giovedì 28 ottobre 2010

Wall Street - Il denaro non dorme mai

"What is the definition of insanity? Doing the same thing again and again and expecting a different result. "

Faccio sempre fatica a seguire i film come Wall Street. Le mie conoscenze di economia sono talmente scarse che mi perdo persino nei dialoghi: mi sfuggono i meccanismi di base, figurarsi tutti i sottintesi. Però, del primo Wall Street era chiara una cosa, qualunque cosa facessero le azioni Blu Star o l’acciaio-non-ricordo-che: c’erano due sistemi di valori, ed entrambi rappresentavano l’America. da un lato, Martin Sheen e la cultura operaia del fare, del lavoro di squadra, dell’onestà e dell’attaccamento fisico al posto di lavoro, al “pezzo” finale della catena produttiva. Dall’altra, gli squali alla Gordon Gekko, la cui professione è un gioco di strategia in cui non importa creare valore, ma solo ricavare un utile personale. Insomma, per usare una metafora calcistica, Lucarelli contro Ibrahimovic. Al giovane Bud Fox (Charlie Sheen), la scelta tra l’onestà e la ricchezza (divisione manichea ma efficace). Evidentemente, per Oliver Stone, uno dei due sistemi era preferibile all’altro. In questo sequel, Stone mischia le carte: oggi, la situazione è diversa, la speculazione è alla portata di tutti, dall’ex-infermiera che si arricchisce (senza aver talento) nella compravendita di piccoli immobili, al vecchio squalo resuscitato come Gekko. Anche la rovina completa però lo è: il crollo delle borse ed il fallimento delle banche hanno volatilizzato una quantità di soldi inimmaginabile. Chi ha le spalle larghe, cade in piedi, chi non le ha, va giù di faccia, e se lo merita anche. Il cameo di Charlie Sheen conferma tale tesi, ma getta una luce sinistra sul personaggio che nel primo film aveva fatto una scelta giusta. Forse è solo un omaggio ai fan, forse no, è il momento del film che mi ha più colpito.
Tutto ciò è fortemente intrecciato con le vicende personali di Gordon Gekko, che, uscito di prigione, cerca vendetta contro chi lo ha incastrato e una pacificazione con la figlia, entrambe le cose attraverso il giovane pirla Shia Leboeuf. Non si capisce se Stone, a corto di idee, abbia voluto cavalcare l’onda lunga dei remake/sequel – affidandosi non a caso al resuscitamorti di professione Leboeuf, reduce da Indiana Jones 4 e Transformers – o avesse davvero in mente un’idea. L’idea – azzardo – è che la situazione economica attuale viene raccontata da tre punti di vista diversi: quello dello speculatore in ascesa, quello dello speculatore all’apice, quello dello speculatore in risalita dopo una batosta. Shia Leboeuf, Josh Brolin e Micheal Douglas sono lo stesso personaggio, solo in situazioni differenti, tutti umani ed amorali allo stesso modo, senza più distinzioni nette. Questo però fa anche sì che, da parte del pubblico, non ci sia molta affezione nei confronti di nessuno, a meno di non appassionarsi al dramma di Carey Mulligan, figlia di Gekko, che non vuole più vedere, e promessa sposa del geriatra Leboeuf – che, ovviamente, è un Gekko in nuce, ancora (per poco) nella fase idealistica della vita. Il punto è che Stone non si decide mai in maniera risoluta tra la storia personale di Gekko, come se lo dovesse ai fan, e un’analisi critica del mondo dell’alta finanza vent’anni dopo Wall Street.
L'unico graffio Stone lo riserva alla "bolla" dell'energia rinnovabile: a fronte di qualche pioniere e qualche idealista, una volta entrato a Wall Street qualunque progetto diventa una cifra, qualunque idea che funzioni è una bolla che viene gonfiata finchè rende, poi abbandonata un attimo prima che scoppi (se sei bravo). Non c'è -suggerisce il film - alcuna speranza che chi tira i fili si interessi davvero del bene comune.
Il risultato pertanto è incerto, e la recitazione così così: Douglas va a memoria, Carey Mulligan è una smorfiosetta insopportabile, Shia Leboeuf funziona con i Transformers, ma con gli attori veri è un’altra cosa. La regia ammicca agli anni ottanta, ma senza guizzi particolari, anche nelle invenzioni più originali, è un film di Oliver Stone nel bene e nel male. D’altro canto, se l’obiettivo di Oliver Stone è fotografare l’America da tutte le angolazioni, Wall Street – Il denaro non dorme mai è anche la fotografia di una scuola di cinema che non riesce più a sfornare prodotti del tutto convincenti che non siano di puro intrattenimento, piegata drammaticamente all’equazione ricavi = guadagno – spesa, di cui non si può tollerare un risultato inferiore alle attese neanche per i lavori dei registi più importanti.
Oliver Stone ci suggerisce che non è il caso di rischiare, meglio dar valore a quello che si sa fare bene. E ne è talmente convinto che dà l'esempio rifacendo un film che aveva già fatto (ma un po' meglio).
E' la mancanza di coraggio, non la forza dei personaggi, a far tornare gli studios su concept già sfruttati (e anche già morti e sepolti). Gordon Gekko è un altro barile di cui hanno raschiato il fondo, senza interessarsi molto della qualità. Se si deve adeguare Oliver Stone, figuriamoci noi.
P.S. Caro Oliver, non esiste che mi metti Sympathy for the Devil nel trailer e poi non me la fai sentire in più di due ore di film, mettendo tutte quelle chitarrine acustiche. Non si fa così.

