Le prime cinque cose che mi vengono in mente quando penso a Ben Affleck (non che la cosa accada di frequente):
1. sta con Jennifer Garner
2. aveva dei bellissimi Ray Ban rossi in Daredevil
3. ha fatto quella porcata di Daredevil
4. ha fatto anche quella porcata di Pearl Harbor
5. mio dio anche Dan Aykroyd era in Pearl Harbor
A questo punto la mia mente, in modalità Alta Fedeltà, o è tornata al punto 1 e sta pensando a cinque parrucche con cui Jennifer Garner si mimetizzava in Alias oppure è passata a cinque porcate che ha fatto Dan Aykroyd (ma al solo pensiero di Crossroads si ferma per rispetto a John Belushi)
Insomma, del povero Ben tralascio sia il peggio (la storia e i film con Jennifer CuLopez) sia il meglio, ovvero che vinse un Oscar per la sceneggiatura di Will Hunting e che, nonostante una mascella che non gli fa muovere la faccia, neanche come attore è così pessimo, come conferma anche in The Town, particolare film di cui firma anche la regia.
Da uno abituato al blockbuster sarebbe lecito aspettarsi una regia diversa, considerato il soggetto: un gruppo di rapinatori alle prese con il colpo della vita mentre il loro capo decide di smettere per cambiare vita e si innamora dell’unica testimone che potrebbe incastrarli (Rebecca Hall, molto brava anche qui).
Non solo Affleck costruisce un film solido e centrato fortemente sui personaggi, ma riesce ad equilibrare intelligentemente le scene d’azione con le altre: senza indulgere in virtuosismi o in facili clichè (non ricordo alcun ralenti per accentuare l’effetto drammatico), Affleck crea un universo realistico in cui i due personaggi principali, Doug McRay e Jem Coughlin intepretati da se stesso e da uno strepitoso Jeremy Renner, arrivano a fare i conti con la loro fraterna amicizia quando scelgono due strade diverse.
The Town è un film sulla forza che tiene le persone legate al mondo da cui provengono, soffocando ogni tentativo di emancipazione o liberazione. L’impianto, però, è quello del crime thriller: dopo la rapina iniziale, si susseguono momenti ad alta tensione (la scena al bar è carica di adrenalina, nonostante i tre protagonisti siano seduti al tavolo e parlino del più e del meno) e le scene più convulse sono efficaci e spettacolari ma non fracassone e gratuite, anche nei momenti più divertenti (come alla fine del primo inseguimento).
Insomma, questo è un film che risulta forte per la sua onestà e la sua semplicità: Ben Affleck fugge tutti i luoghi comuni del genere (vabbè, il finale è un po’ telefonato, ma ci sta) e costruisce su questo scarto stilistico il valore di un film che poteva essere solo l’ennesimo film su un gruppo di rapinatori scaltri. Resta da capire se la sceltà dell’essenzialità sia stata consapevole o sia l’unica che Affleck possa percorrere, visto che l’efficacia di tale scelta dipende comunque dal soggetto da mettere in scena. Indipendentemente da ciò, The Town resta uno dei migliori film americani dell’anno.
mercoledì 29 settembre 2010
lunedì 27 settembre 2010
Inception
NOTA: questo post segue la prima visione del film. Probabilmente, la mia opinione cambierà dopo altre visioni...il consiglio è di vedere Inception prima di leggere qualunque cosa in rete, recensione seguente compresa.
