lunedì 26 aprile 2010

La Fisica dell'Acqua

“La Fisica dell'Acqua” di Felice Farina, proiettato a Pesaro l’anno scorso ed al convegno romano "Cinema Italiano e culture Europee", è un piccolo grande film. Si pone ambizioni alte, in termini di script e produzione, è necessario parlare di sperimentazione per quello che Farina ha realizzato, in termini di effetti speciali: ce ne sono più qui che in tutto il cinema italiano degli ultimi cinque anni, forse, e sicuramente c'è una cura di questo aspetto non usuale nelle produzioni nostrane, dove si distinguono di solito anche gli sfondi finti e i doppiaggi a basso costo. Felice Farina, presentando il film, ha parlato delle riprese (terminate nel 2005) come di un atto obbligato ma quasi di minore importanza rispetto alla preparazione dell'immagine ed alla sua elaborazione digitale. Il piccolo Alessandro (uno straordinario Lorenzo Vavassori, sette anni all'epoca delle riprese) è inspiegabilmente turbato dall'arrivo dello zio Claudio (Claudio Amendola), fratello del suo defunto padre. Alessandro provoca deliberatamente un incidente in cui restano coinvolti Claudio e Giulia (Paola Cortellesi), madre del bambino. Nell'attesa di sapere se la mamma sta bene, Alessandro viene affidato ad un commissario (Stefano Dionisi) che comincia a scavare nel suo passato per cercare una verità sepolta nella memoria. L'acqua è l'elemento centrale del film: Alessandro ne è terrorizzato, la casa dove la famiglia vive è in riva al lago, le strane allucinazioni di Alessandro hanno tutte a che vedere con l'acqua, Giulia è un'istruttrice di nuoto. Il titolo dell'opera fa riferimento alla capacità dell'acqua di nascondere in profondità e far riaffiorare, in momenti o luoghi diversi i corpi, così come la memoria può farlo con i ricordi. Di là dagli aspetti tecnici, che vanno sottolineati in un contesto nazionale che insegue affannosamente le altre scuole dal punto di vista tecnologico e di ricerca, il film si rivela piano piano come un thriller psicologico e quasi sovrannaturale, un viaggio nella mente di un bambino, i cui fantasmi sono però proiettati nella realtà ed allo spettatore solo verso la fine vengono dati gli elementi per separarli da essa. Il tempo è dilatato dalla narrazione non lineare scelta da Farina per confondere il pubblico e trasmettere il senso d’angoscia che pervade il piccolo Alessandro nel suo giorno più lungo. Complimenti a Farina per essere riuscito a creare in maniera autentica il punto di vista di un bambino in difficoltà, in sospeso tra un passato che fatica a riemergere e un presente di angoscia totale e solitudine.

lunedì 19 aprile 2010

L'uomo nell'ombra

Spettabile redazione di Not In Kansas, ho ricevuto le bozze della recensione di L'uomo Nell'Ombra, e come sempre ho dovuto metterci pesantemente le mani, per tirarne fuori qualcosa di vagamente leggibile. Possibile che ancora non siate riusciti a convincere il mio datore di lavoro che se voleva scrivere non doveva fare Ingegneria Elettronica ma Lettere e Filosofia? E poi, non si accorge che gli cambiate tutte le recensioni? Per carità , mi pagate anche bene, è solo che non è che posso fare il ghost writer per tutta la vita, tengo famiglia. Vi scrivo questa lettera perchè ho notato uno strano comportamento del mio datore di lavoro, recentemente. Allora, invece di farmi una padellata di cavoli miei, gli ho fregato la moglie, gli ho fregato la macchina e mi sono messo ad indagare. Ho scoperto delle cose terribili ed impensabili, ma le ho messe in codice così non le trova nessuno, e la mia morte brutale sarà scambiata per un incidente e sarà del tutto vana. Vostro affezionato Ghost Writer P.S. va bene stare nell'ombra, ma almeno la corrente elettrica potreste attaccarmela, la sera è difficile scrivere al buio. P.P.S se mai faranno un film sulla mia vita, mi piacerebbe essere interpretato da Ewan McGregor.