mercoledì 27 ottobre 2010

Le conseguenze dell'amore (waiting for Back to the Future)

25 anni fa, Grande Giove, avevo quattro anni. La prima volta, ho visto Ritorno al Futuro in tv, ne ho un ricordo lontano, ma certo: ricordo dov’ero, chi c’era e persino la sedia su cui ero seduto. Non so come mai, ho saltato il secondo (anche se me ne ricordo la versione per Commodore 64) e sono andato a vedere il terzo al cinema. Ricordo anche perfettamente di aver perso l’inizio, visto che avevamo scoperto troppo tardi cosa c’era al cinema. Altri tempi. La saga ideale da vedere in ordine sparso: il terzo film comincia esattamente dove finisce il primo, ma è – in pratica – la seconda parte del secondo. Confuso e felice, non ci ho capito niente. I prodromi dell’amore cieco. Stasera, circa vent’anni e decine di visioni televisive dopo, sfiderò il freddo di Roma per esibire al cinema la mia nuova maglietta SAVE THE CLOCK TOWER, in attesa dell’arrivo del cofanetto in blu-ray, nel quale, al salato prezzo della traccia audio italiana, troverò tutta una serie di gadget che farebbero la felicità di qualunque nerd. Tipo me. I cinema per stasera sono tutti esauriti da giorni, tanto che estenderanno le proiezioni anche a domani e forse oltre. Non ci voleva un genio del marketing per capire che, invece delle minchiate in 3D, per riportare le persone al cinema basta dare un buon film. Visto che poi più sono remake, reboot, e saghe resuscitate a distanza di decenni, più la gente si mette in coda, tanto vale rimettere in sala gli originali, a cui siamo affezionati per ripetute visioni su schermi piatti immalinconite dal tasto pausa e da quello fast forward, ma che abbiamo dimenticato ( o mai conosciuto) sul grande schermo, nel buio – anche se sempre meno spesso nel silenzio – di un cinema. A pensarci, ben venga il piccolo Madison invece del colosso UGC: impreziosirà l’effetto nostalgia della serata... Qui il mio speciale sui film basati sui viaggi nel tempo Intanto, ecco un divertente filmato con Tom Wilson, il Biff di Ritorno al Futuro, che risponde ad alcune annose questioni... A questi due link, invece, le previsioni corrette e quelle sbagliate su quello che ci sarà nel 2015, rispetto a quanto visto in Ritorno al Futuro parte II.... Ci vediamo nel futuro...

