mercoledì 31 marzo 2010

Dragon Trainer

Capitolo Titoli: How To Train Your Dragon diventa Dragon Trainer. Stendiamo un velo pietoso e andiamo avanti. Con Dreamworks, la partenza è sempre a handicap: se si pensa che iniziarono con Z la Formica e Shrek – quanto di meno convenzionale fosse mai stato animato all’epoca – ponendosi come reale alternativa non solo commerciale ma anche “tematica” a Disney, e si fa il confronto con la deludente produzione più recente, si capisce perché Dragon Trainer sia stato accolto con meraviglia, addirittura come il “miglior” Dreamworks (a parte Shrek, voglio sperare). Condivido questo giudizio: nonostante la “tara ereditaria ” dovuta alle evidenti regole di marketing imposte dalla casa di produzione, Dragon Trainer funziona, è divertente, mantiene le promesse. Ero relativamente fiducioso perché i registi di Dragon Trainer, Chris Sanders e Dean DeBlois sono gli stessi di Lilo e Stitch, che rappresenta una boccata d’aria fresca nell’asfittica produzione Disney degli ultimi dieci anni. Non a caso il rapporto che si sviluppa tra Hiccup e Sdentato (perché tradurre uno e l’altro no? bah) ricorda molto quello tra Lilo e Stitch, anche nel modo, assolutamente credibile ed emozionante in cui il rapporto si consolida; non viene da pensare che sia un drago, così come per Stitch passava in secondo piano il fatto che fosse un alieno. La sceneggiatura è molto liberamente tratta dall’omonimo romanzo per bambini (anzi, ne mantiene solo i nomi dei personaggi), e ricalca evidentemente Lilo e Stitch, almeno nel rapporto tra i due personaggi principali; la struttura della storia è stata semplificata e in qualche modo banalizzata per accentuare la spettacolarità e per inserire una morale: la guerra tra i draghi e i vichinghi diventa il presupposto di tutta la storia, per la realizzazione della spettacolare scena dell’attacco al villaggio e il motivo di riscatto dell’eroe, che, improponibile come vichingo, diventa proprio per la sua diversità il migliore di tutti. La scelta del colpo di scena finale quindi è un merito degli sceneggiatori, che hanno voluto “sporcare” un lieto fine comunque annunciato: come in La Principessa e il Ranocchio, qualcosa che ai bambini andrà spiegato, segno che non è più tempo per vivere per sempre felici e contenti. La qualità dell’animazione è incredibile, così come lo era quella di Mostri Contro Alieni: dai draghi alla pelle dei vichinghi, alle ambientazioni, alle scene notturne a quelle in mare aperto o alle sequenze di volo, davvero complimenti, il livello di dettaglio è davvero stupefacente. Anche in cabina di regia Sanders e DeBlois si danno da fare: l’attacco iniziale dei draghi e la scena in cui i draghi emergono dalla nebbia mentre volano verso il nido sono fenomenali. Particolare non da poco, non c'è traccia, finalmente, di rimandi idioti alla cultura popolare americana tanto per strappare due risate a buon mercato (Mi piace se ti muovi...), nonostante l'ambientazione vichinga fosse un ottimo pretesto per qualche cretinata alla Flintstones, per esempio. Probabilmente anche in 3D non deve essere male, ma stavolta ho preferito godermi i colori veri. Restano diversi rimpianti: il character design è forzatamente infantile, i draghi sono tutti meno spaventosi di Elliot il Drago Invisibile a parte Sdentato, che però, per quanto bello, sembra un Pokemon.
Sono convinto che con un tono più cupo, un po’ più di coraggio con il design dei draghi, magari qualche scena notturna in più, staremmo parlando di un grandissimo film. Per carità, a criticare sono tutti bravi, qualcuno ci si apre anche un blog, però alla fine poter soltanto ammettere che Dragon Trainer è un pelino meglio di Mostri contro Alieni e quindi tra i migliori Dreamworks è un po’ poco, visto che lo standard si è alzato parecchio di recente. Chris Sanders ha la stoffa del grande, finora gli ha detto un po’ male (è stato ingiustamente sostituito dalla regia di Bolt, la sua versione era moooolto più interessante), speriamo che in futuro la sua sorte migliori, nel frattempo ben vengano i Dragon Trainer.

