di profeta di una razza sedicente superiore in guerra contro la razza inferiore. Non c’è paragone con la parabola narrativa di Wolverine nella trilogia, che si perde strada facendo e di fatto non si conclude: la genesi di Magneto è la più emozionante che si sia vista in un film su personaggi Marvel.

Nella trilogia di Singer e Ratner, Xavier e Magneto (Patrick Stewart e Ian McKellen) sono due attempati rivali alle prese con le rispettive utopie. Si combattono a parole, si muovono poco, c’hanno un’età, si vede che il meglio è già passato, si sfidano a colpi di carisma: in First Class li vediamo giovani, potenti, ambiziosi e inesperti, a riflettere su da che parte stare. Stesso discorso per gli X-Men: nel primo film la squadra è composta da Ciclope, Jean Grey e Tempesta, tre soldati secchioni e disciplinati al soldo di Xavier ai quali si aggiunge, per fortuna, la variabile impazzita – ma ben presto allineata - di Wolverine. Il team di First Class è composto invece da giovani inesperti divisi tra un conflitto interiore fortissimo e la voglia di giocare a fare gli eroi, sconsiderati e coraggiosi, guidati da un duo di mutanti potenti ma avventati. Aggiungete dieci anni di progressi negli effetti speciali e una regia decisamente meno compassata di quella di Singer: Matthew Vaughn, dopo l’egregio lavoro svolto in Kick-Ass centra un altro obbiettivo: rendere gli X-Men veramente uno spasso (Banshee e Havoc sono letteralmente spettacolari).

James McAvoy funziona meglio nelle numerose scene leggere che in quelle drammatiche, ma tutto sommato ha una buona alchimia con Fassbender, che ricorda quella tra Patrick Stewart e Ian McKellen, ma con qualcosa di efficacemente diverso. Jennifer Lawrence e Nicholas Hoult (un giovane Hank McCoy, futuro Bestia già visto, più vecchio, in X-Men 3) si confermano interpreti interessantissimi, in grado di sostenere con intensità la sottotrama legata all’accettazione della propria diversità, essendo i loro personaggi segnati nell’aspetto fisico dalla mutazione. Anche in questo caso la condivisione del dolore porterà a scelte radicalmente diverse ed alla definizione delle due fazioni di mutanti, a fianco e contro l’homo sapiens. Deludente la performance di January Jones nei panni di Emma Frost, personaggio che comunque scompare nel secondo atto. Della sua prova resta solo il costume, che, pur lasciando molto poco all’immaginazione per la gioia del pubblico maschile, conferma che certe trovate grafiche che funzionano nei fumetti non possono essere riprese al cinema senza una dovuta rielaborazione.

L’ambientazione “sixties” rende le cose più facili: i costumi, la musica, le scenografie si sposano perfettamente con un concept decisamente vintage, più adatto a rappresentare i vari colori degli anni Sessanta che quelli dell’epoca attuale. Gli X-Men, metafora fumettistica dei diversi e degli emarginati, calati nell’epoca della diffidenza e della paura di uscire di casa. La cornice perfetta per un film a cui non si può mancare: pur essendo palesemente il prequel almeno dei due capitoli diretti da Singer (che ha scritto la storia e prodotto), come confermano due cameo assolutamente geniali e la piega che gli eventi prendono nel finale, X-Men: First Class è assolutamente godibile anche senza aver mai visto un solo minuto della trilogia precedente ed è il miglior film Marvel da diversi anni a questa parte.

Paul

“I’m an alien, I’m a little alien, I’m an Englishman in New York”

Alla domanda “Cos’è la fantascienza?” George Lucas ha sottolineato le questioni morali e filosofiche che si devono esplorare con questo genere, Steven Spielberg ha risposto parlando della libertà creativa che è ammessa quando si possono abbandonare alcuni limiti imposti dalla attuale conoscenza scientifica, James Cameron ha parlato della capacità della fantascienza di evidenziare alcuni aspetti dell’attualità che possono essere individuati meglio una volta portati fuori dal contesto dell’attualità.