Figli Delle Stelle

Cinema EURCINE, Roma. 4 Sale, in sala 1 “Figli delle stelle” di Lucio Pellegrini. Cassa di sinistra. Mi avvicino e chiedo: “Buonasera, due per Figli delle Stelle.” “EH?” “DUE PER FIGLI DELLE STELLE.” “biglietti?” Nella top 5 delle risposte che avrei potuto dare, riconosco che “sì” non era certo la più estrosa, né quella che l’idiota avrebbe meritato, ma almeno mi ha consentito di raggiungere senza ulteriori sforzi lo scopo, ovvero vedere il film. Già ero al secondo tentativo, dopo che avevo trovato tutto esaurito a Wall Street in un altro cinema. Quindi, imperturbabile rispondo: “sì.” Per dovere di cronaca, le altre quattro erano: 1. “biglietti? no no, DUE sono i mesi che ti restano di lavoro prima di essere definitivamente sostituita da una macchina automatica, che sarà pure fredda, ma almeno non è così stupida. 2. “biglietti? no, due stelle su cinque è il mio giudizio, sul film. Pensavo le interessasse, sa com’è scrivo recensioni e di solito rimorchio le cassiere così, sparando giudizi. Cinque per il Padrino, a proposito. E Tre per Moulin Rouge.” 3. "Biglietti? No, calci in culo che devo dividere tra te e l’imbecille che ti ha messo alla cassa"
4. "Biglietti? No, sono le ore che ci vogliono per comprare due cazzo di biglietti ad una cassa di cinema servita da una rincoglionita che farebbe bene a chiedersi dove ha sbagliato nella vita per ridursi a fare un lavoro da scimmia ammaestrata e riuscire a farlo così male. " Dopo una scena del genere alla cassa, come si fa a dire di Figli delle Stelle che i personaggi sono eccessivi e la storia non sta in piedi? La cassiera che si accerta se volessi dei biglietti è una di quelle cose che mi scoraggiano profondamente, che mi fanno perdere fiducia nel genere umano. Questa settimana, l’altra è stata vedere la gente farsi la foto davanti alla scena di un delitto, la cronaca nera trasformata in souvenir. Una scena che, se avessi visto in un film, avrei giudicato esageratamente satirica, grottesca, irreale, persino ingiusta. Alla fuga dei cervelli, in Italia, sembra essersi sostituito il suicidio dei neuroni. Ce lo dice la cronaca, ma basta anche guardarsi intorno, guardare come – mediamente – si comportano le persone. Ecco che allora Figli delle Stelle di Lucio Pellegrini, pur con tanti difetti, un valore ce l’ha. Ci racconta come vanno le cose, ma senza la pretesa di generalizzare. Ci racconta di cosa potrebbe accadere a chi perde la bussola, una cosa come tante, al giorno d’oggi: un improvvisato rapimento di un ministro che ovviamente va storto. I cinque rapitori sono cinque precari di una generazione che non ha nessuna sicurezza, abbandonata dalla storia e dallo stato. Uno appena uscito di galera, un operaio precario, un insegnante senza posto di lavoro, un idealista di sinistra ed una giornalista. Un gruppo improvvisato (stile Soliti Ignoti, ma senza nemmeno le competenze “sc-sc-scientifiche”), un rapimento in cui si sbaglia la persona (invece del ministro, un sottosegretario, che si rivelerà anche onesto). Sembra una commedia degli anni sessanta, o la trama di un film dei Coen. Giorgio Tirabassi, Pierfrancesco Favino e Giuseppe Battiston sono da applausi, Paolo Sassanelli è ottimo, ma il suo personaggio proprio non si capisce cosa ci stia a fare, un po’ come quelli di Fabio Volo e Claudia Pandolfi. Se il personaggio è solo abbozzato, o c’è un bravo attore a definire i contorni (vedi alla voce Battiston) oppure resta un bozzetto senza capo né coda (vedi alla voce Volo). Discorso a parte per Favino, che ancora una volta mostra tutto il suo talento, costruendo il personaggio più complesso sulle sfumature.
Un buon film, però, ha l’obbligo di non confondere forma e sostanza, soprattutto quando la sostanza è il racconto della confusione. Troppi punti in sospeso nella trama, troppe incertezze in fase di scrittura ( o di montaggio). Forse con un personaggio in meno si sarebbe riuscito a far quadrare meglio i conti. L’impressione generale è che manchi qualcosa, forse la volontà di fare una polemica forte, di affrontare seriamente alcuni temi, che sono solo accennati: ad esempio, il personaggio di Giuseppe Battiston, che ha iscritto i figli alla scuola cattolica ma non vuole che dicano le preghiere è meraviglioso, ma buttato via (la scena in cui litiga con la suora è fantastica, ma resta fine a se stessa).
Insomma, l’impressione è quella dell’ennesima occasione sprecata per fare un ottimo cinema.