Cella 211

Colpa mia: non ho mai sentito nominare Daniel Monzon. Scopro ora che Cella 211 è il suo quarto lungometraggio. Tra poco secondo me lo vedremo ad Hollywood, a dirigere kolossal, quindi è meglio godersi i suoi lavori finchè sono autentici ed indipendenti. Cella 211 è questo: un film che per genere e tematiche trattate viaggia costantemente sulla buccia di banana, senza mai scivolare. La tensione comincia dopo una manciata di minuti (ed una delle scene iniziali più macabre che ricordi) e non finisce mai, non si scioglie neanche ai titoli di coda. Fosse stato un film americano avremmo avuto ben altro finale e ben altre concessioni al relax. Invece il cinema spagnolo ci regala un'altra gemma in un genere – il film “de priggione” - i cui maestri americani devono cominciare a rimettersi sui libri per evitare brutte figure. In Italia, manco a dirlo, l’ultimo film sul carcere era quello in cui Kasia Smutniak e Luciana Littizzetto inscenavano un musical con i detenuti e nessuno voleva fare Giuda. “Te lo meriti, Alberto Sordi!“… Juan Oliver fa visita al carcere in cui il giorno dopo dovrà prendere servizio. Quando un pezzo del fatiscente soffitto si stacca e lo colpisce alla testa, Juan viene adagiato nella cella 211, libera, in attesa di soccorsi. Proprio in quel momento scoppia una violenta rivolta nel braccio in cui si trova Juan, e i detenuti, capeggiati dal pericolosissimo Malamadre, occupano il settore. A Juan non resta che fingersi un pericoloso omicida ed accettare le regole di Malamadre per sperare di uscire vivo da questa situazione e riabbracciare la moglie Elena. Malamadre però ha in ostaggio tre terroristi dell’ETA e le trattative con il governo si rivelano più difficili del previsto, soprattutto dopo che Elena viene coinvolta in uno scontro con la polizia fuori dal carcere… A memoria: Fuga per la vittoria, Il ponte sul fiume Kwai, La grande fuga, Fuga da Alcatraz, Sorvegliato Speciale, Il Miglio Verde, Le Ali della Libertà, Sleepers. I film ambientati in carcere si basano su topos letterari consolidatissimi: un direttore e un capo delle guardie che più infame non si può, almeno un detenuto infamissimo (ma sempre meno del capo delle guardie), un altro detenuto che alla fine è solidale con il protagonista, una certa etica tra assassini che –nella sua aberrazione – pare più rispettabile di quella tra le guardie, un finale in cui il protagonista bene o male ottiene, seppur ad un prezzo elevatissimo, una qualche forma di ricompensa. A parte “Il Miglio Verde”, in cui il capo delle guardie è il protagonista (ed è Tom Hanks) e quindi i canoni si ribaltano, al luogo comune non sfugge nessuno. Neanche Cella 211, infatti, si salva, ma non fa niente, anzi. La forza di questo film è nella tensione che genera immediatamente, nella claustrofobia e nel senso di ineluttabilità che piano piano ci invade mentre Juan vive il suo inferno. La mezz’ora finale è devastante per chi, confortato comunque da una discreta cultura cinematografica e da tutti i topos di cui sopra e, si aspetta anche l’ultimo di quelli che ho citato. Invece col cavolo. La sceneggiatura è impeccabile, l’idea di partenza molto interessante: anche se per forza di cosa ricade nel filone “infiltrato che non deve farsi scoprire sennò lo fanno a strisce”, il fatto che il tutto avvenga per un incidente e che a quel punto sia l’istinto di sopravvivenza a guidare Juan e non, ad esempio, un addestramento mirato rende tutto molto più interessante e coinvolgente. La regia poi è strepitosa nelle inquadrature anguste e affollate del carcere, risolte sempre in maniera estremamente funzionale alla tensione drammatica. Evito commenti e prese di posizione sull’argomento “detenuti” in generale, sul ruolo e le mancanze dello stato, sugli abusi di potere in prigione, sui diritti fondamentali dell’uomo. Il punto di vista degli autori è chiaro, forse eccessivamente, ma Cella 211 è fiction, come tale mi ha emozionato e come tale lo commento e lo valuto. Inoltre l’elemento tragico contingente influenza il giudizio su molti dei personaggi, non si deve generalizzare e strumentalizzare. Al più si può dire che, purtroppo, l'idiozia delle persone è spesso direttamente proporzionale al ruolo che ricoprono, ma questo vale un po' in tutti i campi.
Una cosa: la voce di Francesco Pannofino è mezzo film, in italiano, ma io mi sono stufato di sentire sempre lui, siamo ai livelli di Insegno e del fu Amendola sia come bravura che come invadenza.