giovedì 18 marzo 2010

Mine Vaganti

Tutto quel che conta non ci lascia mai
La frase qui sopra è ambigua, presa fuori contesto, ma anche nel film viene utilizzata in modo doppio durante un discorso. La novità di Mine Vaganti, oltre ad un accento sui toni della commedia rispetto ai precedenti lavori di Ferzan Ozpetek, è proprio questa: la volontà di non tracciare più in maniera netta un confine tra giusto e sbagliato, tra modelli sociali ipocriti e vetusti (ad esempio, la famiglia) e modelli moderni, disfunzionali e dinamici (ad esempio le coppie gay e le pseudo-famiglie allargatissime), lasciando tutto in sospeso, come nell’ultima inquadratura. La vera dicotomia non è tra eterosessuali repressi e ipocriti e omosessuali allegri e liberi, ma tra chi ha il coraggio di cercare la felicità e chi vive col rimorso di non averci provato; poi c’è chi non si pone neanche il problema, convinto che la ruota giri solo in un verso e Ozpetek in questo caso mostra più che altro compassione, perché più che l’indole, a decidere è l’ambiente esterno e la rete delle convenzioni sociali che ad alcune latitudini sono ancora predominanti. La sottotrama dei ricordi della nonna sta a significare proprio quello: che piuttosto che dividere gli etero dai gay, bisogna dividere i felici dagli infelici, i coraggiosi dai remissivi e vedere in quale categoria si ricade. In quest’ottica, ogni scelta viene vista sotto un’altra luce. Tommaso Cantone (Riccardo Scamarcio) torna a casa a Lecce con l'intenzione di rivelare alla famiglia la propria omosessualità per liberarsi dal fardello della gestione del pastificio di famiglia ed inseguire il sogno di fare lo scrittore. Quando suo fratello maggiore Antonio (Alessandro Preziosi), saputa la cosa, lo anticipa con la stessa rivelazione provocando un infarto al padre (Ennio Fantastichini), i piani di Tommaso saltano ed è costretto a restare più a lungo del previsto con la sua famiglia. A Lecce Tommaso conosce Alba (Nicole Grimaudo, un’ola di ormoni ad ogni inquadratura), determinata e ingestibile figlia del futuro socio del pastificio Cantone, con la quale instaura da subito un legame molto profondo. L'equilibrio va in crisi quando a casa Cantone si presenta Marco, compagno di Tommaso, insieme a tre amici che riescono a stento a nascondere le proprie inclinazioni sessuali ...
La scelta della leggerezza va lodata sempre, ricordando la lezione americana di Calvino: è la leggerezza che si contrappone alla pesantezza, non alla serietà, e che è un mezzo antico e potentissimo per rappresentare la condizione umana. Ozpetek nuota nelle acque sicure della commedia all’italiana affidandosi da un lato a caratteristi straordinari come Ennio Fantastichini, Lunetta Savino (la battuta della “spiaggia libera” è da antologia) ed Elena Sofia Ricci (quest’ultima dovrebbe fare più film al cinema, è davvero brava), dall’altro, soprattutto nel terzo atto, alla macchietta sempre funzionante stile “Vizietto” delle checche che tentano di mascherare la propria omosessualità ma si tradiscono in continuazione (su tutti, bravissimo Daniele Pecci). Poco coraggio, forse, ma non va criticato: parafrasando una battuta del film, siamo nel 2010 e non più nel 2000, quando l’Italia aveva un’atteggiamento diverso, più aperto anche se più timoroso, rispetto al concetto di diverso. L’intolleranza oggi è un problema gravissimo: omofobia e xenofobia sono a livelli da terzo mondo, ma anche l’incapacità di dialogo, di confronto con posizioni diverse, e con la differenza tra realtà e aspettative, è sotto gli occhi di tutti. Così Ozpetek è il primo a metterci la faccia, rischiando il clichè, rischiando la sua reputazione con una sceneggiatura piena di potenziali bucce di banana sulle quali, va detto, non scivola mai. Riccardo Scamarcio, pur con tutti i suoi limiti, non sfigura affatto (alla prossima mi toccherà ammettere che è bravino…) e il suo ruolo, più reattivo che attivo, si sposa bene con le sue capacità di recitazione: bravo quando interagisce con attori navigati, meno quando deve dettare i tempi. Poi, da contratto, ha sempre quelle tre-quattro inquadrature fisse sullo sguardo da cernia, e vabbè, ce le teniamo. Alessandro Preziosi ha poco tempo sullo schermo nonostante il ruolo centrale, più che altro accresce la lista di attori giovani di bella presenza che hanno fatto i gay per Ozpetek (Accorsi, Argentero, Favino…). Peccato solo per il personaggio di Alba, che resta alla fine la “mina vagante” inesplosa; la sensazione di sospensione, comunque, è quello che evidentemente gli autori volevano lasciare: il punto interrogativo sulla scelta di Tommaso resta nella testa dello spettatore che deve rivolgerlo su se stesso. Molto bella la lunga sequenza finale, teatrale nel suo portare contemporaneamente sullo schermo tutti i personaggi, anche di epoche differenti, e mescolarli, ma allo stesso tempo pregna di significato. C’è bisogno di riderci su, ha ragione Ozpetek, basta non smettere di pensare.

