Clint Eastwood non ci gira mai intorno. Ero curioso di vedere come avrebbe coniugato il suo cinema così laico, terreno, cinico e umano con un tema controverso come quello dell’aldilà, considerando che già dal trailer si intuisce che il film accoglie senza mezzi termini la tesi dell’esistenza di un “hereafter”. Non è questione di essere d’accordo, ci mancherebbe: probabilmente neanche Eastwood lo è.
A parte lo stile impeccabile e una sequenza iniziale bellissima, rimangono più ombre che luci su questa escursione nel sovrannaturale dell’ispettore Callaghan. Non è facile individuare un motivo preciso per cui penso che questo Hereafter non sia riuscitissimo, però, se penso agli ultimi film di Eastwood, la prima differenza che salta all’occhio è il numero di personaggi. Tre personaggi principali e tre storie che si intrecciano solo negli ultimi minuti del film e un po’ forzatamente, sono troppe per essere davvero coinvolti o per rendere in maniera efficace il dramma di ciascun personaggio (come accadeva in Gran Torino o Changeling). Il personaggio di Matt Damon, George Lonegan, medium riluttante, è il più debole, perché è il meno realistico, a meno di credere che i medium non siano tutti dei ciarlatani: il suo dramma è la condanna del suo “dono”, ma oltre a non riuscire a portarsi a letto Bryce Dallas Howard più rossa che mai a causa di una seduta spiritica non mi pare che vada. Effettivamente è un brutto colpo, ma era già sovrannaturalmente irreale la catena di eventi che gliel’aveva servita su un piatto d’argento: sfido chiunque a ritrovarsi ad un corso di cucina affiancato alla più gnocca della compagnia invece che al cesso di turno e scoprire anche che la gnocca siderale non desidera altro che compagnia…
Le altre due storie vedono Cecile de France (vista e apprezzata in versione lesbo in L'appartamento spagnolo) nei panni di Marie, una giornalista sopravvissuta allo tsunami del 2004 che ha un'esperienza di pre-morte che le cambia la vita e il piccolo Frankie McLaren, vera anima del film, protagonista della vicenda più emozionante e riuscita: quella di Marcus, distrutto dalla perdita del fratello gemello.
Lo stile asciutto e diretto di Eastwood non regala molto alle vicende dei personaggi, riuscendo però a non sovraccaricarle inutilmente, come avrebbe fatto qualunque altro regista americano: ad esempio, l’utilizzo parco della musica non accompagna e non enfatizza le scene più toccanti, che sono rese come sempre con grande umanità e dignità. E’ facile commuoversi, ma – un po’ come in Invictus – è più per il tema in sé che per merito del regista, in questo caso forse anche un po’ incerto su quale aspetto della questione far risaltare.
Il punto di vista è laico, nonostante tutto, e si può optare per una lettura metaforica: le tre storie sono accomunate da una prematura o imprevista esperienza dei personaggi con la morte che – irrisolta – blocca le loro vite. Il cammino da percorrere deve essere finalizzato all’accettazione serena di un mistero, magari alla ricerca, alla fede in qualcosa (purchè sia provata, e infatti non c’è conforto religioso che tenga), ma con il fine di continuare a vivere e di farlo nel miglior modo possibile.
Mi risulta comunque difficile pensare che lo scopo di Eastwood fosse quello di impartire questa lezione, e, anche se fosse, Hereafter resta un film riuscito a metà ( la prima metà) e un po’ privo di quadratura.
Di questi tempi, mezzo film riuscito è oro colato, ma è una magra consolazione, se anche Eastwood comincia a sparare a salve.
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