“Tutto quel che conta non ci lascia mai”
La frase qui sopra è ambigua, presa fuori contesto, ma anche nel film viene utilizzata in modo doppio durante un discorso. La novità di Mine Vaganti, oltre ad un accento sui toni della commedia rispetto ai precedenti lavori di Ferzan Ozpetek, è proprio questa: la volontà di non tracciare più in maniera netta un confine tra giusto e sbagliato, tra modelli sociali ipocriti e vetusti (ad esempio, la famiglia) e modelli moderni, disfunzionali e dinamici (ad esempio le coppie gay e le pseudo-famiglie allargatissime), lasciando tutto in sospeso, come nell’ultima inquadratura.
La vera dicotomia non è tra eterosessuali repressi e ipocriti e omosessuali allegri e liberi, ma tra chi ha il coraggio di cercare la felicità e chi vive col rimorso di non averci provato; poi c’è chi non si pone neanche il problema, convinto che la ruota giri solo in un verso e Ozpetek in questo caso mostra più che altro compassione, perché più che l’indole, a decidere è l’ambiente esterno e la rete delle convenzioni sociali che ad alcune latitudini sono ancora predominanti. La sottotrama dei ricordi della nonna sta a significare proprio quello: che piuttosto che dividere gli etero dai gay, bisogna dividere i felici dagli infelici, i coraggiosi dai remissivi e vedere in quale categoria si ricade. In quest’ottica, ogni scelta viene vista sotto un’altra luce.
Tommaso Cantone (Riccardo Scamarcio) torna a casa a Lecce con l'intenzione di rivelare alla famiglia la propria omosessualità per liberarsi dal fardello della gestione del pastificio di famiglia ed inseguire il sogno di fare lo scrittore. Quando suo fratello maggiore Antonio (Alessandro Preziosi), saputa la cosa, lo anticipa con la stessa rivelazione provocando un infarto al padre (Ennio Fantastichini), i piani di Tommaso saltano ed è costretto a restare più a lungo del previsto con la sua famiglia. A Lecce Tommaso conosce Alba (Nicole Grimaudo, un’ola di ormoni ad ogni inquadratura), determinata e ingestibile figlia del futuro socio del pastificio Cantone, con la quale instaura da subito un legame molto profondo. L'equilibrio va in crisi quando a casa Cantone si presenta Marco, compagno di Tommaso, insieme a tre amici che riescono a stento a nascondere le proprie inclinazioni sessuali ...
La scelta della leggerezza va lodata sempre, ricordando la lezione americana di Calvino: è la leggerezza che si contrappone alla pesantezza, non alla serietà, e che è un mezzo antico e potentissimo per rappresentare la condizione umana. Ozpetek nuota nelle acque sicure della commedia all’italiana affidandosi da un lato a caratteristi straordinari come Ennio Fantastichini, Lunetta Savino (la battuta della “spiaggia libera” è da antologia) ed Elena Sofia Ricci (quest’ultima dovrebbe fare più film al cinema, è davvero brava), dall’altro, soprattutto nel terzo atto, alla macchietta sempre funzionante stile “Vizietto” delle checche che tentano di mascherare la propria omosessualità ma si tradiscono in continuazione (su tutti, bravissimo Daniele Pecci).
Poco coraggio, forse, ma non va criticato: parafrasando una battuta del film, siamo nel 2010 e non più nel 2000, quando l’Italia aveva un’atteggiamento diverso, più aperto anche se più timoroso, rispetto al concetto di diverso. L’intolleranza oggi è un problema gravissimo: omofobia e xenofobia sono a livelli da terzo mondo, ma anche l’incapacità di dialogo, di confronto con posizioni diverse, e con la differenza tra realtà e aspettative, è sotto gli occhi di tutti. Così Ozpetek è il primo a metterci la faccia, rischiando il clichè, rischiando la sua reputazione con una sceneggiatura piena di potenziali bucce di banana sulle quali, va detto, non scivola mai.
Riccardo Scamarcio, pur con tutti i suoi limiti, non sfigura affatto (alla prossima mi toccherà ammettere che è bravino…) e il suo ruolo, più reattivo che attivo, si sposa bene con le sue capacità di recitazione: bravo quando interagisce con attori navigati, meno quando deve dettare i tempi. Poi, da contratto, ha sempre quelle tre-quattro inquadrature fisse sullo sguardo da cernia, e vabbè, ce le teniamo. Alessandro Preziosi ha poco tempo sullo schermo nonostante il ruolo centrale, più che altro accresce la lista di attori giovani di bella presenza che hanno fatto i gay per Ozpetek (Accorsi, Argentero, Favino…). Peccato solo per il personaggio di Alba, che resta alla fine la “mina vagante” inesplosa; la sensazione di sospensione, comunque, è quello che evidentemente gli autori volevano lasciare: il punto interrogativo sulla scelta di Tommaso resta nella testa dello spettatore che deve rivolgerlo su se stesso.
Molto bella la lunga sequenza finale, teatrale nel suo portare contemporaneamente sullo schermo tutti i personaggi, anche di epoche differenti, e mescolarli, ma allo stesso tempo pregna di significato.
C’è bisogno di riderci su, ha ragione Ozpetek, basta non smettere di pensare.