La trama di Inception – quella che si troverà sul retro del DVD e sulle guide dei film – racconta di un gruppo di sosfisticati truffatori in grado di elaborare sogni per attirare ignari malcapitati ed estrapolare dalle loro menti informazioni sensibili che non rivelebbero mai coscientemente. A questo gruppo di criminali viene chiesta la procedura inversa: un’innesto, l’impianto di un’idea, che richiede una complessità di molto superiore (diversi livelli di sogno dentro il sogno) perché il sognatore non la rigetti. Al primo livello, quindi, Inception è un film di truffa, Ocean’s Eleven applicato a Eternal Sunshine of The Spotless Mind. Ai più, basterà questo e la prima visione del film sicuramente porta a soffermarsi su questo livello, quello superficiale: seguire l’intreccio, rincorrere la logica interna, che, intelligentemente, sfugge allo spettatore mano a mano che il film procede, contribuendo all’immedesimazione con la confusione di Cobb (Leo di Caprio) ed infine capire il finale. Al secondo livello, Inception è il fratello maturo di Matrix e di eXistenz, un film di fantascienza moderna che gioca con il confine tra realtà, percezione ed immaginazione. In Matrix c’è una sola intuizione narrativa, la Matrice. O ne sei dentro o ne sei fuori, il meccanismo è chiaro dopo venti minuti. In Inception non si capisce mai e gli “spiegoni” fantatecnologici sono volutamente omessi, come nei migliori film di fantascienza (principio del Flusso Canalizzatore: se il film funziona, lo spiegone non serve. Se lo spiegone serve, il film non funziona) . Al terzo livello, Inception è un film sulle persone e sui labirinti che la mente può creare in seguito a traumi violenti, e a come si possa rimanere intrappolati dai rimorsi nella propria testa fino a non distinguere la realtà dall’immaginazione. Shutter Island più Matrix…meno tutte le spiegazioni, cosa renderà il film più longevo di entrambi gli altri due. Lungi dal voler dare una spiegazione esaustiva (ci sono già centinaia di siti, post e blog che si divertono ad ipotizzare una definitiva interpretazione dei vari elementi, ma nessuno mi ha convinto del tutto per ora), quello che mi sembra palese è che Inception, al suo quarto livello, pianta un’idea nella testa dello spettatore: che l’ultimo fotogramma del film sia la chiave per dare un senso alla vicenda, il punto di partenza per trovare l’uscita dal labirinto in cui quel genio di Christopher Nolan ci ha cacciati stavolta. E’ così solo se si ci ferma a guardare Inception al primo livello. Se la trottola è il totem di Cobb, lo spettatore, che si immedesima nel suo dramma, prende la trottola come il proprio totem e quindi l’ultima scena diventa di vitale importanza per capire il film. Ma se la trottola non fosse il filo di Arianna? Solo un cambio della prospettiva svela l’inganno della scala di Penrose, altrimenti si continua a salire all’infinito sulla rampa. Per metà film ho pensato che tra Cobb e la moglie avesse ragione la moglie, ma questo non mi ha confortato più di tanto e non mi ha fornito poi elementi definitivi per spiegare tutto. Per fortuna. Nei sogni, non ti ricordi mai come iniziano le cose, semplicemente ti ritrovi nel mezzo dell’azione. Nei film, è la stessa cosa. Tra una scena e l’altra, non sappiamo cosa fanno i personaggi. Ecco il limbo dello spettatore, creato da Nolan: il cinema ed il sogno come due proiezioni inconsapevoli della mente umana, ecco perché Nolan è l’artista che impianta un’idea nel sognatore, il pubblico in sala (un mio amico l’ha presa così sul serio che si è proprio addormentato), un’idea così radicata che sembra nostra, quando invece ce l’ha messa lui. Ognuno, alla fine, si è fatto una propria idea, partendo dalla propria percezione e dal totem che si è scelto – nel film- come ancora per la realtà e per ricostruire una logica. Inception invece è il labirinto stesso, è la quintessenza del cinema moderno: ti cattura, ti intrappola, ti lascia qualcosa nella testa e negli occhi, in più racchiude tutto il cinema di oggi e lo porta da qualche altra parte, o meglio, ce lo fa percepire in modo nuovo. Ci sono varie uscite dal labirinto, ma, incapaci di sceglierne una, restiamo dentro. La apparente mancanza di razionalità di Inception è la sua forza, Nolan alimenta la nostra fantasia invece di fornirle pacchetti preconfezionati. Così, anche se tutti gli effetti speciali più spettacolari sono rovinati dal trailer, Inception non manca di stupire. I nostri occhi sono abituati ad immagini maestose e spettacolari, ma il nostro cervello può anche andare in standby per nove film su dieci, soprattutto se americani ed alto budget. Inception è il decimo film, quello che ti fa anche riflettere, quello che racchiude in una trama infinite chiavi di lettura, quello che cambia le regole del gioco. Coccinema ha mosso una critica, tra varie lodi: i personaggi sono freddi, non scatta alcuna empatia. Vero, e anche tipico di Nolan, che gioca con gli strumenti del narratore per arrivare in una parte dello spettatore che ad altri non interessa toccare: laddove la maggior parte dei cineasti cerca di conquistare il cuore degli spettatori, a Nolan interessa risvegliare la materia grigia, sfidare chi sta seduto in poltrona ad essere più bravo di lui. Sebbene l'amore tra Cobb e la moglie sia centrale per il film, il sentimento che guida Cobb è un altro, e finalmente, per una volta, non è l'amore a vincere tutto. Nolan ci racconta storie mentre ci racconta come si raccontano le storie, ma non ci racconta mai stronzate, neanche quando ci inganna, neanche quando fa Batman: questo è il suo grande pregio. Bravo Nolan, adesso voglio vedere senza Ledger e dopo Inception cosa ti inventerai per Batman 3. venerdì 24 settembre 2010
Cattivissimo Me
C’è una sola, geniale, gag rivolta agli adulti in Cattivissimo Me. Ma basta e avanza per andarlo a vedere: il vecchio nome della Banca del Male presso cui i cattivi si rivolgono per i finanziamenti.