mercoledì 17 marzo 2010

Fuori Controllo

"Everything is illegal in Massachussets"
Ci sono momenti nella vita che non si possono superare senza il conforto di un amico e anche in tal caso, è difficile trovare le parole giuste. Nostra Signora della Celluloide stasera, in occasione dell’anteprima di Fuori Controllo, (che avrei intitolato piuttosto “Calma Letale” o anche “Arma Senile”, in onore al ritorno davanti alla macchina da presa di Mel Gibson ed al ritmo del film) ha voluto pertanto farmi dono del conforto di Stefano, mitico recensore di Coccinema, a cui ora mi affido per un’analisi per nulla seria di questa cagata. 1. Stefano, aiutami a di’ brutto . S: È brutto come la Polverini arrampicata sulla balaustra dello stadio Olimpico, lato curva nord 2. A parte il trailer, cosa ti ha fatto presagire il peggio, Mel Gibson che dà l’estrema unzione alla figlia, se non sbaglio in latino, o tutto il distretto di Polizia (mancavano solo Tirabassi e Ricky Memphis) che prende il caffè sul luogo del delitto col sangue ancora per terra solo perché è casa di un poliziotto? S: Le rughe sulla faccia di Gibson, ovviamente ha passato troppo tempo a pensare “come cazzo faccio a fare un’altra montagna di soldi?” 3. Ho un dubbio sul vero messaggio segreto di questo film. Sono indeciso tra: “evviva la legge del taglione ed il Dio di Abramo tanto i poliziotti si mobilitano solo per un collega e comunque solo finché non gli si ritorce contro tranne ovviamente Mel Gibson”, uno spot alle proprietà terapeutiche del ginger ale, anche in caso di lutti gravi, e un appello a modificare le severe leggi del Massachussets, visto che la frase ricorrente del film è “Everything is illegal in Massachussets”? S: Cazzo Giovà stavo cercando di rimuoverla quella del ginger ale... patetico tentativo di caratterizzare il personaggio... era meglio mettergli il pannolone per far capire che è un vecchio 4. Per amore di Mel Gibson, puoi nominare cinque film più brutti di questo? S: Non provo amore per Mel Gibson, che muoia con tutti i filistei come lui Dai, fai uno sforzo…almeno tre: ti dico i miei: “Un alibi perfetto”, “Aspettando il sole” e “Superman Returns”. S: Cheri , Paranormal Activity, Iago 5. Dove tieni tu l’antidoto al tallio, vicino al Tylenol nella credenza della cucina come il bad guy del film? S: Vicino alle barrette all’aglio anti-Polverini Grazie Stefano! La recensione di Stefano è qui. La mia qui.