venerdì 15 ottobre 2010

Buried

"Una telefonata allunga la vita"
Che cos’hanno in comune Cella 211, Il Labirinto del Fauno, The Orphanage e Rec? Ben due cose: la regia spagnola e un’altra, che sembra davvero un tema portante nel nuovo cinema spagnolo, ovvero che ci possiamo scordare i finali lieti ed all’acqua di rose con il protagonista che – salvata la situazione – cammina abbracciato alla sua bella verso un nuovo giorno. Buried di Rodrigo Cortès non fa eccezione. Per citare le sue stesse parole, dà al pubblico non quello che vuole, ma quello che non si aspetta. Chiuso in una cassa, sepolto sotto terra, un cellulare mezzo scarico, un accendino e pochissimo tempo per salvarsi. Il cellulare di Paul Conroy (Ryan Reynolds) prende sotto terra in Iraq durante la guerra, il mio neanche al quinto piano, a Ostia la domenica pomeriggio. Apple e Vodafone, vergogna. Mentre il tempo scorre, Paul scopre cosa è successo, perché si trova sotto terra e, soprattutto, che l’aiuto che cerca potrebbe non arrivare in tempo. Al contrario di altri casi di sepoltura anticipata (tipo la puntata di C.S.I di Tarantino) il film si svolge completamente all’interno della cassa: non c’è mai alcuno stacco sugli interlocutori di Paul. Questo fa di Buried un film nuovo e coraggioso, per diversi motivi. Il fatto che la cassa sia il luogo dell’azione dal primo istante e non, come ad esempio in Kill Bill vol. 2, un colpo di scena, fa generare di per sé molta meno ansia di quanto si pensi. Questo non è un difetto, anzi: se l’obiettivo di Paul è quello di uscire dalla cassa, per Cortès è mostrarci cosa accade ad una persona che non può fare altro che chiedere aiuto e sperare. Il fatto che Paul sia nella cassa, appunto, è quasi secondario, è una situazione senza uscita come tante (beh, non proprio come tante, ma insomma ci siamo capiti, diciamo un po' peggio di Massimo Lopez di fronte al plotone di esecuzione nello spot della Sip).
Buried è una commedia nera: ha ragione Cortès. A metà tra un personaggio di Hitchcock ed uno di Kafka, Paul si trova in una situazione paradossale e pericolosissima, ma non riesce a trovare l’aiuto che vorrebbe perché il telefono, che dovrebbe facilitare le comunicazioni, oggi è uno strumento che invece consente alle persone anche di tenersi a debita distanza dai problemi.
La frustrazone di Paul, messo sempre in attesa, scaricato da una persona all’altra, costretto a raccontare sempre tutto dall’inizio mentre il tempo scorre inesorabile e l’ossigeno finisce, è quella di chiunque chiami Sky per segnalare un problema, per non parlare della Telecom o di RyanAir, senso di soffocamento incluso. I risvolti politici della trama sono soltanto un modo per contestualizzare la vicenda, che in effetti è piuttosto improbabile e paradossale per molti motivi e funziona meglio se letta appunto in chiave metaforica e satirica (anche considerando il finale). Ryan Reynolds da vicinissimo funziona meglio che da lontano, oppure finora ha scelto male le sceneggiature (tra lui e la moglie Scarlett Johansson non so chi faccia peggio, forse stanno facendo una gara): in Buried funziona anche perché la faccia da quarterback è perfetta per il ruolo dell’americano medio che si trova in una situazione più grande di lui. Buried per il resto è uno stupendo esercizio di tecnica registica: forse è il set più piccolo della storia del cinema, eppure la macchina si muove sempre in maniera non scontatam regalando anche un paio di sequenze “truccate” da brividi. Merita di essere visto soprattutto per questo (e per i bellissimi poster che sono stati ideati per il film).
P.S. visto che bravo? stavolta ho evitato la pippa sul perché gli spagnoli esportano Cortès e noi Muccino, loro Penelope Cruz e noi Violante Placido ecc. ecc.