Cattivissimo Me, per il resto, è una favola dark per bambini, un Nighmare Before Christmas senza mostri e senza canzoni, più colorato e demenziale. Universal Pictures approda al mondo dell’animazione CG mettendosi a debita distanza dai suoi avversari. Né film impressionanti come i Pixar (ma neanche Toy Story 1 e A Bug’s Life lo erano) né marchette commerciali infarcite di riferimenti pop e inside joke per adulti come i Dreamworks: Cattivissimo Me bilancia un’idea interessante con un umorismo slapstick per tutte le età e un impianto grafico molto originale a metà tra la Famiglia Addams e Walt Disney. Produzione americana, ma cuore europeo: i registi e lo studio di animazione sono francesi, e questo deve aver contribuito non poco allo sviluppo di uno stile narrativo originale.
Gru (doppiato da un discreto Max Giusti, non all’altezza di Steve Carell, però) è un cattivo. Cattivo perché ruba, perché salta le file e inquina…un Cattivo senza cattiveria, un personaggio adorabile dalla prima scena, inaridito dalla solitudine, alle prese con una madre poco affettuosa e con problemi economici (la scena in cui deve comunicare ai minions il mancato finanziamento è semplicemente strepitosa).
Il piano di Gru è rubare la Luna, dopo che il suo nuovo, giovane, ricco ed ipertecnologico rivale Vector ha rubato una Piramide. Per riuscire nel suo piano Gru adotta tre orfanelle con l’intento di usarle e poi liberarsene, ma l’impresa sarà molto meno facile del previsto, perché le piccole fanno presta breccia nel cuore di pietra di Gru, che comincia ad apprezzare il suo ruolo di papà e a rigettare quello di cattivo.
Interessante il fatto che il mondo di Gru sia pieno di improbabili sedicenti cattivi dediti a piani più o meno congegnati, ma non ci siano né eroi a contrastarli né sembra che la gente sia sconvolta più di tanto dalle loro imprese, per non parlare del fatto che i veri mostri si rivelino poi altri, ad esempio l’inquietante direttrice dell’orfanotrofio o il direttore della banca.
Ovviamente, la trovata del film sono i minions, i minuscoli e fedeli aiutanti di Gru: rubano la scena ogni volta che compaiono con gag fisiche e stupide da comiche anni Trenta da far invidia ai Pinguini di Madascar e a Scrat de L'Era Glaciale, senza però mai risultare avulsi dalla storia o inseriti forzatamente tra una scena e l’altra. Ecco un esempio…
Non credo che Cattivissimo Me possa rapprensentare una seria minaccia per Toy Story 3 alla corsa per gli oscar, ma merita di essere visto perchè è genuinamente divertente, autoironico ed intelligente.
P.S. ormai s’è capito che il 3D non serve a niente. In Cattivissimo Me è usato in maniera divertente, ma alla fine le cose sono quelle: qualcosa che esce dal piano dello schermo, qualche sequenza veloce in soggettiva. I titoli di coda, invece, dimostrano che forse anche ad Hollywood sta cominciando ad arrivare la sensazione dell’inutilità della stereoscopia, e allora meglio scherzarci su…
P.P.S. Se mai rubaste una piramide, questo film spiega come nasconderla in giardino.