martedì 16 marzo 2010

Donne Senza Uomini

La recensione di questo splendido film di Shirin Neshat è qui: http://www.filmscoop.it/cgi-bin/recensioni/donnesenzauomini.asp

lunedì 15 marzo 2010

Shutter Island

“WHO IS 67?”
Alla fine, mi riporta improvvisamente alla realtà il conciliabolo della fila davanti: la più sveglia della compagnia spiega il finale agli amici meno dotati (saranno quei cappellini da baseball ad impedire l’afflusso di sangue al cervello?). Sono scene che valgono una serata, e che quando il film non convince, ripagano del prezzo del biglietto. Non è questo il caso: per due ore e venti sono stato rapito, al massimo della tensione, come raramente mi accade al cinema, assorbito dall’ultimo capolavoro di Martin Scorsese, Shutter Island. 1956, Boston: l’agente federale Teddy Daniels, veterano decorato nella Seconda Guerra Mondiale, viene inviato su Shutter Island, dove una paziente del manicomio criminale di Ashecliff è scappata nonostante le imponenti misure di sicurezza della struttura. L’agente Daniels sta in realtà indagando su Ashecliff da molto tempo, da quando il responsabile della morte di sua moglie, dopo esservi stato rinchiuso, pare essere anch’egli scomparso nel nulla. Bloccato sull’isola da una tempesta, tormentato da incubi ed allucinazioni, Daniels si rende conto che Ashecliff nasconde più di quel che sembra – e l’atteggiamento ostile e poco collaborativo dei responsabili della struttura conferma tali sospetti – e che le sue indagini lo stanno mettendo in serio pericolo. In rete ho letto autorevoli commenti generalmente poco soddisfatti, rispetto, ad esempio, a The Departed che invece mi aveva annoiato non poco. A parte i gusti, credo che questo dipenda dal fatto che il thriller non è il mio genere e quindi non posso unirmi alle accuse di banalità e citazionismo scellerato. Non è l’intreccio il punto di forza di Shutter Island, comunque. Nonostante una risoluzione non imprevedibile (nella sostanza, già dal trailer si capiva), non mi aspettavo tale intensità, costruita ad arte con una progressione continua di piccoli smottamenti nelle certezze dell’agente Teddy Daniels (uno straordinario Leo Di Caprio) – e con un montaggio sonoro a tratti disturbante e per questo efficace: mano a mano che la trappola scatta, lentamente, su Teddy e le sue ansie aumentano, lo scenario costruito dalla sceneggiatura si rivela nella sua atrocità psicologica: solo, intrappolato su un’isola manicomio, circondato da personaggi con fini ambigui. Senza un punto di riferimento certo se non il proprio instabile equilibrio mentale, in balia della tempesta, lontano dalla terraferma: la realtà fisica è brutale metafora dello stato mentale e, per lo spettatore, teatro di una lenta discesa nella crisi d’identità (o così sembra fino alla fine). Quando sei fortemente convinto di qualcosa, ma tutti intorno sostengono il contrario e non hai prove a sostegno della tua tesi, quanto ci vuole perché il tuo equilibrio ceda? Shutter Island è un inquietante saggio sul rapporto tra realtà e percezione, sulla permeabilità della mente umana ai condizionamenti esterni e sulla sua fragilità. Martin Scorsese, come Coppola in “Segreti di Famiglia” qualche mese fa, mostra i muscoli e – nonostante qualche ingenuità nella trama (la tempesta è troppo funzionale all’intreccio, ad esempio, per essere un evento naturale) e qualche lungaggine alla fine – ci ricorda perché da quarant’anni è considerato uno dei maestri assoluti. Shutter Island è un film in cui l’apporto della regia si percepisce dall’inizio alla fine, in cui ogni inquadratura concorre alla costruzione di un’atmosfera pesantissima (quei maledetti cerini...che classe) e di un’ansia crescente . Non basta la risoluzione finale a scioglierla, forse proprio perché tanto prevedibile. Non è la confusione tra realtà e incubi a livello narrativo, quanto il modo in cui essa è realizzata a creare la giusta tensione. Le sequenze oniriche poi, sono tra le più belle che abbia mai visto, lontane dagli esercizi di stile decontestualizzati di David Lynch ma altrettanto inquietanti e molto più vividi. All’opera maestrale di regia si aggiunge un cast di grande spessore: Leo Di Caprio ormai è l’Avatar di Scorsese come De Niro lo era anni fa, convoglia perfettamente tutte le sensazioni e le emozioni necessarie al di qua dello schermo; la sua faccia comunque pulita anche nei tormenti lo rendono il contraltare eroicamente perfetto dei due luciferini dottori interpretati da Max Von Sydow e Ben Kingsley, che nessuno vorrebbe incontrare neanche al Pronto Soccorso, figuriamoci in un manicomio criminale su un’isola, in mezzo ad una tempesta. Mark Ruffalo, che interpreta Chuck Aule, il collega di Teddy Daniels, ha trovato la giusta chiave per interpretare un personaggio che inizialmente sembra lo stereotipo del poliziotto affidabile e del bravo collega ma anche il primo di cui smettere di fidarsi nel momento del dubbio. Molto intensi e significativi i piccoli ruoli di Jackie Earle Haley e Patricia Clarkson, che servono a confondere definitivamente Teddy (e gli spettatori) prima della fine. Se il libro di Dennis Lehane è migliore del film (verificherò a breve), deve essere un capolavoro assoluto.