martedì 5 ottobre 2010

2010, l'anno dell'animazione

Anno d'oro per l'animazione, questo 2010: riprendo un vecchio post di anticipazioni per fare il punto della situazione. Mentre The Illusionist di Sylvain Chomet arriverà a fine Novembre anche in Italia e l'operazione recupero dei capolavori di Hayao Miyazaki - che auspicavo - continuerà con Porco Rosso, non trovo notizie su una distribuzione italiana di Brendan and The Secret of Kells, che a questo punto non credo vedremo al cinema. Peccato. C'è sempre Play.com per colmare la lacuna.

Tra i film già usciti, nessuno ha deluso le aspettative: Shrek 4 ha dimostrato che il franchise dell'orco è finito (male), mentre Toy Story 3 è un capolavoro che potrebbe anche entrare nei dieci per gli Oscar. Il più bello, forse, resta Fantastic Mr. Fox, di Wes Anderson ed anche Cattivissimo Me e Dragon trainer hanno i loro numeri, pur restando un gradino sotto il podio. Non ha trovato una distribuzione al cinema neppure 9 di Shane Acker, ma è in home video, e una visione a tempo perso la merita, se non altro per lo stile innovativo. In uscita La Leggenda dei Guardiani - Il regno di Ga'Hoole, un fantasy con protagonisti dei gufi. Se il film mantiene le promesse del trailer, sarà uno spettacolo. Zack Snyder (300, Watchmen) in cabina di regia promette ralenti a raffica.

Raperonzolo - L'intreccio della Torre , sarà molto liberamente tratto dalla fiaba originale e promette un po' d'azione in più, ma finora, da quel che si è visto, per aspettarsi un nuovo grande classico Disney. Sempre animali parlanti e principesse. Dal punto di vista grafico, però, un mix di disegno e CG potrebbero far incuriosire anche i meno fiduciosi.

Megamind, ancora da Dreamworks (tre film in un anno!) , sfiderà Raperonzolo al box office a Natale, il trailer è divertente, ma rischia di essere il solito vuoto spinto denso di citazioni, nonostante l'idea carina di partenza.

A due mesi dalla fine dell'anno, quindi, mancano ancora Porco Rosso, The Illusionist, Ga'Hoole, Raperonzolo e Megamind. In rigoroso ordine decrescente di presunta bellezza.

In sintesi, un ottimo anno: tante uscite, tutte di alta qualità (il peggiore, Shrek, è comunque dignitoso), tutte estremamente godibili anche dagli adulti, segno che i tempi sono cambiati - in meglio. Per l'anno prossimo, Pixar farà tornare Cars, Dreamworks ci riprova con Kung Fu Panda 2 e Puss In Boots, spin-off di Shrek con il Gatto con gli Stivali, Walt Disney riporterà sul grande schermo Winnie The Pooh. Se, dopo aver visto Toy Story 3, non mi sbilancio su Cars 2 , il resto per ora non mi entusiasma. Speriamo nei progetti minori ed in quelli indipendenti (c'è The Goon di David Fincher che sarebbe fantastico, ma ancora non si sa nulla...)