venerdì 16 aprile 2010

Fantastic Fox Family

Il cinema di Wes Anderson ha una tematica centrale: la famiglia e - spesso - lo squilibrio creato dal successo e dal talento variamente distribuito tra i suoi membri...Fantastic Mr. Fox non fa eccezione, perciò ecco una carrellata sui membri più celebri e talentuosi della famiglia Fox: Vivica A. (vista - vestita - in Kill Bill, ma su google esce certa roba...)

Samantha (ai bei tempi)
Megan (l'ultimo cucciolo)
e soprattutto Micheal J.
qui senza trucco, simile al Fantastic Mr Fox di Anderson:
Evviva la famiglia Fox!!!!

Perdona e Dimentica

"Quand'è che si dimentica senza perdonare?"
Joy (Shirley Henderson) scopre che il marito Allen non è guarito dalla perversione sessuale che lo affligge e decide di prendersi una pausa, mentre è tormentata dal fantasma di un vecchio corteggiatore morto suicida. Helen (Ally Sheedy), sorella di Joy, ha rotto con la famiglia ed è alle prese con il lato oscuro del successo. Trish (Allison Janney), sorella maggiore e madre di tre figli, cerca di rifarsi una vita (il marito Bill è in carcere condannato per pedofilia), mentre il figlio adolescente Timmy (Dylan Riley Snyder) scopre casualmente la verità sul padre, che credeva morto, e ne resta sconvolto. Bill (Ciaran Hinds, bravissimo) nel frattempo esce dal carcere… Esce oggi “Perdona e dimentica” (Life During Wartime) di Todd Solondz, che dieci anni fa fece scalpore con Happiness, dove temi delicati quali la perversione sessuale e la pedofilia venivano trattati in maniera poco convenzionale (l'ho letto su Wikipedia, eh). I protagonisti di quel film, tutti interpretati, per scelta del regista, da attori diversi, tornano per questa sorta di seguito / rielaborazione, in cui Solondz continua a mischiare con mestiere la commedia nera, lo humor yiddish e la tragedia sociale. Non c’è nessuna guerra, come sembra suggerire il titolo, anzi: a parte qualche riferimento all’amministrazione Bush, il film è del tutto atemporale, ambientato in una placida Florida dai colori saturi al riparo dal mondo esterno.
Il perdono e la dimenticanza sembrano essere le due facce della medaglia da indossare per innescare un cambiamento, una redenzione: “si può perdonare e non dimenticare, o perdonare e dimenticare, ma quand’è che si dimentica senza perdonare?” si chiede uno dei personaggi ad un certo punto. La domanda chiave è questa, ma Solondz si guarda bene dal dare una risposta univoca. L’apparato tecnico è un elemento di narrazione preponderante: scenografia, costumi, fotografia, inquadrature, ci pongono a distanza di sicurezza dalla tragedia, racchiudendo in un mondo che sembra un palcoscenico tutti gli elementi scabrosi e drammatici. In questo modo Solondz riesce a calibrare l’empatia ed il giudizio su quel che racconta. Ogni singola vita è tragica e comica allo stesso tempo, dipende dal punto di vista, dal modo di raccontarla e dal modo in cui ogni persona reagisce a ciò che capita. Un nuovo punto di vista sulla vita delle sorelle Jordan è quello a cui Solondz è arrivato prima in fase di scrittura e poi rivoluzionando il cast rispetto ad Happiness. Impietosamente, Solondz mette gran parte dei personaggi nella condizione estrema in cui per loro sia impossibile non solo dimenticare, perdonare e farsi perdonare, ma persino comprendere che quella sarebbe la strada da imboccare. I traumi che li hanno devastati li hanno resi persone diverse (persino fisicamente…) ma non migliori, non capaci di metabolizzare il dolore o affrontarlo. L’unico personaggio che apparentemente sembra avere una prospettiva è il piccolo Timmy, ma Solondz in realtà non risolve i suoi conflitti, lasciando campo a problemi psicologici latenti dovuti alla terribile rivelazione che Timmy deve affrontare in così giovane età.
L’occhio di Solondz è compassionevole (basta vedere il personaggio di Bill, alla ricerca di un perdono che per primo non si concederà mai) oltre che impietoso, e questo spiazza certamente, ma non c’è apologia della perversione. Ogni persona nasconde e combatte –finchè può- un lato oscuro. “Perdona e Dimentica” racconta di un gruppo di persone che hanno perso questa battaglia e ne pagano le conseguenze per anni, per sempre.
“Perdona e dimentica” pertanto è un film difficile, che disgusta e inquieta mentre fa ridere, che vive di scarti improvvisi, di accostamenti coraggiosi tra registri molto diversi tra loro. Non a caso sta uscendo in Italia solo ora, dopo essere stato presentato allo scorso Festival di Venezia (dove ha vinto per la miglior sceneggiatura), ed in anteprima mondiale. Curiosità: l’adattamento dei dialoghi italiani è di Moni Ovadia.