domenica 14 marzo 2010

Invictus

" Io sono il capitano della mia anima"
Finalmente, Invictus.
La mia idiosincrasia per i film tratti da una storia vera (perchè poi si affannano sempre a specificarlo? mah) ovviamente non è paragonabile alla mia adorazione per Clint Eastwood, quindi ero fiducioso nonostante i dubbi.
Invictus funziona, è il risultato atteso della somma di Clint Eastwood, Morgan Freeman, Matt Damon e Nelson Mandela: nelle sapienti mani di Eastwood, persino la retorica pacifista e la metafora sportiva non corrono mai il rischio dello scivolone nel patetico.
I due attori principali sono perfetti: Morgan Freeman si vedeva già dal trailer, quindi preferisco sottolineare la prova di Matt Damon - il suo Francois Pienaar è un uomo chiamato ad un compito impossibile, vincere i mondiali di rugby, che non si fa schiacciare dal peso della responsabilità della guida della squadra nonostante i dubbi e i momenti di solitudine. Per quanto sia ovvio il paragone con Mandela e la funzione subordinata che assume il personaggio di Pienaar nel film, Matt Damon riesce a trasmettere le emozioni di un uomo e, cosa ancor più difficile, di un atleta.
Da un altro punto di vista (il mio), la grande forza del film è anche la sua maggior debolezza. Il risultato dell'equazione è scientifico ed esatto, non si va oltre: una storia come questa può davvero giovarsi di una trasposizione cinematografica? Si può aggiungere epica e pathos a una vicenda già così grande? Ha senso raccontare una vicenda recente ampiamente documentata in video e immagini?
Penso a Gran Torino. Perchè mi sembra migliore di Invictus? Perchè la piccola vicenda personale di un uomo solo diventa una storia magistralmente raccontata. Persino Changeling (tratto da una storia vera) mi ha fatto la stessa, migliore, impressione. Invictus racconta la storia di due uomini reali, due capitani, e di come contribuirono ognuno come poteva a riunire il Sudafrica dopo l'apartheid. Un'impresa eccezionale, una storia che non potrebbe essere immaginata se non fosse realmente accaduta. E' come se l'ovvietà dell'emozione le togliesse forza dal punto di vista squisitamente cinematografico e ancor più all'interno della produzione recente di Eastwood. Non a caso, le scene che mi hanno colpito di più, sono quelle, brevissimen che colgono Mandela nei piccoli gesti: mentre si rifà il letto o la barba, piuttosto che quelle in cui pronuncia grandi discorsi o è immaginato a spaccare pietre in prigione. Anche la storia della vittoria della nazionale, per quanto impeccabilmente ritratta nei modi e nei tempi, ha il limite di essere scontata: allo sport non puoi togliere l'incertezza del risultato ( a parte la questione di quanto renda la fiction sullo sport ).
Sì, ho cercato il pelo nell'uovo e ho finito come sempre col trovare una parrucca, ma i miei gusti personali non mi impediscono di concludere che Invictus è un bellissimo film, impeccabile ed elegante come tutto il cinema Eastwood (forse la colonna sonora un po' inferiore al solito), magistralmente interpretato e basato su una incredibile vicenda della storia recente e su un uomo che è riuscito a superare i limiti umani e ha insegnato agli altri come fare. Non si deve chiedere altro ad un film. Ma ad Eastwood, forse, sì.