La verità è al centro di un ipotetico triangolo composto da queste tre risposte (forse solo Asimov, Dick e Wells avrebbero maggiore autorità per rispondere, e credo che le loro definizioni non sarebbero state molto differenti). Privata di questi tre elementi, infatti, della fantascienza non resta che un guscio vuoto e questo in fondo è il problema di molti blockbuster che fanno finta di essere fantascienza ma sono solo action movie con astronavi (tipo Transformers o Independence Day, per capirci). Paul di Greg Mottola (Adventureland) soffre di questo problema, essendo una commedia sulla fantascienza che pretende di essere un film di fantascienza in chiave umoristica. Mancando sia fantasia, sia approfondimento filosofico sia analisi dell’attualità – a meno di considerare l’universo nerd un fenomeno da scoprire – è evidente che l’aspirazione è fuori luogo.

L’idea di fondo non è neanche male: Paul, l’alieno, precipita sulla terra nel 1947 (ma non a Roswell) e per sessant’anni collabora con il governo americano alla diffusione dell’idea che gli alieni forse ci sono. Ecco perché somiglia allo stereotipo dell’alieno basso e col capoccione e i suoi poteri sono simili a quelli di E.T. (il cameo di Spielberg è decisamente la scena migliore del film). Dal canto suo, Paul assorbe il peggio della cultura americana: fuma, parla in maniera sboccata (Seth Rogen nell’originale, un pessimo Elio in Italia), va in giro in infradito e ingurgita schifezze assortite. Fuggito dalla base dell’esercito prima di essere ucciso, Paul incontra due super nerd inglesi (Nick Frost e Simon Pegg) che, dopo un primo, comprensibile, attimo di panico, decidono di aiutarlo a fuggire, mettendosi contro gli uomini in nero e chi più ne ha più ne metta, come nei migliori film di inseguimenti nei deserti americani.

Peccato non aver approfondito un pochino la parte sulla vita di Paul prima dell’incontro con i due sfigatoni, perché tutto procede secondo copione (nel senso di uno che copia sempre) senza mai un’intuizione sorprendente o da ricordare, se si escludono gli innumerevoli riuscitissimi (e mai gratuiti, va detto) omaggi a Star Wars e a Spielberg. Astenersi profani e miscredenti.

Poco tempo fa qualcuno mi chiedeva (un po’ perplessa) per quale motivo ritenessi non aver visto Star Wars una lacuna culturale piuttosto grave e non facessi neanche finta di minimizzare per la buona creanza di facciata che si tiene quando non si conosce bene una persona (“ah, beh, no sai, Gigi D’Alessio non è il mio genere” invece di “Ascolti quella merda di Gigi D’Alessio? Allora non capisci veramente un cazzo di musica. Sarai pure gnocca, ma sei proprio demente” ). Paul, in parte risponde alla domanda: oggi non aver visto Star Wars significa non avere uno dei riferimenti principali della cultura del ventesimo secolo, nel campo del cinema e dell’intrattenimento. Per carità: si vive anche senza sapere chi è Picasso, figuriamoci George Lucas. Ma se lo sai, beh, è tutta un’altra cosa. Film come Paul non esisterebbero senza i film di Lucas e Spielberg, che hanno riportato la leggerezza nel cinema americano dopo gli anni settanta e hanno inciso sulla fantasia di generazioni di spettatori (e futuri artisti) proprio come moderna mitologia, trascendendo diversità culturali, generazionali ed etniche.

L’eccessiva autoreferenzialità e la banalità di Paul lo rendono un prodotto minore, quasi un fan movie ad alto budget, ma in fondo sto pensando che se inglesi e americani non si capiranno mai del tutto, e discutere con quei mattacchioni dei creazionisti è tempo perso è perché continuamente vediamo ciò che ci divide dal prossimo prima di quello che ci potrebbe unire. Il miracolo di Star Wars, o di E.T., dunque, è stato innanzitutto quello di essere un terreno emotivo comune, un punto di riferimento costante nel tempo e nello spazio che ci riporta allo stupore ed all’emozione dell’infanzia anche se li abbiamo visti a trent’anni per la prima volta, e ad una comunicazione che travalica gli ostacoli culturali, ad un’innocenza che è necessario proteggere ed, ogni tanto, tirare fuori. Paul, in un modo o nell’altro, racconta una cosa così.

PS non so quale telegiornale l’abbia spacciato per tale, ma Paul non è un film per bambini: la sala era piena di decenni entusiasti per un film che contiene una volgarità ogni quattro parole e quasi sempre a sfondo sessuale. Complimenti ai genitori, ci metteranno settimane per far smettere i figli di chiamarsi reciprocamente “palle aliene”.