Blue Sky Studios (quelli de L'era Glaciale) uscirà con Rio, la storia di un pappagallino blu che non sa volare. La trama (una commedia romantica animale) è identica a quella di Newt, progetto della Pixar morto in uno stato avanzato di produzione per non scontrarsi proprio con Rio. Qualcosa di simile a quanto accadde per A Bug's Life e Z la formica, solo che stavolta Pixar ha preferito lasciar perdere. Strano, brutto segno: cancellare così un progetto non è da loro.

I trailer:

Infine, The Secret of Kells...Play.com, pensaci tu.

lunedì 4 ottobre 2010

Double Feature: Benvenuti al Sud / Innocenti Bugie

Mentre siamo tutti ancora intenti a bruciare neuroni e pensare a quella maledetta trottola (cade? non cade? barcolla?) , il cinema ci viene incontro con due film che ci ricordano l'insostenibile leggerezza del cinema fuori dai sogni di Nolan, ma anche che a volte aspettarsi il peggio, nella vita, aiuta a rimanere piacevolmente sorpresi.

Benvenuti al Sud
Si potrebbe sparare sulla Croce Rossa del cinema italiano, costretto addirittura a copiare un film francese (popolo con il quale non condividiamo pressochè nulla, a partire dal senso dell’umorismo) per assicurarsi un ritorno al botteghino. Eh sì, perché, come si sa, Benvenuti al Sud è un remake – neanche troppo libero – di Giù al Nord, il film campione di incassi in Gallia. Si potrebbe continuare a sparare sottolineando che un film basato sulla contrapposizione di stereotipi razzisti né giova né contiene alcuna sostanza, soprattutto se poi per smentire lo stereotipo del Sud si sceglie una località come Castellabate (troppo facile), così come per accentuare quella del Nord si prende impietosamente la periferia di Milano (Usmate… ma qualunque altra località che finisca in “-ate” sarebbe lo stesso: solo la nebbia, c’avete solo la nebbia). Però visto che il film è divertente, scarico la pistola e ne scrivo bene. Se questo blog assegnasse voti ai film, cosa che si propone categoricamente di evitare, Benvenuti al Sud avrebbe un voto ampiamente sopra la sufficienza, con tendenza a descrescere mano a mano che si dimenticano le battute del film. Se un film riesce a contenere la comicità di Alessandro Siani (che a Napoli piace quanto Cannavaro…e a Roma pure) fino a farne emergere qualità finora soffocate dalle precedenti imbarazzanti prove nei suoi a solo o nei cinepanettoni, qualcosa di buono deve avere. Il cast, ad esempio: la coppia Bisio / Finocchiaro forse ha il difetto di essere troppo divertente per risultare antipatica al punto giusto, ma sono rodati anche nel ruolo in coppia e si vede che funzionano. Detto di Siani, che mi ha davvero colpito, torna sul grande schermo anche Nando Paone, che da Lo Chiamavano Bulldozer agli spettacoli ed i film con Salemme, conferma le sue incredibili doti di caratterista moderno, un valore prezioso davvero, chissà perché non fa film più spesso. Valentina Lodovini incespica nel napoletano ogni tanto (ma una attrice del posto proprio non si poteva, eh?) ma ormai è lanciata, sarà la protagonista dei film né carne né pesce dei prossimi dieci anni se riesce a mascherare sempre così bene le borse dietro le tette. Giacomo Rizzo forse è un po’ sottoutilizzato, ma il ruolo è quello che è, e lui ci mette tutto il mestiere. La sceneggiatura si adagia sui meravigliosi scorci che offre Castellabate per inscenare una serie di buffi teatrini tra Bisio e i locali, mentre la sua malcelata boria nordica si scioglie al calore del paesino che lo accoglie e lo aiuta, spiazzandolo e commuovendolo. La scena dell’arrivo a Castellabate è la migliore, dal punto di vista della regia: la notte piovosa trasforma un incantevole paesino in un posto lugubre degno della Transilvania di Frankestein junior, citato evidentemente. Non so come il film sarà accolto al nord ed al sud. A me, da romano, essere rappresentato dallo stereotipo Cipolla, De Sica o Totti talvolta irrita un po’. Se però si guarda Benvenuti al Sud come una commedia leggera, senza stare a pensarci troppo, senza appesantirla di connotati politici e sociali, scende giù come un limoncello. Però, sappiamo fare di meglio, facciamolo. Innocenti Bugie