mercoledì 10 marzo 2010

Shutter Adriano

Scandaloso quanto accaduto mercoledì al cinema Adriano. Lo sciopero dei proiezionisti (previsto però nello scorso weekend, in cui infatti alcuni cinema erano CHIUSI) non è stato comunicato agli spettatori che hanno dovuto abbandonare le sale a causa della qualità intollerabile della proiezione. Ancor più grave, c'è voluta più di un'ora e l'intervento dei Carabinieri perchè le persone ottenessero il rimborso dei biglietti e poco c'è mancato che la folla prendesse d'assalto le casse. Io stavo per prendere d'assalto il frigo del bar, per rifarmi dei soldi del biglietto. Il meccanismo delle prenotazioni del sito dell'Adriano, peraltro non nuovo a "disguidi" tecnici, obbliga inoltre le persone a presentarsi con mezz'ora d'anticipo al botteghino, pena la perdita del posto prenotato e gli spettacoli della seconda serata sono cominciati in forte ritardo (per poi essere interrotti, salvo alcune sale fortunate), a causa della mancanza di personale. Non sono state però fatte presenti, al momento dell'acquisto dei biglietti, nè l'una nè l'altra cosa, pregiudicando di fatto la possibilità di scegliere di non rischiare e magari di salvare la serata in un altro cinema o a godersi la disfatta del Milan a Manchester. Belle merde, complimenti. Io non ci vado più neanche se mi ammazzano. Passate parola, deve CHIUDERE, tanto non si trovava neanche parcheggio. p.s. è il terzo film che mi salta in cinque giorni per motivi assurdi...se continua così questo blog avrà vita brevissima...

martedì 9 marzo 2010

Coming Soon 2010...speriamo...

Otto film d'animazione in uscita...anno ricco, speriamo di vedere anche in Italia Secret of Kells (era candidato agli Oscar!) che sembra Zelda e The Illusionist (penultimo della carrellata) di Sylvain Chomet, autore dello splendido "Appuntamento a Belleville" di qualche anno fa... Lo splendido gufetto qui sopra invece fa parte di Legend of the Guardians, di Zack Snyder (il trailer fa impressione...). Considerando che tornano al cinema anche Toy Story 1 e 2 per lanciare il terzo capitolo, che Fantastic Mr.Fox di Wes Anderson sarà una specie di Tenenbaum in stop motion e Dragon Trainer sembra molto divertente, mi sa che il ruolo di meno interessante se lo giochino proprio Shrek 4 e Tangled (Raperonzolo Disney)...cambiano i tempi...