martedì 13 aprile 2010

Fantastic Mr. Fox

"Sono un animale selvatico"
“Un film per adulti e bambini, o forse per nessuno dei due”. Con queste parole Wes Anderson ha presentato il film all’Auditorium (qui l’articolo completo). Anderson non fa sconti neanche stavolta: c’è chi griderà al capolavoro e chi storcerà il naso perplesso. Io sono tra i primi, lo ammetto subito, per me Fantastic Mr. Fox è bellissimo, poetico e divertente come i Tenenbaum e Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou. C’è meno malinconia e più azione, ma nessuno scadimento nel clichè e nei luoghi comuni: infatti ha incassato pochissimo in America. Il cinema di Anderson è estremamente formale e controllato, la cura dei dettagli però non soffoca mai le emozioni, anzi. Vedendo Fantastic Mr. Fox a più riprese mi è sembrato di vedere I Tenenbaum e meravigliarmi di come Wes Anderson abbia riportato in un film animato tutto il suo cinema. In realtà forse è proprio il contrario: Anderson è riuscito, finora, a fare degli enormi cartoni animati pop in live action prima di approdare al film definitivo. Lo stile volutamente vintage è pura poesia, dalla scelta della stop motion con uno stranissimo frame rate (decisamente meno di 24 fotogrammi al secondo in gran parte delle scene) ai costumi, dalla colonna sonora alla fotografia, tutto calcolato e tutto perfetto.
Sembra un vecchio libro animato più che un film del ventunesimo secolo, il trucco c'è e si vede, ma non stranisce mai, così come la presenza di un piccolo mondo in miniatura abitato dagli animali uguale in tutto a quello degli uomini vicini di casa: si passa troppo tempo a meravigliarsi e divertirsi per pensare all'assurdità della cosa.
La sceneggiatura riprende il libro di Roald Dahl aggiungendo il primo e l’ultimo atto, che infatti sono molto andersoniani rispetto alla sezione centrale, più frenetica. Alcune gag sono geniali: il tuffo dei due cuccioli di volpe, tutto il primo raid nel pollaio, l'incontro con il lupo e la partita di baseball (o quel che era) a scuola sono le perle di uno scrigno davvero ricco. Non voglio aggiungere altro, mi aspettavo molto e sono rimasto comunque sorpreso, non bisogna farsi trarre in inganno dal fatto che sia un film d’animazione, è roba da adulti e neanche per tutti. I film di Anderson sono tutti giocati sul filo di un equilibrio molto precario, tra autocompiacimento, estetica e ironia che mascherano e proteggono un mondo più profondo. Fantastic Mr.Fox non fa eccezione, anche se fa più ridere degli altri, e va gustato senza bambini in sala (che si annoieranno non poco). Uno dei migliori film quest’anno, finora, vediamo quanto ci mette Salvatores adesso a darsi all’animazione.