Innocenti Bugie segna il ritorno al cinema della coppia Cameron Diaz / Tom Cruise dopo Vanilla Sky (altro film, lasciamo perdere i paragoni). Probabilmente il pensiero maggiore che la produzione ha avuto sin dall’inizio è stato quello di non far sfigurare Tom accanto a Cameron, che gli passa una decina di centimetri. Obliterata la questione, è probabilmente cominciato un mega party con tanto di tour intorno al mondo ed il filmino della festa è diventato Knight and Day, titolo stavolta intraducibile. Innocenti Bugie comunque risulta un titolo infelice, ma c’è l’attenuante che effettivamente il film non si capisca bene di cosa parli, per cui è anche difficile trovargli un titolo. In sostanza, Tom Cruise è un agente della CIA che dice di essere stato incastrato, Cameron Diaz è la malcapitata che si trova coinvolta nella vicenda. Seguono sparatorie e affari di cuore, con un fine lieto come deve. Alla regia James Mangold, che ha una signora carriera alle spalle, ma evidentemente era l’assaggiatore del rum alla festa. Per aver accettato il film, non per la qualità della regia, che è comunque alta: la corsa con i tori è davvero un bel momento, il ritmo non cala mai e le scene in la Diaz è drogata sono tutte molto divertenti e sono un’intuizione carina per passare da uno scenario all’altro. Sarà che ormai è difficile aspettarsi qualcosa da questo genere di film, che solitamente sembra progettato a tavolino per raccimolare una data quantità di soldi con il minimo sforzo di unire due nomi di richiamo al botteghino (avete presente The Mexican?), ma Innocenti Bugie riesce a stupire per il suo voluto eccesso di leggerezza ed autoironia. Non c’è, dall’inizio alla fine, una sola scena in cui non sia necessaria la sospensione totale dell’incredulità, la trama è quanto di meno coerente si sia mai visto. Però funziona. E’ vero che si ha l’impressione che Tom e Cameron sfoderino i loro sorrisi in continuazione per ricordare al pubblico che stanno scherzando, che non vogliono assolutamente essere presi sul serio, che, dai, se volevate un film serio, Inception è in sala 2. Ah, e che madonna, come stanno invecchiando male, però ancora fanno i loro stunt da soli.
E’ questione di poco: o si scherza con loro, e allora si ride e il film va, o si rifiuta questo modo di fare cinema e allora si lascia la sala dopo dieci minuti (e precisamente quando lui uccide quindici persone in un aereo senza che lei se ne accorga). Quando una serie passa il punto di non ritorno della credibilità, in gergo si dice che “salta lo squalo”, in riferimento all’episodio di Happy Days in cui Fonzie, appunto, saltava uno squalo facendo sci d’acqua con il giubbotto di pelle. Ogni serie ha il suo “salto dello squalo”: Innocenti Bugie è tutto un salto di squali (peggio di Lost). Troppo? Forse. Però se il ritmo è alto, se gli attori sono bravi anche quando fanno scemenze (Peter Sarsgaard si è ispirato a Pepe la Puzzola per il suo ruolo…tanto per capirci) e soprattutto, se avete pagato il biglietto per vedere questo film, non vi potete lamentare poi, perché dal trailer sembrava molto, molto peggio.