E dallo Studio Ghibli niente?? Speriamo che dopo Totoro venga recuperato qualcos'altro...come si fa a stare un anno senza Miyazaki?!???

lunedì 8 marzo 2010

Alice in Wonderland: Tim Burton/Walt Disney in 10 mosse

1.Alice: la petulante marmocchietta di Disney è la più antipatica delle eroine di sessant’anni di classici, Mia Wasikowska invece crea una bella Alice adolescente, stravince nel confronto. 2.La Regina Rossa/di Cuori: Helena Bonham Carter è semplicemente splendida, anche macrocefala, la cicciona di Disney non regge il confronto, non era neanche tanto cattiva... 3.Bianconiglio: vince quello Disney ma solo ai punti, per maggior coinvolgimento nella storia 4.Pinco Panco e Panco Pinco: Ancora Disney: i due “Panzoni” di Burton sono divertenti e un po’ inquietanti, ma i due acrobati del vecchio film sono irresistibili 5.Cappellaio Matto: Johnny Depp ce la mette tutta per tirar fuori dal cilindro del cappellaio un po’ di umanità e, in un modo o nell’altro, ci riesce. Deliranza a parte (che cavolo c’entrava quella cosa alla fine?). 6.Lepre Marzolina: assolutamente irresistibile quella di Burton (Tazza!), quella Disney ha uno sguardo da psicopatico inquietante… 7.Carte da gioco: Di Rosso le Pitturiam! Le rose noi Verniciam! (però quelle di Burton sono proprio belle da vedere) 8.Stregatto: Direi pari. Più matto quello di Disney, più affascinante quello di Burton. 9.Brucaliffo: Ancora vince Disney, se non altro perché la petulante marmocchietta veniva finalmente insultata a dovere. 10.Castello: bellissimo quello di Burton, sia all’interno che all’esterno. Le teste nel fossato e le scimmie / mobilio sono trovate da applausi.