giovedì 8 aprile 2010

Basilicata Coast to Coast

"La Basilicata è come il concetto di Dio: o ci credi o non ci credi. Io credo nella Basilicata. L'ho vista"
La recensione di Basilicata Coast to Coast è qui
Il report della conferenza stampa e qualche analisi ulteriore qui

Sunshine Cleaning

Ora, sono sincero, non è che ricordi granchè di questo film (regista, montaggio, colonna sonora…mah??) . L’ho visto in aereo l’anno scorso, in lingua originale, su uno schermo minuscolo e credo anche di essermi abbioccato ogni tanto. Cosa che non depone a favore, visto che non mi addormento mai, soprattutto al cinema e in aereo. Se non sbaglio, Sunshine Cleaning era il quarto (last but not least, comunque) di una deludente maratona aerea durante un volo Roma-Detroit che comprendeva Dragon Ball Evolution (voto 4) , Two Lovers (voto 6,5) e Last Chance Harvey (voto 5,5). Comunque, lo sconsiglio vivamente: due sorelle spiantate che aprono una ditta di pulizia delle scene dei delitti (sangue, letti con resti di putrefazione...immaginate tutte le gag legate a queste situazioni e avete visto mezzo film), ritrovano così il loro rapporto e danno un senso a questa vita che un senso non ce l’ha. E sai che novità. Il cinema indipendente americano soffre degli stessi difetti del cinema mainstream: è costruito su stereotipi semplici e riconoscibili. Mentre per un cinema di cassetta questo potrebbe anche non essere un difetto, per il cinema (sedicente) indipendente, beh, è quanto di peggio ci possa essere. Non che Sunshine Cleaning sia tanto peggio di altri film (Little Miss Sunshine, Juno, Rachel sta per sposarsi, The Soloist ad esempio), solo che gira a vuoto dall’inizio alla fine, non comunica, non sorprende, non commuove. Lo specchio per le allodole è ovviamente la presenza delle due star all’epoca in rampa di lancio, Emily Blunt ed Amy Adams, carine carine che le prenderesti a sprangate. In Italia, ovviamente, si è atteso che le due prendessero parte a qualche film di cassetta prima di distribuire questa pellicola che dal trailer sembra una commedia. C’è ben poco da ridere, invece, perché la situazione che viene raccontata è drammatica e deprimente, una faccia del sogno americano in penombra che solitamente non viene esportata: la provincia a due chilometri di curve dalla vita in cui al massimo diventi l’amante del tuo ex del liceo.
L’ottimismo di prammatica che viene servito a fine film tanto per dare una conclusione positiva invece è l’ennesimo luogo comune che affossa definitivamente il film. Le formule matematiche funzionano sempre, il risultato è sempre quello atteso e così anche Sunshine Cleaning è esattamente quello che vuole essere. Ma a memoria d’uomo, un risultato atteso, una banale somma di semplici addendi, non ha mai emozionato nessuno.