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mercoledì 22 settembre 2010
9
Purtroppo 9 non uscirà al cinema da noi: considerando che il suo punto di forza è senza dubbio l'impianto grafico e tecnico, la visione domestica accentuerà ulteriormente i grandi limiti di sceneggiatura e non renderà giustizia ad un film che, comunque, ha provato ad essere un'alternativa a Pixar e Dreamworks (e le action figures sono splendide, altro che Happy Meal di Kung Fu Panda!!)
La recensione completa di 9 è su www.filmscoop.it , qui sotto c'è il corto omonimo del 2005 da cui è tratto. Considerando che il corto mi pare molto più coerente del lungometraggio e che la produzione di quest'ultimo è di Tim Burton, adesso con chi me la devo prendere? Eh, Tim? Ti dai una svegliata o no?
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giovedì 16 settembre 2010
Somewhere
Somewhere: titolo aperto a più interpretazioni, quello del film di Sofia Coppola, talentuosa rampolla d’arte che mangia pane e cinema da quando, appena nata, il papi la mise davanti alla telecamera per la scena del battesimo de Il Padrino. Ci ha stupito con le Vergini Suicide, sembrava aver trovato uno stile personale con Lost in Translation e anche Marie Antoinette (nonostante la cagna protagonista) aveva un suo perché. Invece questo Somewhere sta raccogliendo consensi che non condivido affatto. Sofia scova tra i suoi ricordi di bambina figlia d’arte alcune scene che ripropone con delicatezza (senza intento critico o satirico, sebbene poi la Marini e la Ventura a noi italiani facciano rivoltare lo stomaco per la figuraccia che esportano). Solo che per capire questo film che attraverso lunghe e ripetitive sequenze, senza l’ausilio di alcun conflitto – se non quello appena accennato nel finale – bisogna conoscere a menadito la biografia della famiglia Coppola, sapere cos’è lo Chateau Marmont, aver visto Toby Dammit di Fellini, al quale esplicitamente si fa riferimento. Considerando che per apprezzare un film è necessario (ma non sufficiente) capirlo, forse Sofia stavolta presume un po’ troppo.
La critica, intanto, si è spellata le mani a Venezia, premiando il film. Per apprezzarlo poi, si pretende un’empatia con una povera e depressa superstar di Hollywood la cui vita è talmente vuota e ripetitiva che basta uno sguardo della figlia a mandarla in crisi. Sinceramente, ci vuole uno sforzo enorme per provare la benchè minima simpatia per uno che si annoia in una suite con piscina inclusa. Va bene che il talento non si tramanda, non credo nessuno si aspetti un film che oscuri Apocalypse Now, ma almeno si dovrebbe prendere esempio dal coraggio che Coppola Senior aveva e dal ruolo che ebbe nel rinnovamento del cinema americano verso una dimensione più autorale e verso temi scomodi che l’America non era abituata a guardare su uno schermo. Non lo fa quasi nessuno, ma almeno chi come Sofia Coppola ha dalla sua tanta sapienza ed esperienza potrebbe almeno tentare. O evitare questi clichè. A meno che non si voglia chiamare coraggio l’impudenza di mostrare in maniera così acritica l’annoiata vita della star, che è poi quanto fatto, meglio, in Marie Antoinette.
Va anche detto che Stephen Dorff non è Bill Murray, che può stare senza parlare per un’ora ed esprimere qualunque sentimento, anche se tutto sommato non se la cava male. Elle Fanning è brava brava come la sorella Dakota, ma possiede anche un nome normale. Tutto intorno, un mare di cameo e piccoli ruoli che non lasciano (volutamente) alcuna traccia.
Cara Sofia, come esercizio di stile, non c’è male, ma si può fare di meglio: la metafora della macchina che inizialmente gira a vuoto e invece alla fine va da qualche parte (somewhere?) mi è sembrata eccessivamente scolastica e molte scene sembrano pensate appositamente per la colonna sonora e non viceversa. Il compitino è scritto in un bello stile e con una bella calligrafia, l’argomento è ben padroneggiato ma manca di sostanza e coraggio. Per punizione, domani vieni a scuola accompagnata da papà.
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