Alice in Wonderland

"I migliori sono tutti matti"
Alice è un compito difficile, per chiunque. Walt Disney aveva un tocco magico, poteva rielaborare le storie e renderle più vere di quelle vere, ma pure lui con Alice fece un mezzo passo falso. Tim Burton sceglie un’altra strada, più al sicuro dal confronto con l’originale (che forse più che quello di Carroll è proprio quello di Disney) ma più impervia per le sue capacità, fermo restando che è l'unico, oggi, che può misurarsi con un'impresa del genere. L’intuizione di sviluppare una sceneggiatura originale e di avere un’Alice adolescente è uno dei meriti che vanno riconosciuti a Burton, ma dare coerenza ad un paese di matti governato da strane leggi fisiche è un po’ un controsenso e le doti registiche di Burton si sposano certamente meglio con una carrellata di sequenze e quadretti in cui dare libero sfogo alla sua visionarietà più che con lo sviluppo di una trama solida. Essendo una produzione Disney, i personaggi coinvolti nella storia sono più o meno quelli del vecchio film d’animazione filtrati dall’occhio gotico di Tim Burton, ma questo Alice in Wonderland non è un sequel vero e proprio: il Paese delle Meraviglie non è un posto che Alice sogna, bensì un regno (Sottomondo) in cui due regine si contendono il potere ed una profezia annuncia l’avvento del paladino della Regina Bianca che la aiuterà a tornare sul trono. Alice, diciannove anni, sognatrice e intollerante alle regole della società vittoriana, tormentata fin da piccola dallo stesso incubo (buco – coniglio – dodo – etc etc) viene riportata a Sottomondo per essere il paladino della Regina Bianca, ma gli abitanti, nel vederla, non sono sicuri che sia la vera Alice, la stessa che avevano incontrato da piccola. D’altra parte, Alice ha perso la sua “moltezza” e crede ancora che sia tutto un sogno… Alice in Wonderland ha dei momenti strepitosi ed è una gioia per gli occhi (peccato che quei maledetti occhialini polarizzati abbassino la luminosità eccessivamente): la scena della caduta nella tana del Bianconiglio, la prima scena col Cappellaio e la Lepre (decisamente il mio matto preferito), più o meno tutte le scene con Helena Bonham Carter. Il resto appare confuso e frettoloso: la prima cosa a non convincere è la trama della profezia e del duello con il Ciciarampa. L’esito è scontato, la tensione non monta mai e il conflitto interiore, comunque appena accennato e mal sfruttato, di Alice si risolve banalmente con Alice che sceglie quello che tutti si aspettavano (salvo poi capire, chissà come, che deve prendere in mano la sua vita). L’Oracolo a che serve alla fine? Perché il Bianconiglio lo ruba alla Regina rischiando la pelle quando poi non ci fanno niente? Perché Alice, essendo già stata a Sottomondo, non ha affrontato il Jabberwock (poi perché Ciciarampa??) da piccola? Come ha fatto a tornare indietro nel mondo reale da bambina? Il finale è un po’ sottotono. Cos’è?, la versione 2010 de Il Mago di Oz? There’s no place like home? Certo, il Sottomondo di Burton assomiglia molto al mondo reale di Alice ed è davvero poco invitante (ma da vedere è bellissimo, anzi, si vede troppo poco), la Regina Bianca non sembra poi tanto sana di mente comunque, ma insomma…se il tutto si risolve con l’essere una metafora di Alice che entra nell’età adulta…beh che tristezza! Insomma, come la sua protagonista, Alice in Wonderland sembra mancare di moltezza e i personaggi - bellissimi – sembrano incatenati in una trama non proprio originale e non avvincente che non rende giustizia alle loro potenzialità. Lo stesso Burton sembra più preoccupato di dare spessore alla trama (insistendo forse troppo sul Cappellaio) che di divertirsi come avrebbe potuto. Tirando le somme, il totale non è maggiore della somma delle parti come ci si poteva attendere: limiti ed errori di Burton, certo, ma anche l’impermeabilità del Paese delle Meraviglie ad una qualsivoglia rappresentazione diversa dall’originale di Carroll. p.s. Lo strepitoso cast di voci originali suggerisce fortemente una visione in inglese… p.p.s. Dopo Mostri contro Alieni, UP, Avatar e Alice, il mio personale giudizio sul 3D è che non serve assolutamente a nulla. Finora solo Coraline ne ha fatto un uso vagamente creativo ma preferisco vedere i colori del film piuttosto che due o tre cosette che escono dallo schermo.
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martedì 2 marzo 2010

Not In Kansas Anymore

GGPortal trasloca qui da oggi, per problemi di spazio :) Solo due parole sul nome del blog... "I Have a feeling We're Not In Kansas Anymore" è una delle battute più celebri della storia del cinema, più riutilizzate e più riuscite e anche un capolavoro di understatement. Non è la mia battuta preferita (avrei potuto scegliere: "Nessuno è perfetto" oppure "Grande Giove" o "Le parole sono Importanti") ma credo riassuma quel che mi aspetto dal cinema, indipendentemente dal genere e dalla provenienza dell'opera. Come Dorothy che arriva ad Oz e si rende conto di non essere più in Kansas, anche io mi aspetto che il film mi porti altrove, over the rainbow, rinnovi il mio senso dello stupore, e possibilmente, una volta tornato a casa, mi lasci qualcosa su cui riflettere ed un modo diverso di guardare alle cose. Questo non avviene quasi mai, ovviamente...e questo è l'unico motivo della severità che in tanti severamente mi rimproverano... Bando alle ciance, si (ri)comincia, quindi spegnete i cellulari e non commentate ad alta voce.