giovedì 1 aprile 2010

Happy Family

“Questo film è dedicato a chi ha paura”
Ecco, io ho paura che a Salvatores siano finite le cose da raccontare. L’ultima dedica che ricordo in un film di Salvatores era “dedicato a tutti quelli che stanno scappando”, in Mediterraneo. Da allora sono passati venti anni e qualcosa è cambiato. Gabriele Salvatores è diventato grande, è diventato un grande regista ma forse mai un grande autore. I suoi ultimi film sono tutti impeccabili dal punto di vista tecnico, estetico, registico, ma mancano di anima, di sostanza, ti lasciano non appena finiscono.
Però questo è il tipico film che piace a tutti, è piaciuto pure a me in fondo, se stronco anche questo, apriti cielo. Diciamola tutta: se fosse opera di un giovane regista, non esiterei a scagliermi contro la sua “paraculaggine” e l’evidente plagio da “i Tenenbaum” di Wes Anderson (se sono identiche persino le inquadrature, parlare di omaggio è fin troppo generoso). Scriverei che nel cinema italiano non c’è coraggio, non c’è più nessuno che sappia lavorare sui toni della commedia, come faceva, ad esempio, Gabriele Salvatores. Invece porca miseria è proprio di lui che devo scrivere. Però come fai a stroncare Salvatores. E’ pure dell’Inter. Ah! Faccio finta che non ho capito e che penso sia il remake ufficiale de “I Tenenbaum” e salvo capra e cavoli. Per essere il remake de “i Tenenbaum”, Happy Family è fantastico. Salvatores trova la giusta misura per impiantare a Milano le atmosfere familiari surreali e tese care a Wes Anderson, affindando ai suoi dioscuri Bentivoglio e Abatantuono i ruoli di capofamiglia e a Fabio De Luigi il doppio ruolo di autore / personaggio. In più Salvatores aggiunge un tocco personale per deviare dall’originale: una storia cornice (lo scrittore Ezio che decide di scrivere un film) intrecciata con la storia raccontata (le due famiglie e la cena), i personaggi che parlano e si ribellano all’autore, un finto finale, metacinema surreale, rottura del quarto muro (in gergo…i personaggi che parlano con il pubblico), una sequenza musica e immagini in b/n che sembra un corto. Arrivato dov’è, Gabriele Salvatores ci regala un piccolo compendio di regia, impreziosito dalla recitazione brillante dei suoi interpreti, una commedia dai toni leggeri e slegata per una volta da intenti satirici o polemici. Non c’è politica, non c’è storia, non c’è contesto sociale. L’ambiente artefatto in cui i personaggi si muovono è palesemente non reale, finzione nella finzione, storia nella storia. Ogni inquadratura è costruita su se stessa, geometricamente preparata e cromaticamente studiata per dare un effetto di assoluta inverosimiglianza. Rispetto a “i Tenenbaum” viene accentuato il lato grottesco su quello sociologico (le conseguenze dei legami familiari) per dare spazio ai battitori liberi della battuta Abatantuono e De Luigi. Ecco, dovrebbe bastare.
“I finali non vengono mai”
E meno male che Salvatores lo fa dire al suo personaggio/autore/personaggio Ezio (De Luigi) quando i personaggi si ribellano al finale sospeso costringendolo ad inventarne uno più conclusivo. Cos’è? Uno scherzo? Il finale della storia delle due famiglie funzionicchia (sempre Tenenbaum), il finale della storia cornice è imbarazzante. Appunto, non vengono mai. Per essere il film di uno dei massimi registi italiani, Happy family è una delusione. Non è accettabile da un regista bravo e capace, di livello internazionale, come lui un film senza un minimo di originalità, pervaso da una pretesa di autorialità che –appunto- non gli appartiene e, cosa ben peggiore, appartiene a Wes Anderson, ma anche a Woody Allen, tanto per citarne un altro a casaccio. Se Happy family sarà il primo film che vedete negli ultimi quindici anni, lo adorerete, altrimenti, bah.